55 anni di Odin Teatret. Intervista a Julia Varley

55 anni di Odin Teatret. Intervista a Julia Varley

Le celebrazioni romane per i 55 anni di attività dell’Odin Teatret hanno coinvolto ed emozionato vecchi cultori e giovani appassionati dello storico gruppo. In uno dei matinée organizzati presso il Teatro Vascello di Roma per la presentazione di alcune dimostrazioni di lavoro, abbiamo intervistato l’attrice e regista Julia Varley che, insieme a Eugenio Barba, incarna, da più di quarant’anni, il cuore pulsante dell’Odin Teatret.
Il sacro fuoco dell’arte che, vigoroso, si scorge ancora bruciante nelle sue pupille, fa di Julia Varley una fonte d’ispirazione per gli artisti di oggi e per quelli che verranno.

Julia Varley in Mr Peanut - Odin Teatret

Julia Varley in Mr Peanut – Odin Teatret

Sono trascorsi 55 anni dalla fondazione dell’Odin Teatret. Da 40 anni lei è parte del gruppo: le andrebbe di raccontarmi un episodio, un incontro, un’esperienza vissuta durante i suoi anni all’Odin Teatret, che è stata particolarmente segnante per lei e che possa dare un’idea concreta di cosa significhi lavorare e vivere in un gruppo teatrale come l’Odin?

Quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo invitato a Hostelbro, in Danimarca, un gruppo di teatro brasiliano con cui mettere in scena uno spettacolo che potesse essere visto da tutti i bambini della città. Per un mese, ogni mattina, abbiamo portato questo spettacolo nelle scuole. Io interpretavo Mr. Peanut, il personaggio della morte, e ho avuto modo di dare la mano a tutti i bambini di Hostelbro. È stato un avvenimento straordinario per me perché ogni bambino ha reagito in maniera diversa: c’erano quelli curiosi, quelli impauriti, quelli che si avvicinavano, quelli che volevano ballare.

Da un lato ho colto la semplicità del gesto di dare la mano attraverso questo personaggio e dall’altro, la possibilità di conoscere tutti i bambini come singoli individui. Ciò è davvero importante per l’Odin, perché per noi il pubblico è fatto di singoli e quella era una possibilità di incontrarli uno ad uno. Per questo, quando mi chiedono di un momento particolare della mia vita di artista, racconto questo evento che trattengo come qualcosa di speciale.

 Mr Peanut - Odin Teatret

Mr Peanut – Odin Teatret

Nel corso del ciclo di eventi organizzati a Roma in occasione del 55esimo anniversario dell’Odin Teatret, cui ho avuto modo di prendere parte, ho notato una grande attenzione per lo spettatore in quanto singolo individuo con cui attivare uno scambio di tipo umano prima che teatrale. Quanto è importante per voi il rapporto con il pubblico – in senso prettamente antropologico direi con l’altro – e quanto il confronto con il prossimo alimenta la vostra creazione artistica?

I nostri spettacoli sono basati su questa capacità di comunicare al di là o prima dei significati. La cosa fondamentale non è la storia o ciò che si vuole dire ma condividere come “animali umani” lo stesso spazio e lo stesso tempo.

L’essere umano ha un sistema nervoso, ha un proprio bagaglio di esperienze e reagisce a determinati suoni e impulsi, in maniera differente: se io mi avvicino a una persona allargando le braccia, oppure facendo un segno di resistenza, se parlo con una voce che sembra abbracciare piuttosto che respingere, si crea una reazione nello spettatore che è qualcosa di basilare e che ha a che vedere proprio con l’animale umano che reagisce al caldo, al freddo, all’essere accettato, all’essere rifiutato. È su questa comunicazione basilare che si fondano gli spettacoli dell’Odin. Quel che conta è che in qualsiasi posto andiamo, al centro di Roma, in un piccolo paesino dove il teatro non c’è mai stato, in America Latina o in Alaska, dove parlano lingue diverse, riusciamo sempre a creare un interesse per quello che facciamo.

