Il Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in partenariato con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali AMAT, il Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’Arboreto Teatro Dimora – La Corte Ospitale), la Fondazione Luzzati Teatro della Tosse di Genova, l’Associazione Zona K di Milano, la Fondazione Piemonte dal Vivo – Lavanderia a Vapore, la Fondazione Romaeuropa, lanciano il presente bando per la selezione di n° 6 progetti di Residenza Digitale da svilupparsi nel corso dell’anno 2022.
L’intento è quello di stimolare gli artisti delle performing arts all’esplorazione dello spazio digitale, come ulteriore o diversa declinazione della loro ricerca autoriale. Dovrà trattarsi di progettualità artistiche legate ai linguaggi della scena contemporanea e della performance, che nascano direttamente per l’ambiente digitale o che in esso trovino un ambito funzionale ed efficace all’esplicitarsi dell’idea artistica. A titolo di esempio: non si tratta di presentare percorsi di lettura o riprese video di testi o spettacoli esistenti o da farsi, bensì di concepire progetti artistici che abbiano nello spazio web il loro habitat ideale, indicandone anche le modalità di fruizione e interazione da parte dello spettatore, per il quale prevedano un accesso attraverso il pagamento di un biglietto, di modo da valorizzare il lavoro dell’artista, non come una gratuità. Il progetto deve prevedere una restituzione on-line aperta al pubblico, da tenersi nel corso del mese di novembre 2022.
Ciascuna delle 6 proposte vincitrici riceverà un contributo di residenza di 3.500 euro + iva, che sarà pagato dietro la presentazione di regolare fattura.
I promotori del presente bando hanno individuato in Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti tre esperte nell’ambito della creazione digitale che saranno le tutor degli artisti durante lo sviluppo dei loro progetti: ciascuna di loro seguirà specificamente 2 dei 6 progetti vincitori.
I 6 lavori vincitori potranno avvalersi anche di altri contributi produttivi forniti da ulteriori soggetti dello spettacolo, ovvero non si richiede loro alcun vincolo di esclusiva per ciò che riguarda la produzione che resta nell’assoluta disponibilità gestionale degli artisti. Oltre ai 6 progetti vincitori, è prevista l’eventualità che i promotori del presente bando segnalino un numero ristretto di altri progetti, per portarli all’attenzione del sistema teatrale e coreografico nazionale, con l’auspicio che altre istituzioni possano a loro volta sostenerli, alle medesime condizioni del presente bando.
Gli artisti interessati al partecipare alla selezione dovranno entrare nel portale www.ilsonar.it, selezionare le pagine relative a bando Residenze Digitali e compilare i campi richiesti dal modulo di partecipazione online. Verranno richiesti loro:
una presentazione dell’artista o della compagnia (massimo 1.000 battute);
una descrizione del progetto di Residenza Digitale che si intende realizzare (massimo 2.000 battute);
l’indicazione dell’eventuale partner tecnico (programmatore, webmaster, fornitore di specifico know-how) e/o della piattaforma che supporti le necessità tecniche dell’opera;
un allegato di tipo non testuale che possa illustrare le modalità di realizzazione on-line previste e/o immaginate (video, audio, pdf, PowerPoint), che potrà essere caricato come allegato o fornito come link esterno.
I materiali sopra descritti dovranno essere caricati online entro le ore dodici (mezzogiorno) di giovedì 24 febbraio 2022.
É possibile che gli organizzatori invitino alcuni degli artisti a un colloquio conoscitivo, da realizzarsi in videoconferenza, nel periodo 21-25 marzo, con i candidati che avranno superato la prima fase della selezione. All’atto di invio dei propri materiali, gli artisti e le compagnie accettano implicitamente tutte le norme contenute nel presente bando, incluso il Decalogo allegato che ne costituisce parte integrante.
Con il presente bando, il Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt) e i suoi partner AMAT, Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’Arboreto Teatro Dimora – La Corte Ospitale), Teatro della Tosse, Zona K, Piemonte dal Vivo, RomaEuropa, non vogliono rinunciare alla propria vocazione di accoglienza degli artisti in residenza presso le proprie strutture, piuttosto vogliono esplorare un’ulteriore opportunità di creazione che apre nuove sfide formali e concettuali, produce contenuti artistici innovativi e affianca le forme consuete di fruizione dello spettacolo dal vivo.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Articolo a cura di Federica Balbi e Serena Previderè
Si è conclusa lo scorso 28 novembre la settimana di Residenze Digitali, festival online dedicato alle contaminazioni tra arti performative e ambiente digitale promosso dal Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt) in partenariato con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali, Cooperativa Anghiari Dance Hub, ATCL – Circuito Multidisciplinare del Lazio per Spazio Rosellini, Centro di Residenza dell’Emilia Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, La Corte Ospitale di Rubiera), Fondazione LuzzatiTeatro della Tosse e ZONA K.
