Thomas Ostermeier e l’incontro con la drammaturgia contemporanea: la missione del portavoce
Articolo a cura di Mila di Giulio
Quando nel dicembre del 1999 viene annunciata la nomina di Thomas Ostermeier a direttore creativo de la Schaubühne am Lehniner Platz, per l’inizio di gennaio del 2000, la notizia diviene un caso mediatico di rilievo nazionale.
Il regista ha infatti solo trentadue anni quando approda alla storica sede del teatro nel quartiere berlinese di Kreuzberg. Ha tuttavia già alle spalle la direzione artistica di un altro teatro, la Baracke al Deutsches Theater e una coscienza politica ben definita, senza paura di scelte audaci sia a livello estetico sia di repertorio.
Già noto dunque al pubblico della città per i suoi allestimenti provocatori, decide di iniziare il suo percorso alla Schaubühne con una dichiarazione pronunciata il 20 maggio 1999 dal titolo Il teatro nell’era della sua accelerazione (Das Theater im Zeitalter seiner Beschleunigung), che può definirsi il vero e proprio manifesto programmatico della sua direzione artistica, ma anche del suo lavoro registico in toto.
Nonostante Thomas Ostermeier siano passati vent’anni dalla stesura di questo testo, un punto rimane certamente saldo in quella che si potrebbe definire la sua missione teatrale: dimostrare che la grande stagione del teatro tedesco non è finita con la morte di capisaldi del teatro mitteleuropeo come Botho Strauss e Heiner Muller e che, se la nuova drammaturgia fatica a trovare orecchie dalle quali farsi ascoltare, la colpa è di una crisi di contenuti e di una negligenza nei confronti dell’universale.
«È dovere del teatro dai tempi dei Lumi di lavorare per la liberazione dell’uomo e di svegliare la coscienza di fronte al male e all’immobilismo dell’individualismo».
La direzione instaurata nel teatro a partire dal 1999 rispetta il modello del Mitbeistimmung (co-gestione) instaurata da Peter Stein, è infatti quella della Schaubühne di quegli anni una gestione quadricefala: formata da Thomas Ostermeier, la coreografa Sasha Waltz, accompagnati dai rispettivi drammaturghi Jens Hilje e Jochen Sandig.
Una cooperazione, inoltre, che sin da subito rivela una tendenza fortemente incentrata sulla drammaturgia, sulla ricerca di una voce innovativa che attinga alle istanze postdrammatiche degli anni ’70, ma che sia capace anche di liberarsene e recuperare un teatro fatto di testo, ma che al testo non soccomba.
Questa esperienza tuttavia non dura a lungo, nel 2003 infatti Waltz e Sandig decidono di abbandonare la co-direzione per divergenze di visione. L’esperienza tuttavia, verrà sempre descritta da Ostermeier come fruttuosa e innovativa.
Infatti, nonostante il fallimento di questa utopia cooperazionistica La Schaubühne continua a rappresentare un esempio di gestione democratica e inclusiva: liberatasi infatti dall’egemonia novecentesca del Regietheatre, tendente a minimizzare il ruolo della drammaturgia a favore della “dittatura della regia”, una nuova schiera di dramaturg viene integrata nei compartimenti del teatro.
Fra i risultati più felici, ambiziosamente raggiunti dal lavoro di Ostermeier in Germania, c’è sicuramente aver portato sul palco la nuova drammaturgia, tedesca e non, mantenendo un dialogo critico con gli autori e riponendo fiducia nelle nuove generazioni. Scovare nuove voci e nuove vie per la comunicazione scenica, rimane una delle costanti più urgenti nel teatro del regista tedesco.
Quello con il nuovo teatro è un incontro che ha inizio per Ostermeier da prima dell’esperienza a La Schaubühne, nel 1996, quando gli viene affidata la direzione artistica de La Baracke, una sala limitrofa al tradizionalissimo Deutsche Theater di Berlino e che, nelle sue mani, diventerà la costola sperimentale della città.
È grazie a Ostermeier che si deve l’arrivo in Germania delle cosiddette pièces sordides venute dall’Inghilterra, messe in scena in apertura della stagione a La Baracke: Knives in Hens di David Harrower, Crave di Sarah Kane, ma ancora di più Shopping and Fucking di Mark Ravenhill, annoverabile come spettacolo feticcio del regista, ovvero il racconto dei giovani degli anni ’90, che si racconta attraverso il canale caustico dell’In-Yer face theatre.
Sono passati 20 anni dal racconto delle imprese dei protagonisti dipinti da Ravenhill, che hanno così bene preso vita nelle mani di Ostermeier, e il regista adatta la propria estetica alle voci che cambiano.
Nascono allora progetti come la collaborazione con il filosofo Didier Eribon, da cui nasce lo spettacolo Ritorno a Reims tratto dall’omonimo libro, fra i cui argomenti, emerge con la forza dei ricordi sbiaditi, quello dell’attualità della contestazione sessantottina i cui inni di lotta si mischiano agli amori universali e malinconici cantati da Francoise Hardy in Toutes les garçons et les filles de mon age.
Fra i risultati più recenti e interessanti di questo focus di Ostermeier sulle nuove generazioni spicca la collaborazione con Edouard Louis, nuovo faro della narrativa francese contemporanea, ai cui romanzi Ostermeier ha dedicato ben due adattamenti: Histoire de la Violence e lo spettacolo in corso di preparazione Qui a tué mon père, in cui lo stesso Louis apparirà in scena in prima persona interpretando sé stesso.
Ciò che il giovane autore sembra fare è proprio colmare la crisi di contenuti che tanto preoccupa Ostermeier, riportando problemi universali, nel caso di Louis la violenza generata dall’omofobia, in un contesto personale, che attrae il lettore/spettatore in prima persona e lo costringe a un disagevole, ma necessario ruolo voyeuristico.
Se negli anni ’90, infatti, le nuove generazioni cercavano una via rappresentativa non edulcorata e diretta, i protagonisti del nuovo millennio hanno bisogno di far ascoltare le loro istanze estetiche, la cui voce può prendere vita grazie al lavoro capillare delle menti illuminate del teatro europeo, fra i quali Ostermeier può sicuramente annoverarsi come apripista.
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