Spesso, gli spettatori parlano lingue diverse dalla nostra, per cui colgono il senso della storia non per mezzo della parola ma attraverso il modo in cui comunichiamo, il tipo di intonazione che utilizziamo, il livello emotivo che il canto o la musica implicano. Si tratta di una comunicazione basata su altro. In uno dei nostri viaggi in Amazzonia, abbiamo mostrato alla tribù degli Yanomami uno spettacolo di clown, in Occidente spettacolo comico per eccellenza, che è risultato spaventoso ai loro occhi.

Ci sono quindi delle differenze di ricezione, l’importante è che lo spettacolo non annoi, che abbia una forza di attrazione, una capacità di mettere lo spettatore nella posizione di vedere al di là di ciò che noi facciamo, dentro di sé, nelle proprie storie, nei significati che ognuno riuscirà a leggere nella storia. Con L’Albero, ad esempio, all’inizio offriamo agli spettatori una condizione strana: si trovano riuniti in una piccola sala, siedono su dei tubi di gomma, assistono a delle scene che forse non capiscono, per cui come li accogli è fondamentale. Bisogna dare un senso di sicurezza agli spettatori, in modo che essi siano predisposti a recepire lo spettacolo. Se gli spettatori si sentono insicuri, costruiscono delle barriere per proteggersi. Per far arrivare l’esperienza devi fare in modo che il pubblico sia aperto, in virtù di questa ricezione è importante accogliere, guidare, sorridere. Cose molto elementari.

ODIN TEATRET ARCHIVES Karohi, Venezuela, 1976 foto di Tony D'Urso

ODIN TEATRET ARCHIVES
Karohi, Venezuela, 1976
foto di Tony D’Urso

L’Odin Teatret è un melting pot teatrale che ha sempre fatto della diversità un punto di forza. Eugenio Barba, prima di tutti, ha spiegato e teorizzato l’esistenza di impulsi, di principi energetici archetipi che, essendo condivisi a livello umano, prescindono dalla tradizione e dalla cultura di appartenenza di ciascuno. Ma come avviene il primo contatto tra i nuovi attori e il resto della compagnia, come viene attivata la connessione con il gruppo e che ruolo, in quest’operazione, ricoprite lei ed Eugenio Barba?

Ognuno di noi viene da paesi diversi, però quel che riconosciamo dentro l’Odin è una cultura del gruppo. Le persone che entrano a far parte dell’Odin Teatret, dunque, non hanno un confronto con un balinese, con un’indiana, con una danese, con un inglese, con un canadese, ma hanno un confronto con persone che lavorano da quarant’anni insieme.

Quella cultura che incontrano, prevede dei comportamenti che hanno a che vedere con la partecipazione al training, con il lavoro fisico, la pulizia degli spazi comuni, la cura di oggetti e costumi, il divieto di parlare di lavoro quando si è in sala. Questi comportamenti, vengono trasmessi nel periodo di apprendistato.

Una persona che si avvicina al gruppo ha per i primi quattro anni una persona di riferimento, per cui si crea una rete di dialoghi. È fondamentale che i problemi si risolvano nel lavoro: se si è in disaccordo su qualcosa, bisogna presentare una proposta alternativa; non c’è tempo per il confronto, in questo senso non siamo un gruppo nemmeno troppo democratico! Le cose succedono perché uno prende iniziativa, fa delle proposte.
Tutti devono prendersi le proprie responsabilità.

Julia Varley in Mr Peanut - Odin Teatret

Julia Varley in Mr Peanut – Odin Teatret

La costruzione vocale e l’attenzione alla creazione di una partitura gestuale, sono una cifra stilistica distintiva del lavoro degli attori dell’Odin Teatret. Ciò ha indotto molti studiosi e teorici a sostenere che la ricerca teatrale dell’Odin sia basata principalmente sulle possibilità del corpo e che dia minor peso all’apporto artistico del testo letterario. Che tipo di lavoro compiete sul testo e come si articola sulla scena la traduzione del materiale letterario attraverso corpo e voce?