La rassegna, nata nel 2020 e giunta con successo alla sua seconda edizione, sostiene progetti artistici e performativi legati ai linguaggi del contemporaneo che si distinguono per un utilizzo sperimentale dell’ambiente digitale, sia esso inteso come spazio deputato entro cui sviluppare la propria idea, sia come strumento funzionale per esplicitarla. L’intento è quello di aprire e aprirsi all’esplorazione di nuove opportunità di creazione e fruizione, producendo contenuti innovativi di altissima qualità destinati a stimolare nuove riflessioni sul concetto di spettacolo dal vivo.
Il bando – che ha cadenza annuale – era stato lanciato durante la scorsa primavera attirando la partecipazione di ben 178 compagnie, tra le quali sono stati selezionati i 7 progetti meritevoli destinati ad ottenere, nel corso dei sette mesi a venire, un sostegno economico e di tutoring (da parte delle studiose Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti) attraverso cui sviluppare la visione artistica, i modelli di realizzazione e la forma di restituzione al pubblico. L’esito di questo percorso è andato per l’appunto in scena nella settimana di Residenze svoltasi dal 22 al 28 novembre, con un ricco calendario di appuntamenti che ha visto alternarsi quotidianamente i singoli progetti artistici e talk di approfondimento sulle macro-tematiche toccate dai principali spettacoli presentati.
Tra interferenze e libertà
L’esperienza delle Residenze Digitali obbliga a confrontarsi non solo con una lunga serie di quesiti, ma anche di contenuti multimediali insoliti. Se da un anno e mezzo si sono incrementate la ricerca e la sperimentazione verso il digitale, le performance della Rassegna non paiono delle risposte, piuttosto delle proposte, senza aspirazioni a qualche forma di perfezione, senza la pratica di anni e decenni, ma con la voglia di dar vita alla particolare dimensione ludica che è assente dalle nostre vite quando i palcoscenici sono chiusi.
Per questo motivo, anche se siamo fruitori e consumatori di prodotti multimediali, le performance delle Residenze hanno una componente estranea, scomoda e intrigante. Al contrario della maggior parte di ciò che possiamo fruire attraverso uno schermo, queste performance non seguono regole “di genere”: quando scelgono di imporsele, non lo fanno nell’ottica di obbedire a un programma di fruizione ideale, ma cercando di risvegliare altri stimoli, altri sensi, cercando di essere più “digitali”, quasi tattili, e non soltanto ottiche.
È così che si creano situazioni tecnologicamente improbabili, grossi anacronismi, che gli “errori” tecnici aprono vasti spazi di libertà. Cambiando il mezzo poi, cambiano i riferimenti: non tanto più alla storia del teatro o delle arti performative, ma alla cultura popolare, all’immediatezza del momento storico presente, a film, videogiochi, o cartoni animati e alla storia di queste più recenti forme d’arte, in un meccanismo di citazioni il cui funzionamento è forse vicino a quello che avviene sul palcoscenico, ma inserito in un sistema diverso. Il viaggio anacronistico attraverso cui ci accompagnano le performance, ricco di interferenze, può essere raccontato in molti modi. Proviamo qui a tracciarne un percorso.
Into the Woods eWastage Of Events utilizzano due diverse tecniche di animazione. Il primo, il cui titolo è già citazione, pare un cartone animato dalla tecnica ormai quasi obsoleta (pur essendo girato e non realizzato in stop motion), realizzato facendo muovere manualmente oggetti e personaggi all’interno dell’inquadratura. Le inquadrature, però, sono due, in 4k e a 360°, e lo spettatore può scegliere il punto di vista da cui osservare la performance. Wastage Of Events, al contrario, sfrutta le tecniche della modellazione in 3D, con cui sono realizzati oggi cartoni animati e videogiochi. La configurazione è più vicina a quest’ultima categoria, ma invece di un protagonista che gioca, c’è un cursore che di volta in volta disegna, scaglia oggetti, crea, distrugge, inonda, e scappa, in un mondo ricordato dagli anni ’90.
