THEATROPEDIA #11 – Il teatro giapponese. L’erotismo un problema di Stato
Camminando lungo il fiume Kamo, nella Kyōto del 1606, tra il cinguettio degli uccellini che armonizzano l’ambiente e lo scrosciare dell’acqua che sembra essere preludio di un imminente quanto imprevedibile fenomeno naturale, sono attirato da un piccolo gruppo di persone che stanno sedute davanti al greto del fiume. Avvicinandomi scorgo, tra le loro teste, delle tavole di legno poste proprio sulla riva. Sembra un palcoscenico improvvisato. Penso sia davvero strano. Difatti, secondo i miei ricordi, l’arte performativa in Giappone nel 1606 ha convenzioni rigide tramandate da secoli. La più conosciuta tra tutte è quella del Nō che è un genere teatrale frutto di un’evoluzione artistica e culturale di due precedenti generi performativi: il sarugaku-nō e il dengaku-nō. Nella prima forma troviamo una mescolanza d’arti coreutiche musicali, acrobatiche e mimiche messe in scene allo scopo di divertire. “L’attuale forma di circo”. La seconda è letteralmente l’abilità del canto corale eseguito, in origine, dai lavoratori agricoli coreani, simile al canto delle mondine italiane. Il Nō ha avuto il “merito” di elevare il teatro del passatempo, fino a quel momento senza regole, in un’arte sofisticata e colta. Una disciplina dello spettacolo molto influenzata dal pensiero sacro del buddismo zen il quale si basa sul benessere interiore che si raggiunge nell’unione con la totalità dell’essere e attraverso il superamento dei desideri individuali.
È per questo che i più noti drammi Nō mettono in evidenza le paure degli uomini attraverso la rappresentazione di spettri, demoni, anime tormentate che hanno vissuto una vita terrena schiavi dell’amore, dell’onore e del piacere. Dal punto di vista drammaturgico si segue uno schema rigido che pone in scena in primo luogo l’innocenza e la pace del mondo degli dei, poi la caduta dell’uomo, il pentimento, la possibilità della redenzione e infine la sconfitta delle forze che si oppongono al mantenimento della pace e dell’armonia. La conclusione è sempre a lieto fine ed è sottolineata con una danza di ringraziamento agli dei.
Tornando alle tavole di legno sul greto del fiume mi chiedo: Lo schema drammaturgico del Teatro Nō può essere sviluppato scenicamente su questo palcoscenico improvvisato? Impossibile, qui di fronte a me non v’è l’architettura del Nō per cui lo spettacolo, in mancanza della scena ordinaria, sarebbe insignificante. Essa è, infatti, parte integrante, indispensabile, del Nō e, nel 1600, ha già raggiunto la sua canonica definizione: è un palcoscenico coperto da un tetto retto da quattro pilastri, simile a quello indiano, un ponte che collega il retropalco ad una stanza, detta degli specchi, oltre che agli spogliatoi, e un dipinto di un pino contorto a fondo scena. Il palco e la platea, poi, è diviso da sabbia bianca, mentre vicino al ponte vi si trovano tre alberelli di pino. Chiaramente questi elementi non sono semplici sostegni o decorazioni ma hanno dei significati necessari perché lo spettacolo possa essere compreso. Il tetto che copre il palcoscenico, rappresentante il luogo terreno, delinea l’area sacra del luogo sovrannaturale, ed è collegato a quest’ultimo dai pilastri che si configurano, quindi, come i tramiti dei due luoghi, la stessa funzione ha poi il ponte collegante il mondo terreno del palcoscenico all’altro mondo della camera degli specchi. Il pino è anch’esso un simbolo mutuato dal rituale shintoista che lo vuole come il mezzo con cui le divinità scendevano sulla terra. Ogni elemento è intriso di simboli e significanti di conseguenza acquisiscono una particolare funzione drammaturgica. Guardando ancora quella piattaforma sul fiume si nota l’assoluta mancanza di simbologia che esclude ogni dubbio, succederà sì qualcosa su quel palco ma di sicuro niente che ha a che fare con il Nō.
Mi siedo, cerco di interloquire con uno spettatore e gli chiedo quale spettacolo sta per andare in scena. Non mi risponde ma da come mi guarda capisco che anche lui non sa bene di cosa si tratta e questo arcano accentua ancora di più la mia curiosità che è al limite, oramai, dell’impazienza.