Una cosa che Eugenio dice per spiegare ciò è che ci sono persone che lavorano per il testo e persone che lavorano con il testo. Noi lavoriamo con il testo, nel senso che è per noi uno degli elementi che entrano a far parte del lavoro. Durante una sessione dell’Università del Teatro Eurasiano, alcuni storici hanno detto che l’Odin non lavora con il testo, allora ho creato la dimostrazione Il tappeto volante, proprio per dimostrare il contrario.

Per noi, il testo è uno degli elementi che narrano una storia che molto spesso non conosciamo all’inizio delle prove: noi possiamo avere dei testi di partenza, solitamente poetici, che contengono molte storie e significati. Il lavoro sul testo serve ad estrarre quel che i testi dicono e non solo a metterli in scena. Per questo motivo, molte volte, le azioni fisiche sono in contrapposizione con le parole: le azioni fisiche e le parole possono muoversi nella stessa direzione, per sottolineare il racconto del testo; possono essere complementari, cioè fanno mostrano qualcosa che sta a lato; possono essere opposte, con il corpo compio un’azione e con le parole mi riferisco all’azione contraria.

Quello che lo spettatore percepisce è il risultato della convivenza tra testo, azioni fisiche, intonazioni, luci, spazio, oggetti. Non è come mettere in scena il testo con il corpo ma è come lavorare con il testo per fornire a quel che tu racconti con il corpo, altri elementi.

L’albero, Odin Teatret

L’albero, Odin Teatret

Come crede che siano cambiate il lavoro e la ricerca dell’Odin Teatret in questi anni? Che cosa ha guadagnato, che cosa cerca, che cosa ha perso l’Odin di oggi rispetto a quello che lei ha conosciuto 40 anni fa?

Quando io ho incontrato l’Odin, stava finendo sia la grande esperienza del teatro di strada sia il periodo di apprendistato, per cui sono arrivata in un gruppo che aveva un linguaggio proprio, una propria base tecnica e una maggiore autonomia. Durante i primi dieci anni dell’Odin, gli attori lavoravano sempre in sala con Eugenio. Quando io sono entrata a far parte dell’Odin, Eugenio non aveva più molto tempo per lavorare sul training, quindi per me il riferimento sono stati gli altri attori. In questo periodo, è subentrata una responsabilità pedagogica che ci ha fatto rendere conto di essere un esempio: se l’Odin fosse morto, sarebbe stata una tragedia per molti perché noi eravamo la prova che si può lavorare e vivere in un gruppo anche per molto tempo. Questa responsabilità ci ha a lungo mantenuti in vita, poi è arrivato il tempo di distruggere tutto quel che avevamo imparato.

Durante le celebrazioni per i 50 anni dell’Odin Teatret, abbiamo sepolto i nostri vecchi costumi e ci abbiamo costruito sopra un’altalena. Da allora, è come se l’Odin giocasse su quell’altalena. Quest’immagine deriva da una mostra, che ho visitato a New York, di opere dipinte da Picasso a ottant’anni. Quel che si percepiva era il piacere di dipingere, non la necessità di dimostrare la grandezza della propria arte. Allo stesso modo, è come se l’Odin avesse bisogno di ritrovare il piacere di fare spettacoli, senza il peso della responsabilità che ci siamo portati dietro per molti anni.

Che cosa perdiamo? Con l’età i corpi iniziano a cambiare, abbiamo attori che sono sordi, che hanno difficoltà a camminare e anche ciò comporta il fatto di trovare delle soluzioni diverse negli spettacoli. Se un tempo la nostra energia era esplosiva, adesso è molto più implosiva, come trattenuta. Non so quale tipo di energia sia più forte per gli spettatori, anche perché in generale utilizziamo molta più energia di quanta non se ne veda di solito a teatro.