Un piccolo excursus tecnico e temporale si ha anche attraverso altre tre performance. Olga legge i crittersè una diretta radiofonica, che si accompagna però allo sfogliare (o “scrollare”) delle foto dei vetrini da laboratorio in archivio. L’esperienza cessa di essere solo uditiva, ma avvicina ad una partecipazione attiva e invita a utilizzare la propria immaginazione. Whatever happens in a screen stays in a screen utilizza invece la tecnica del green screen, sviluppata intorno agli anni ’70, per animare fotografie, e schizza i personaggi in vari contesti. Con un salto indietro al tempo del cinema muto, le battute non sono udibili ma sovraimpresse, mentre i movimenti appaiono rallentati. Dealing with absence esplora invece una tecnologia più moderna, quella dei visori e della realtà aumentata, ma forse più di tutti riesce a riavvicinare lo spettatore a una forma nota più tradizionale, quella della danza. Come la ballerina rende visibili sensazioni ed emozioni attraverso i suoi movimenti, una danzatrice col visore restituisce non solo quello che vede, ma anche le sue reazioni, tanto fisiche quanto emotive.
Le ultime due performance ci riavvicinano a quella che per molti è stata l’esperienza del lockdown.fuse* propone una seduta di meditazione guidata, a cui lo spettatore può prendere parte, mentre strumenti di monitoraggio corporeo mostrano i dati dei processi fisici delle due performers. I am dancing in a room, invece, ci riporta alle videochiamate di gruppo che sono diventate esperienza comune, ai tentativi di stare vicini agli amici pur rimanendo confinati, e di fare tutto ciò che si è sempre fatto, cercando una maniera alternativa di “stare insieme”.
Lorenzo Montanini, Simona Di Maio, Isabel Albertini
Into the Woods – La finta nonna
Dieci brevi episodi tratti da La finta nonna, tra le Fiabe Italiane di Italo Calvino, raccontano la storia della piccola Anna, che viene mandata dalla mamma ad attraversare un bosco misterioso per raggiungere la nonna, che però è stata mangiata da un’orca cattiva. Rivolto ad un pubblico di giovani generazioni (a partire dai 7 anni), il mondo artigianale di Into the Woods ricreato attraverso il teatro di oggetti incontra una telecamera in 4K, una telecamera a 360° e un Lidar scanner per creare un ambiente immersivo e permettere così allo spettatore di fruire della storia in VR.
Chiara Taviani
Whatever happens in a screen stays in a screen
Ogni puntata del lavoro di Chiara Taviani mette in scena un personaggio, letteralmente. Rielaborando foto libere da copyright con la tecnica del green screen, il personaggio entra nelle inquadrature e le anima con gesti, sguardi, o con la sola presenza. La luce e gli effetti delle immagini rievocano un’estetica “vintage”, ma la dimensione videografica rimpicciolisce davanti al senso predominante di fissità, a cui contribuiscono le “pose” (piuttosto che le azioni) dei personaggi, e il loro sguardo spesso rivolto verso la camera.
Margherita Landie Agnese Lanza
Dealing with Absence
Le inquadrature di Dealing with Absence rappresentano sempre una danzatrice, sola se non per qualche passante inavvertito. Pur indossando un visore, che impedisce di vederne il volto, ciò che lei vede è trasmesso – trasformato – attraverso i suoi movimenti e la sua danza. Le due protagoniste, mai compresenti nella stessa inquadratura, sono talvolta sdoppiate, o specchiate, o creano una simmetria inesatta. L’insistenza sulla dimensione visiva e sull’immagine dello specchio accresce la sensazione di solitudine, o di isolamento, percepibile dall’esterno, anche se verosimilmente non dall’interno.
Jan Voxel (Lorenzo Belardinelli, Cinzia Pietribiasi e Lizia Zanelli)
Olga legge i critters
Performance asincrona, Olga legge i critters è una diretta radiofonica che si accompagna ad un archivio di immagini che lo spettatore può esplorare a suo piacere. Vi sono contenuti oltre 400 ingrandimenti di vetrini da laboratorio, fotografati dopo essere stati lasciati all’aria aperta. Alcuni intervistati, e lo spettatore stesso, sono invitati da una parte a immaginare conformazioni e creature (perché “i popoli senza immaginazione sono vittime di chi controlla le immagini” e “immaginare significa soprattutto fare politica”), dall’altra parte a riflettere sul contenuto, più o meno salubre, dell’aria che respiriamo. Quella presentata da Jan Voxel è una pièce ecocritica che trova un linguaggio efficace per parlare di scienza, ma anche di condizione umana, di politica e di storia presente, passata e futura.
fuse*
Sàl | Rite – Studio 0.2
Sàl | Rite è il secondo studio all’interno del più ampio progetto Sàl – “anima” in islandese – che presenta i tratti di una sessione live di meditazione guidata durante la quale i tracciati neurofisiologici dei due performer partecipanti vengono raccolti in tempo reale e presentati in una geometria di dati che appare in sovrimpressione sullo schermo. Si può scegliere di prendere attivamente parte alla sessione meditativa dotandosi di tappetino, cuscino e sedia, oppure di fruire la performance da spettatori. A conclusione del percorso esperienziale si viene condotti verso un momento di rielaborazione e consapevolezza e si è chiamati a rispondere ad alcune domande riguardanti l’esperienza appena vissuta: le risposte verranno raccolte in un database destinato alla creazione di un archivio di sensazioni.