D’improvviso cala il silenzio, anche il fiume sembra frenare la sua impetuosa corsa. Dei musici, al lato del palcoscenico, suonano un motivo melodico e maestoso che magnifica l’entrata di una donna vestita da uomo, all’occidentale, il signore al mio fianco scuote la testa. L’attrice travestita dicono sia la figlia di un sacerdote shintō di Izumo, si chiama O Kuni, è da tre anni che si esibisce in questo luogo, fa teatro itinerante. Lo spettacolo inizia con una danza rivolta al Buddha Amida, eseguita dalla stessa “sacerdotessa” in collaborazione con le ballerine, poi più si va avanti e più la proverbiale aurea sacra del teatro orientale sembra perdersi, i movimenti dell’attrice e delle danzatrici diventano sempre più liberi e sinuosi, la musica “alta” giapponese è sostituita da quella popolare e i costumi così particolareggiati e simbolici sono semplici vesti colorate. E non è solo la mimica e la scena a differire dal classico teatro nipponico ma anche la tematica, infatti, la storia evocata in scena parla di due amanti, uno dei quali, lui, è colpevole di un omicidio e questo è il contrasto principale che rende la relazione dei due impossibile, per via dell’onorabilità familiare della donna. La storia si configura come un “Romeo e Giulietta” giapponese, senza samurai, né grandi mire spirituali. È il kabuki. Lo spettatore a mio fianco fa cenno di avvicinarmi, mi fa una confidenza, dice che questa è una storia vera e che la protagonista nella realtà è la stessa O Kuni. Dal mormorio però del pubblico capisco che quest’arcano rilevatomi con il sorriso di chi sa, non è poi tanto un segreto, sembra che tutti lo sappiano. Intanto lo spettacolo finisce tra applausi scroscianti. Sono pronto per andar via ma noto che stranamente c’è una ressa formata prettamente da uomini: tutti diretti verso il palcoscenico. Pare che lo spettacolo continui. Cerco di farmi spazio, qualcuno mi fa capire che per “partecipare” a quella calca c’è bisogno di un biglietto, una prenotazione, desisto. Vado via incuriosito.
Sono abbastanza distante da sentire le voci chiassose di quegli uomini accalcati come un leggero brusìo quando si avvicina un uomo, mi chiede una cosa strana, “se le donne dello spettacolo erano già pronte”. Mi domando: pronte a che? Lo guardo stupito, lui invece mi sorride e da come muove la testa mi fa intendere che quelle donne a fine spettacolo sono pronte a concedersi. Da quello che mi dice pare sia consuetudine che le donne dello spettacolo offrano prestazioni sessuali agli spettatori. Il signore è molto informato, è un ispettore mandato in città dallo shōgun in persona e mi fa capire che stanno per arrivare seri provvedimenti a carico di quella compagnia teatrale.
Il kabuki da quando O Kuni tre anni prima l’aveva ideato ad oggi ha avuto un’enorme prolificazione di emuli. E se da una parte il suo successo si deve attribuire alla facilità del linguaggio meno ricercato e più quotidiano di quello elitario del Nō, dall’altra parte le compagnie improvvisate per ingordigia hanno capito che sfruttando come specchietto per allodole i movimenti sinuosi contenuti in questi spettacoli, potevano incrementare la platea facendo prostituire le ballerine o comunque offrendo meretrici prima e dopo lo spettacolo. Il Kabuki, nato per uno scopo nobile e popolare da un teatro sacro, etico, come il nō, si configura oggi nel 1606 come un luogo di libertà sessuale.
Lascio il fiume Komi, la capitale Kyōto, ma non il Giappone perché avendo la possibilità di viaggiare temporalmente con facilità, voglio proprio vedere se quell’ispettore aveva ragione e cosa ne è stato del kabuki successivamente. Per questa ragione mi ritrovo a Tōkyō nel 1696. In questi anni gli spettacoli più popolari sono quelli delle marionette che si contendono il primato proprio con il kabuki il quale nel frattempo ha avuto un’evoluzione importante.
Me ne sono accorto appena sono entrato a vedere uno spettacolo del genere in un teatro molto simile a quello Nō se non per una particolare differenza, il ponte non collega più la stanza degli specchi ma si protende tra il pubblico quasi come a voler significare che quel teatro è per tutti, voler fare partecipi della storia gli stessi spettatori. Non solo, le innovazioni tecniche sono anticipatrici dei più moderni teatri del novecento europeo ho visto un palcoscenico girevole e dei cambi-costume velocissimi, possibili grazie a un particolare kimono composto da una serie di fili che tirati scoprono altri costumi o decorazioni simboliche al di sotto del primo abito indossato, tecnica usata dai trasformisti del primo novecento. La cosa che di più colpisce è che, in questi tempi, il kabuki può essere rappresentato soltanto dagli uomini. Quell’ispettore aveva ragione. Difatti lo shōgun nel 1629 ha proibito il kabuki a tutte le donne colpevoli a suo dire di istigare, con le loro movenze, la perdizione morale degli uomini e di conseguenza creare disordine sociale. A ragione di ciò decise di far interpretare gli spettacoli del kabuki da giovanissimi ragazzi ma anche a loro, nel 1652, gli fu proibito perché risultavano seducenti quanto le donne e fu permesso, dallo shōgun, di rappresentare questa forma di spettacolo solo agli uomini e solo a una condizione che questi si rasassero la fronte per non accentuare la bellezza fisica.
Certo la situazione del teatro orientale non ce la saremmo aspettata così complicata dal punto di vista materialistico, sapendo che essa nasce dal mero spiritualismo. Sembrerebbe che in quel periodo gli ormoni dirigessero un’arte secolare che per secoli non aveva avuto sentore di manifestazioni orgiastiche. Lascio il Giappone del ‘600 con un dubbio: non è che la crescente fama del kabuki, il teatro che aveva fatto breccia nel popolo, desse fastidio “all’ordine militare costituito”? La libertà di pensiero data alle masse non è mai piaciuta ai dittatori, per ovvie ragioni.