Nel 2008 abbiamo firmato con tutti gli attori che sono stati a lungo nell’Odin, una lettera, una sorta di testamento in cui diciamo che quando l’ultimo dei nostri attori non vorrà più lavorare col nome di Odin Teatret, il gruppo non esisterà più. Eugenio ha spiegato ciò al giornale locale di Hostelbro, scatenando una grande protesta da parte dei cittadini che si sono chiesti come mai come mai non avessimo designato degli eredi e hanno dichiarato di aver bisogno dell’Odin Teatret. Questa necessità da parte della città ha ribaltato il nostro punto di vista, per cui ci siamo impegnati a dare spazio a dei giovani artisti che pur non essendo esteticamente vicini all’Odin, portano avanti il nostro lavoro. Abbiamo così mantenuto in vigore un’attività teatrale che non consista solo nel mettere in scena uno spettacolo ma che sia un lavoro pedagogico, di rapporto con la città, di impegno nella comunità, di documentazione e di scrittura. Il teatro, per noi, è tutto questo.

Odin Teatret: una spedizione antropologica lunga 55 anni

Odin Teatret: una spedizione antropologica lunga 55 anni

Sono trascorsi 55 anni dal 1 ottobre 1964 quando Eugenio Barba fondò l’Odin Teatret riunendo intorno a sé, nella città norvegese di Oslo, un gruppo di attori, di diverse nazionalità, non ammessi alla Scuola di Teatro di Stato. Pur tenendosi sempre ai margini dei circuiti ufficiali, l’Odin Teatret ha saputo aprire una breccia di attivismo e di interculturalità nel teatro del Secondo Novecento, assumendo come fulcro della creazione artistica l’incontro con l’altro e l’impegno sociale.

Nel mese di febbraio, Roma ha voluto celebrare la cinquantennale attività del gruppo, organizzando conferenze, masterclass, workshop, mostre, spettacoli e dimostrazioni di lavoro, distribuiti in alcuni centri culturali della città. Avvalendosi dell’accoglienza riservata loro da Teatro Vascello, Teatro Valle, Teatro Argot, Abraxa Teatro, Palazzo delle Esposizioni e Università La Sapienza, l’Odin ha accompagnato il pubblico romano alla scoperta del proprio universo umano e artistico.

L’instancabile ricerca artistica e antropologica, coadiuvata da pubblicazioni teoriche sull’arte d’attore, fanno dell’Odin Teatret un baluardo di vocazione teatrale. 55 anni di viaggi e migrazioni, volti a raccogliere il siero della cultura spettacolare mondiale. Stormi teatrali dopo un lungo vagare tra Oriente e Occidente, sono giunti al Teatro Vascello, riuscendo a resuscitare l’Albero avvizzito dall’umana barbarie.

Eugenio Barba

 

L’Albero: torneranno gli uccelli

Sgozzare: è quel che fa l’Odin Teatret nello scrigno arancione in cui accoglie gli spettatori. Un tumultuoso rovesciamento del quotidiano, a narrare impavido l’orrore della guerra. L’albero avvizzito è uno scheletro che sorregge il peso doloroso di bambini-soldato addestrati a uccidere per gioco, finiti ammazzati, sgozzati, riconsegnati senza volto alle mani delle proprie madri. Morto ma vigoroso, con le radici ancora affondate nell’arido terreno della speranza. È un albero della vita imbevuto di morte, quel tronco dai mobili rami che gli attori assemblano e spezzano in scena, su cui si arrampicano e si rifugiano. Tra le fronde, Thanatos e Bios, impiccagioni e frutti polposi a fronteggiarsi in attesa che tornino a cantare gli uccelli.

Lo spazio scenico del Teatro Vascello, che nel febbraio scorso ha ospitato lo spettacolo, è completamente sovvertito: il racconto si snoda in un piccolo ambiente costruito dietro il palcoscenico, in cui un ristretto gruppo di spettatori è invitato a prender posto su due tribune contrapposte. Gli spalti, sono costituiti da un lungo tubo grigio che emette vibrazioni e suoni, amplificando il coinvolgimento sensoriale di coloro che, abbattuta la disposizione classica da teatro all’italiana, abitano lo spazio prendendo parte a un evento. La prossemica, punto di forza degli spettacoli dell’Odin, fa sì che gli attori taglino la testa anche al pubblico, testimone inerme, aiutato a indossare collettivamente un telo bianco bucato che ne camuffa i corpi e ne trasforma il capo in trofei venatori da museo.