Giacomo Lillù, Collettivo Ønar e Lapis Niger
WOE – Westage of Events
“Scorie degli eventi” sono quelle che rimangono su una pietra dalle centinaia di anni della sua esistenza. Cosa resta allora su una chiavetta USB dopo esser stata usata, magari riscritta, o dopo che i suoi file sono stati cancellati? Cosa resta di un floppy disc? WOE ricostruisce una memoria tra umana e digitale, ne analizza i sentieri e gli esiti, mentre un cursore ripercorre un paesaggio deserto e i corridoi di una scuola abbandonata, in mezzo a oggetti e immagini arrivati dal Giappone negli anni ’90. Mentre il cursore “gioca” il videogioco della memoria, alterando e distruggendo, gli spettatori possono partecipare in maniera attiva scrivendo i loro messaggi sulla chat pubblica della piattaforma Twitch.
Mara Oscar Cassiani
I Am Dancing in a Room – La Fauna 2k21
Utilizzando la piattaforma social tumblr, MOC compone una performance digitale corale, una coreografia sincopata e persistente a partire dalla rielaborazione del concetto di fauna, intesa come habitat della rete e delle sue molteplici forme di manifestazione. Attraverso lo schermo, lo spettatore è portato a ridurre il senso di lontananza e gli è concesso di entrare nell’intimità della stanza (fisica e virtuale) di ciascun utente, esplorando ed indagando il concetto di assenza, di internet–loneliness e di ricerca di un contatto con l’esterno al di là del vetro di un dispositivo.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Presso l’Auditorium di Spin Time Labsdi Roma, all’interno della programmazione artistica organizzata dal collettivo di Spin OFF,va in scena il 2 e il 3 Marzo Nessuno può tenere Baby in un angolo.
Secondo progetto della compagnia Amendola/Malorni, dopo il grande successo de L’uomo nel diluvio, lo spettacolo – come scrive Anna Barenghi di Rai Cultura – è uno di quei gialli in cui non è tanto importante trovare il colpevole, ma farci respirare l’odore della benzina, il buio di una stazione, l’emozione di poche battute scambiate con una cliente; una storia d’amore tutta in potenza, spenta prima di nascere.
L’autore Simone Amendola risponde ad alcune domande in merito alla creazione dello spettacolo e al relativo percorso produttivo al TAN di Napoli e a Carrozzerie N.O.T, e ai felici esiti scenici ottenuti in diverse oasi teatrali quali Attraversamenti Multipli, Short Theatre, Kilowatt e Todi Festival.
Un giallo. La colpa della normalità, non solo la ricerca dell’assassino.
Alla cronaca arrivano i fatti, ma la verità è sempre più complessa.
Gli indizi stringono su un solo uomo: uno che poteva fare tante cose e fa il benzinaio.
Nessuno può tenere Baby in un angolo
Genesi creativa di Nessuno può tenere Baby in un angolo
Avevo letto un trafiletto di cronaca in cui scrivevano del ritrovamento di un corpo di una donna senza testa in una pompa di benzina sulla via Casilina di Roma. Questa notizia mi è rimasta in testa fluttuando, una cosa molto forte che mi ha segnato. Successivamente un attore mi ha chiesto un testo per una nuova produzione. Così un giorno senza pensarci troppo ho iniziato a scrivere questa storia. Ho immaginato la storia di un uomo che prima viveva una vita normale, a cui, poi, rovinano la vita incolpandolo di un omicidio brutale. Un uomo a cui, forse, danno anche la possibilità di guardarsi più a fondo.
Di base avevo un forte interesse personale nello scrivere questa storia in un periodo in cui mi ero avvicinato alla psicoterapia per migliorare il mio modo di stare al mondo e anche di amare. Quindi in qualche maniera quella è diventata una storia paradigmatica, non soltanto nella ricerca di un assassino ma per vedere come alla fine un uomo sta al mondo, come si rapporta con le donne o come le esperienze vissute all’apice della passione in adolescenza riescano a continuare a essere vive. Volevo provare a vedere in profondità attraverso il racconto di una storia, non attraverso delle riflessioni filosofiche.
Essendo il testo composto da tre atti, nel primo passaggio produttivo abbiamo messo in scena il I atto al festival Attraversamenti Multipli dove ci hanno invitato. Questo è stato un buon modo per costruire insieme a Valerio Malorni un nuovo immaginario rispetto all’idea precedente attraverso la creazione di una relazione coll’oggi e lavorando molto sul personaggio. Dopo ci sono state queste due residenze: prima a Napoli al Tan e a Start/Interno 5 e poi a Roma a Carrozzerie N.O.T.
Lo spettacolo è cresciuto piano, e poi, come succede spesso, continua a crescere. Abbiamo fatto un’anteprima a Short Theatre che aveva dei punti tematici messi a fuoco ma che durava 95′ minuti. Invece lo spettacolo di oggi si è ridotto. Nelle ultime repliche, Nessuno può tenere Baby in un angolo durava venti minuti di meno.
L’immagine ideale di toccare il fondo chiaramente è molto più a fuoco perché diventa una freccia non nei termini di velocità ma di intensità. Per quanto riguarda l’allestimento, molte delle idee sono venute stando nelle residenze. Come nel caso del I atto dello spettacolo, dove il protagonista sta su una sedia gigante, fuori misura rispetto a Malorni. A partire dalla relazione con questo elemento scenico, Valerio, nel tempo, ha preso sempre più confidenza col personaggio fino rendere labile il confine fra l’attore e il personaggio.
Era una sensazione che già avevamo, ma soltanto stare in un posto che ha un magazzino pieno di roba, ci ha fatto trovare ciò che cercavamo, inducendoci a fare le prove utilizzando una sedia molto grande: in effetti era l’oggetto scenico che rappresentava la nuova condizione in cui si trova il protagonista. Una persona normale in una situazione più grande di sé che lo costringerà a portarsi fino alla tomba il peso di un’accusa di omicidio.
Nessuno può tenere Baby in un angolo
Il lavoro registico e attoriale con Valerio Malorni
Valerio Malorni è cresciuto tanto dentro il personaggio portando molti elementi del teatro contemporaneo, attraverso il confronto con la storia reale di una persona che ha nome e cognome, studiando un modo di stare al mondo che attinge dalla realtà. In questo Malorni è riuscito a lavorare sul personaggio apportando tutta la sua qualità performativa, un lavoro attoriale che molti artisti, provenienti dalla scuola di prosa più classica e che sono abituati a lavorare con personaggi altri da sé, non riescono a fare. .
Questo testo è nato prima che l’attenzione mediatica sul femminicidio e sulla violenza delle donne si intensificasse. Nessuno può tenere Baby in un angolo nasce dall’esigenza di ragionare intorno a queste tematiche, andando anche a capire che uomo è colui che esercita la violenza sulle donne. Così, ne parliamo non attraverso la cronaca ma partendo dall’involuzione e anche dall’evoluzione spirituale di una persona.
TikTok è il social del momento con 800 milioni di utenti attivi al mese. Proprio su questa piattaforma ha debuttato Isadora – The TikTok Dance Project, una sperimentale residenza artistica digitale diGiselda Ranieri, danzatrice e coreografa, e Simone Pacini, esperto di comunicazione digitale. Il progetto, che guarda soprattutto ai giovani della Generazione Z, indagherà il tema della didattica a distanza e la possibilità di coinvolgere nuovi potenziali pubblici teatrali su una piattaforma “pop”.
Giselda Ranieri – Isadora – The Tik Tok Dance Project
L’idea è che le difficoltà causate dalla crisi sanitaria possano diventare un’opportunità per riaffermare il valore trasversale e comunitario dello spettacolo dal vivo, e che il web sia una delle vie per sostenerlo. All’evento finale si accederà attraversoil gruppo Facebook il Foyer di Isadora, che potrebbe raccogliere in futuro altri progetti performativi.
Isadora – The TikTok Dance Project è fra i sei vincitori di un bando promosso durante il lockdown, dal titolo “Residenze digitali”, a cura di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in collaborazione con AMAT, Anghiari Dance Hub, ATCL per Spazio Rossellini. Isadora ha trovato inoltre il supporto della rassegna internazionale di danza Resistere e Creare, diretta da Michela Lucenti di Balletto Civile e Marina Petrillo della Fondazione Luzzati Teatro della Tosse.
Giselda Ranieri, danzatrice di formazione classica e contemporanea, ha fatto della composizione istantanea il suo tratto distintivo. Dall’indirizzo www.tiktok.com/@isadora.danceme creerà una web performance interattiva basata sull’improvvisazione, a partire da un processo partecipativo ispirato alla didattica a distanza. In una seconda fase, Isadora – The TikTok Dance Project potrebbe diventare una proposta rivolta alle scuole.