Al centro, come contenuto da due sponde sabbiose, lo sgorgare dell’interculturalità targata Odin Teatret, in cui attori di provenienze diverse, ricamano il tessuto sonoro e drammaturgico dello spettacolo, ciascuno con il filo dorato della propria tradizione. Le donne della compagnia, Iben Nagel Rasmussen, Elena Floris, Parvathy Baul, Carolina Pizarro e Roberta Carreri, accendono, in un continuo gioco di rifrazioni autobiografiche e numeri musicali multietnici, il lume della crudeltà delle cronache di guerra.

L’albero, Odin Teatret

L’albero, Odin Teatret

Julia Varley e Donald Kitt sono una coppia di dolci monaci che nel deserto siriano piantano un albero dai rami secchi, nella speranza che accolga la nidiata degli uccelli, messi in fuga da bombe e proiettili. Occidente e Oriente mostrano la stessa spietatezza quando a impersonare il conflitto sono due efferati signori della guerra: Kai Bredholt, soldato europeo dagli occhi vitrei che con fisarmonica e tromba, glorifica la sua forza distruttiva e I Wayan Bawa, attore balinese, che fa della danza tradizionale del suo Paese la penna con cui disegnare i tratti di un Ares nero.

Torneranno gli uccelli ma non i bambini uccisi dal conflitto, amara e responsabilizzante consapevolezza che chiude uno spettacolo di forte impatto emotivo ma claudicante per chi dall’Odin si aspetta l’energica prestazione di sempreverdi performers, impegnati in un perpetuo tourbillon antropologico.

L’antropologia teatrale di Eugenio Barba

L’intervento attorale di I Wayan Bawa nello spettacolo L’Albero è, tra tutti, il più emblematico rispetto a quel “cielo comune” in cui fluttuano i diversi saperi artistici dei componenti della compagnia: la danza balinese, nell’espressione performativa della maschera del Re Gambuh, è qui messa al servizio di un racconto della guerra che passa attraverso gli occhi occidentali del regista, Eugenio Barba, e che viene proposto a un pubblico occidentale anch’esso.

Come può, dunque, lo spettatore cogliere il significato di un certo modo di muovere i piedi o di inarcare la schiena tipico di una tradizione artistica a lui sconosciuta, senza che la decontestualizzazione ne depauperi la portata drammatica? L’antropologia teatrale, disciplina fondata da Eugenio Barba negli anni Settanta, parte dalla volontà di risolvere tale quesito e di indagare il comportamento socio-culturale e fisiologico dell’uomo in situazione di rappresentazione.

Da odinteatret.dk - ph. Fiora Bemporad

Da odinteatret.dk – ph. Fiora Bemporad

A tal proposito, nel corso di una conferenza organizzata presso Il Palazzo delle Esposizioni di Roma, con la partecipazione di Franco Ruffini, Julia Varley e Nicola Savarese, Eugenio Barba racconta:

Come fa un attore ad affascinare? Fino al 1963, ho visto attori, in Polonia, che mi affascinavano. Quando nello stesso anno ho assistito a uno spettacolo di Kathakali, fu qualcosa di sconvolgente e mi chiesi perché non mi fossi interessato alle convenzioni del teatro indiano ma, soprattutto, mi domandai perché questi attori riuscissero ad appassionarmi. È talento ciò che mi affascina? Questa domanda mi ha seguito fino al mio trasferimento a Bonn, dove ho iniziato a studiare i costumi, la musica, gli attori, tutti quegli orpelli che mi hanno permesso di vedere il bios, la vita, che sembra muscolare anche se, in realtà, il corpo è quella parte dell’anima che i cinque sensi percepiscono.