I giovani coinvolti realizzeranno una coreografia basata su parametri coreografici come la ripetizione, il ritmo, lo stop motion, la segmentazione del movimento, dando vita a un processo di ricerca in linea con il “learning by doing” dellagenerazione Z, iperconnessa, performativa, con forte spirito autodidatta. Simone Pacini, docente per IED e Università La Sapienza di Roma, specializzato in Social media storytelling ed esperto di fruizione digitale, nel contempo monitoreràl’engagement e le reazioni dei followers e del contesto, in un dialogo con la danzatrice utile al processo artistico ma anche all’analisi delle potenzialità di questo social network in ambito culturale.
Il titolo omaggia chiaramente Isadora Duncan, figura rivoluzionaria della danza e donna emancipata che, in questa occasione, (ri)vive sulla piattaforma più scaricata al mondo che sta attirando l’attenzione di enti di caratura internazionale come le Gallerie degli Uffizi, il Museo del Prado di Madrid, il Rijksmuseum di Amsterdam, il Naturkundemuseum di Berlino e il Grand Palais di Parigi.
In questa intervista Giselda Ranieri e Simone Pacini raccontano Isadora – The TikTok Dance Project, progetto realizzato in collaborazione con Isabella Brogi ed Elisa Sirianni.
Qual è l’intento comunicativo e mediatico di un’iniziativa come Isadora – The Tik Tok Dance Project?
Simone Pacini: Complice la situazione creatasi con il lockdown, il web ha messo in moto la creatività. Inizialmente siamo partiti io, Isabella Brogi e Elisa Sirianni con l’intento di partecipare al bando “Residenze digitali”. Abbiamo pensato di coinvolgere Giselda Ranieri per l’apporto artistico, per creare insieme a lei l’ambiente “virtuale”, immaginarlo e progettarlo. Mentre passavamo in rassegna diverse cose, Giselda ha pubblicato sulla sua pagina facebook un video in cui danza con l’espressione del volto. Il video ha avuto successo e abbiamo pensato di adattarne formato e durata alla piattaforma di Tik Tok, con la volontà di diffondere anche un progetto di danza contemporanea su questo nuovo social network.
Il pubblico di Tik Tok è performativo, ama mettersi in gioco ma il campo di riferimento artistico per quel che riguarda la danza, spesso, è solamente l’hip-hop. Il progetto si pone in una dimensione davvero sperimentale, sia dal punto di vista artistico sia comunicativo o più tecnicamente digital. Sicuramente stiamo cercando di portare la nostra cifra stilistica di artisti per cui Giselda non sceglie le canzoni di tendenza che Tik Tok stesso suggerisce ma, pur andando contro le logiche di visibilità – scegliere una canzone di tendenza aumenterebbe l’engagment –, mantiene una sua identità e integrità di danzatrice.
Con questo progetto mi piacerebbe poter segnalare al mondo “colto” che vale la pena aprirsi alle nuove piattaforme e tendenze, specialmente se sono un ponte di collegamento con le generazioni. Allo stesso modo mi piacerebbe che le nuove generazione si dimostrassero curiose e disponibili nei confronti dell’arte.
Qual è il processo creativo del progetto? Quanto la sua modalità di diffusione condiziona la creazione?
Giselda Ranieri: Il processo prevede due tranche di lavoro, due mesi di residenza suddivisi tra l’estate e l’autunno, sulla piattaforma Tik Tok, in cui produrrò due video a settimana. La sfida più ardua è scoprire le strategie per “rendersi visibili”: raggiungere un buon numero di ragazzi che siano incuriositi e invogliati a rifare le coreografie che propongo. Questo significa comprendere di volta in volta come ricalibrare l’approccio coreografico per chiarire quali siano i pattern fondamentali nella composizione proposta (ripetizione e ritmo, stop motion e fast foward, keep e dro).
All’inizio ero destabilizzata: imparare a creare una coreografia in soli 15 secondi di video, provando a esprimere qualcosa, sembrava molto lontano di miei metodi compositivi in cui il processo è essenziale. Poi, ho scoperto che in questo progetto l’esperienza nella composizione istantanea è a tutti gli effetti il processo creativo che mi supporta.
The Tik Tok Project è un progetto comunitario, o, per lo meno, ambiamo a farlo diventare tale. A condizionare le mini creazioni, più che la modalità di diffusione è proprio la modalità di coinvolgimento della comunità, che è tutta da scoprire.
Giselda Ranieri – Isadora – The Tik Tok Dance Project
Quali sono state le fonti di ispirazione e quali sono le tue aspettative nei confronti di questo progetto?
GR: A dire il vero le fonti d’ispirazione sono poche, mi sono gettata a capofitto nella sfida progettuale. Forse, parlerei più di fonti di studio. Questo progetto si configura realmente come una residenza digitale, il che significa che per tutta la sua durata, fino a prima della restituzione finale, è interamente dedicato allo studio: dalla visione di webinar di esperti sull’argomento, ai consigli dei tiktoker più in voga, fino al semplice girovagare sulla piattaforma alla scoperta della “linea editoriale” più affine da cui trarre eventualmente ispirazione.
Trovo interessanti soprattutto quei video, non solo di danza, in cui emerge con forza la creatività dell’ideatore, perché suggeriscono la presenza di un pensiero dietro al girato. Mi attrae lo scanzonato e il giocoso, laddove c’è una qualche maestria e nessuna affermazione o presa di posizione. Se proprio dovessi dire a cosa mi sto ispirando risponderei che per me è diventata fondamentale quell’attitudine di fondo comune a questa generazione: learn by doing…anch’io imparo facendo.
A prescindere dalla crisi sanitaria e dalle sue conseguenze, la digitalizzazione di determinati processi potrebbe essere la chiave vincente per avvicinare la generazione Z alla danza e, più in generale, allo spettacolo dal vivo?
SP: La residenza digitale è stata, a mio parere, una bella intuizione. Diciamo che però ogni cosa ha i suoi tempi. Noi ci troviamo a vivere un progetto in residenza digitale mentre quasi tutti gli altri, in diversi ambiti e con diversi scopi, si stanno incontrando di nuovo in una configurazione dal vivo. Posso dire, con piacere, che è definitivamente crollato il tabù di alcune tecnologie. L’idea di scandagliare e cogliere nuovi terreni fa parte della ricerca stessa. Alla base resta sempre il rispetto del lavoro artistico, con le sue esigenze e collocazioni. Credo ci siano tutti i presupposti per essere curiosi e ben disposti nei confronti delle possibilità digitali che abbiamo a disposizione e di quelle che verranno.
GR: Per certi versi questo è già avvenuto prima della pandemia e sta avvenendo, ora, in modo più massiccio e forse consapevole. In ogni caso, penso di sì perché permette un avvicinamento più diretto e giocoso. Credo poi – o per meglio dire lo spero – che piano piano l’offerta si possa diversificare e che la danza in ogni sua forma, non solo quella da videoclip, si faccia strada. Questo è il tentativo che sto portando avanti con The Tik Tok Dance Project.
In che modo è stata concepita la diffusione del progetto?
SP:Il progetto ha una sua collocazione molteplice, crossmediale. Rispetto alla diffusione, influisce molto il fatto che i contenuti viaggiano da Tik Tok verso altri social come Facebook, Instagram e YouTube. Così si ha modo di vedere le reazioni delle diverse community, e dei diversi target. L’idea creativa è anche quella di incrementare l’utilizzo di altre parti del corpo della danzatrice, di creare un corpo unico che vive – separato e unito – su Tik Tok e non solo. La danza è sia scomposizione sia composizione e, mediante questi formati, viene stimolata la creatività.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
«Il Teatro è il luogo ove si gioca a fare sul serio» aveva affermato Luigi Pirandello in Trovarsi, la commedia in tre atti da lui scritta nell’estate del 1932. Spazio ideale dove si fa sul serio giocando, dove possono essere esplorate le possibilità della sfera sociale e le parti del sé, il Teatro non avrebbe modo di esistere se un generale senso di appagamento, di pienezza della vita, fosse già in atto. Ma è proprio su quelle crepe dell’umana esistenza che spunteranno nuovi germogli. In quell’attimo, cesserà di esistere l’attore per lasciare posto alla persona. E viceversa.
Dove tutto è stato preso – Bartolini/Baronio
Tamara Bartolini e Michele Baronio sono due artisti, una coppia e una compagnia omonima, che raccontano e portano in scena la vita, la loro idea di teatro. Ci conducono nelle loro stanze, tra i loro oggetti. Con vortici di parole, storie e ritratti di loro, di noi. La formazione artistica nasce nel 2009 al Centro Internazionale La Cometa e si evolve attraverso laboratori, masterclass e spettacoli con diversi registi e importanti personalità della scena contemporanea e del teatro tradizionale. Dieci sono stati gli anni di esperienza e di lavoro con la compagnia diretta da Roberta Nicolai, Triangolo Scaleno Teatro. Hanno partecipato alla creazione del festival Teatri di Vetro, a OFFicINa, ZTL e altri eventi culturali, occupandosi di scrittura, pedagogia e regia.