Principi-che-ritornano, è questo il modo in cui Barba definisce quei principi archetipi che sono rintracciabili nel lavoro di attori e danzatori appartenenti a epoche e culture differenti: le tecniche extra-quotidiane del corpo, usate in situazione di rappresentazione, tendono all’informazione. Queste tecniche, basate sull’energia e su una cosciente alterazione dell’equilibrio, sono riscontrabili a livello globale, sia nei teatri orientali sia in quelli occidentali.

La convivenza di saperi artistici tradizionali, cifra stilistica delle attività spettacolari dell’Odin Teatret, produce un importante potenziamento delle possibilità comunicative dell’evento scenico. Partendo da questo assunto, risulta chiaro come la danza balinese di I Wayan Bawa riesca a veicolare l’attenzione e la comprensione anche di quello spettatore che si trova affascinato da qualcosa che non conosce ma che, nella cornice dello spettacolo, riesce a riconoscere.

Questo riconoscimento, derivante dalla capacità dell’attore di creare una relazione con chi lo osserva, è frutto di quel processo di canalizzazione dell’energia che Eugenio Barba chiama pre-espressività.

Pre-espressività: il livello base di organizzazione dell’actor’s performance

Il pre-espressivo è quel livello base della comunicazione artistica, capace di stabilire la connessione tra chi agisce e chi osserva. Si tratta di una “fisiologia transculturale”: prescindendo dalla tradizione culturale, la pre-espressività organizza l’energia dell’attore-danzatore in modo che diventi scenicamente viva e che catturi l’attenzione dello spettatore.

Eugenio Barba, Jonah Salz, Akira Matsui, Siviglia 2004 - Ph. Fiora Bemporad

Eugenio Barba, Jonah Salz, Akira Matsui, Siviglia 2004 – Ph. Fiora Bemporad

L’artigianato dell’attore, dunque, è la capacità di trasporre qualsiasi stimolo, proveniente da un testo, dallo spazio, dalla musica, da un quadro, da un ricordo e dargli una consistenza oggettiva che un osservatore può percepire. C’è tutto un flusso di moderazione energetica che può essere utilizzato.

Il training dell’attore non è un allenamento del corpo ma è un allenamento alla giusta predisposizione alla creatività. Tutto il lavoro dell’attore tende a farlo liberare dal riflesso pragmatico, diventato una seconda natura, influenzato dalla famiglia, dalla cultura, dalla scuola. Separarsi dalla spontaneità e dai riflessi condizionati significa poter raggiungere la capacità di ritrovarsi inermi di fronte a una situazione.

In questo modo ogni passo, porta l’attore a scoprirsi ogni giorno e a presentare allo spettatore qualcosa di noto, attraverso una trasfigurazione estetica, tecnica che presuppone una capacità di manipolare l’energia che è fisica, mentale, vocale. L’attore lavora con sé stesso per trasformare il suo spazio interiore in segni estetici.

Con grande generosità, questo lavoro di ricerca e composizione è stato mostrato da Julia Varley e I Wayan Bawa, in una serie di matinée ospitati presso il Teatro Vascello di Roma, a svelare i segreti della creazione Odin.

L’Odin Teatret al Teatro Vascello di Roma: Il tappeto volante e L’attore totale

Un refuso teorico vuole l’operato spettacolare dell’Odin Teatret scevro dall’apporto drammaturgico del testo, basato com’è sull’esperienza empirica di intrecci culturali e sull’incontro, di matrice antropologica e artistica, con l’altro.

In realtà, come Julia Varley ha voluto dimostrare, l’Odin lavora anche a partire dal testo, trattandolo al pari di tutti gli altri elementi costitutivi del corpo di uno spettacolo. Ad alcuni curiosi e appassionati, la storica attrice della compagnia danese ha svelato il rapporto dell’Odin con il testo, per mezzo di una dimostrazione di lavoro intitolata Il tappeto volante.