Passi_una confessioneè lo spettacolo che ha debuttato nel 2015 e che ha vinto il premio di produzione Dominio Pubblico Officine. L’ultimo lavoro, Dove tutto è stato preso, ispirato al romanzo Correzione di Thomas Bernhard, ha vinto il bando CURA 2017 (Residenza IDRA e Armunia) e la sezione Visionari 2018 del Festival Kilowatt. Nello stesso anno, Bartolini/Baronio sono stati tra i vincitori del bando di sostegno alla produzione Fabulamundi con un progetto di mise en espace tratto dal testo Tout entière di Guillaume Poix, tradotto da Attilio Scarpellini. In contemporanea con il debutto diTutt’intera, nell’ambito di Primavera dei Teatri 2019, è avvenuto anche quello di 9 Lune- lo spettacolo itinerante in alcune abitazioni private di Sansepolcro, in programmazione al Festival Kilowatt. Nello stesso anno sono stati presenti anche al Romaeuropa Festival con 16,9 KM – Home Concert Esercizi sull’abitare, un progetto sul tema della casa.
Due sono gli spettacoli che sono andati in scena al Teatro India di Roma, dal 18 al 23 febbraio: Tutt’interaè il primo del dittico. Una drammaturgia costruita sulla vita di Vivian Maier, fotografa americana divenuta celebre post-mortem. Erano centocinquantamila i negativi delle foto che la Maier aveva scattato nel corso degli anni. Non erano stati sviluppati in precedenza per sua volontà, ma sono stati conservati in scatoloni che li hanno custoditi fino alla morte dell’artista. Dove tutto è stato preso, la seconda opera, invece, è una creazione firmata Bartolini/Baronio. Si tratta di una narrazione sulla casa e sull’abitare un luogo che è concreto e insieme astratto. In particolare, si racconta di una casa da acquistare: un casolare con giardino, con la terra tutt’intorno dove far crescere un albero. Un concetto, un desiderio, un sogno che, moltiplicati tante volte, diventano un’infinità di abitazioni.
Varcare la porta d’ingresso della sala B del teatro India di Roma, coincide con l’avvio di un’esperienza, l’inizio di un viaggio. Ogni spettatore, forse senza accorgersene, entrando ha incontrato un uomo e una donna. I due dividevano lo stesso cuscino, sdraiati a terra. Il primo contatto con Dove tutto è stato preso, lo spettacolo di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio, avviene così. Sono loro? Siamo noi? È una casa? La forma poteva essere quella di un interno, ma anche dell’esterno di una stanza. La percezione è di entrare in un tableau vivant, in un quadro già predisposto: la scena aperta, con un albero metallico, stilizzato, su cui erano state appese tante piccole canottiere bianche da bambino, tutte uguali. Tanto è bastato per immergersi in un momento in divenire, senza interruzione di continuità tra il fare sala e l’avvio dell’azione scenica. Dopo, il buio.
Dove tutto è stato preso – Bartolini/Baronio
Declinando la parola teatrale, il quotidiano, il caos, Michele Baronio ha sovrapposto il racconto al vissuto. Il suo monologo riporta alla mente le parole di Silvano Petrosino, docente di Filosofia all’Università Cattolica di Milano: «Grazie alla casa il soggetto esce dal flusso caotico della vita, prende le distanze dalle urgenze e dai pericoli e si concede un tempo e uno spazio per sé».
Cos’è casa? Tamara Bartolini e Michele Baronio lo chiedono a loro stessi, a noi. È la memoria collettiva? È il luogo delle nostre relazioni, positive o negative? Il disordine che diventa immagine? Come quella riprodotta in scena con le costruzioni dei bambini. Di tanti colori, sparpagliate e assemblate. Tante piccole case che formano una città-piattaforma, attraversata da strade costruite con fili di luce. È la capacità dell’uomo di immaginare ciò che non esiste. Ciò di cui parla Zygmunt Bauman a proposito del sentirsi liberi: «[…] nella misura in cui l’immaginazione non supera i desideri reali e nessuno dei due oltrepassa la capacità di agire».
Bartolini/Baronio, come ha sostenuto Martin Heidegger prima di loro, rilevano che l’uomo esiste abitando. Prendendosi cura di sé, degli altri, dello spazio che lo circonda, determinando un’idea di mondo ordinato e costruendone un modello. E poiché l’uomo è abitato dall’interiorità, quel paradigma di realtà esplode sul reale. Lo spiega bene una definizione del filosofo e psicanalista Jacques Lacan: «Il mondo è ciò che va, il reale è ciò che non va». Prima o poi ognuno di noi, artista o meno, dovrà affrontare le difficoltà che comporta il rimanere ancorati alle illusioni del vivere. La quotidianità che non è reale. Il miraggio di sembrare indispensabili alla nostra stessa morte. Tutto questo è condensato proprio in una battuta di Donata Genzi, nella commedia Trovarsidi Pirandello: «E questo è vero. E non è vero niente. Vero è che bisogna crearsi, creare. E allora soltanto ci si trova».
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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