“Il testo è un tappeto che deve volare lontano”. E non necessariamente nella sua interezza e linearità. La Varley suddivide in due fasi la dimostrazione: una in cui modula l’enunciazione del testo secondo diversi principi (ritmo, illustrazione, azioni, musica, lingua); l’altra in cui recita degli estratti di tutti i testi utilizzati negli spettacoli dell’Odin Teatret dal 1976 ad oggi. Da Brecht a Kafka, il ricco apporto testuale dell’Odin è un trampolino per la creazione di immagini e contenuti, su base improvvisativa, che prendono forma nelle messe in scena attraverso il corpo e la voce degli attori del gruppo.

Allo stesso modo, I Wayan Bawa, ne L’Attore Totale,  rivela i principi tecnico-estetici della danza balinese – arte di tradizione familiare, tramandata di padre in figlio – per mostrare l’innesto delle tecniche compositive orientali sulle creazioni dell’Odin Teatret. A rapire lo sguardo, la sapienza artigiana delle maschere e dei costumi tradizionali indossati dal danzatore nel corso della dimostrazione.

La danza balinese si basa su tre elementi fondamentali: la postura del corpo, ovvero il modo in cui il danzatore compone il proprio corpo in virtù della danza; il ritmo della danza, rapporto tra musica e movimento; il sentimento, la connessione tra corpo e bellezza interiore.

I Wayan Bawa, Odin Teatret

I Wayan Bawa, Odin Teatret

Movimento degli occhi, modulazione della voce e distribuzione del peso corporeo su aree specifiche, caratterizzano la vasta schiera di personaggi maschili e femminili che popolano le danze balinesi. La cifra estetica ed etno-antropologica apportata da I Wanan Bawa al lavoro dell’Odin è un valido esempio della transculturalità di cui il gruppo si alimenta per dare vita alla creazione.

Lo spazio interiore dell’attore

Ma dove avviene la creazione, qual è il suo luogo deputato? Se è vero che l’Odin Teatret è un gruppo che ha incontrato gli spettatori in ogni parte del mondo, dentro e fuori dai teatri, recitando per le strade, in terre sconosciute popolate da piccole tribù, nei centri occupati, in edifici abbandonati, il luogo della creazione non può che essere un non-luogo trasportabile in ogni dove.

Si tratta dello spazio interiore dell’attore, quello spazio di cui Eugenio Barba palesa i confini, dando avvio alla conferenza-spettacolo Modificare il Sahara tenutasi presso il Teatro Valle, con il contributo di Julia Varley.

Lo spazio ha degli occhi e ci obbliga a confessare. La nostra confessione personale è un vomito, un conato malgrado noi e la nostra volontà. Io entro qui, al Teatro Valle, e immediatamente il vomito procurato dallo sguardo sommerge la mia consapevolezza. Questo spazio non è innocente, è qualcosa che domina queste mie reazioni personali e la domanda è: da dove vengono queste reazioni personali? Perché queste reazioni oscurano la percezione del luogo in cui mi trovo, con occhi e sensi nuovi?

Siamo dominati dal nostro spazio interiore che è invisibile e dal quale parte il processo creativo di qualsiasi artista. Qual è il vero processo creativo? Come traghettare quel che avviene dentro di noi sulla scena? Possiamo farlo solo se siamo noi i poeti. E per l’attore da dove proviene questo primo segno concreto che parte dal suo spazio interiore, che lui domina e che lo domina? Il passaggio è traghettare dallo spazio interiore allo spazio esteriore un luogo condiviso che noi conosciamo e che attraverso l’agire dell’attore trasformiamo.

È questa la summa del pensiero di Eugenio Barba sull’arte d’attore: che l’attore sia un Caronte capace di trasportare lo spettatore da una riva all’altra dell’interiorità, perché questo sia capace di abitare il mondo e di osservare la vita attraverso la lente immaginifica dell’arte.

L'Odin Teatret di Eugenio Barba

L’Odin Teatret di Eugenio Barba