
Roberto Latini e l’incanto di Fortebraccio Teatro


foto di Simone Cecchetti

Redattore
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Ritornare al passato per orientarsi nel presente è il filo rosso che Triennale Milano Teatro propone per la stagione 2019/2020, in cui la multidisciplinarità artistica apre visioni e sguardi obliqui sulla scena contemporanea. La programmazione, costellata da classici senza tempo, rivisitati e rivitalizzati da uno sguardo nuovo, e da spettacoli contemporanei divenuti ormai classici, vede in scena, tra gli altri: il duo Deflorian/Tagliarini, ai quali il Teatro dedica un ritratto d’artista, proponendo tre spettacoli della compagnia: Rewind (8-9 ottobre 2019), Reality (10-11 ottobre), Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (12-13 ottobre). Per l’occasione abbiamo intervistato Daria Deflorian.
La prima volta è stato un caso. Volevamo dedicare qualcosa a una nostra maestra comune, Pina Bausch e avendo a casa la registrazione video di Cafè Mülller abbiamo cominciato a guardarlo insieme e questa gesto è diventata la base del lavoro. Ma in realtà sia io che Antonio venivamo già – individualmente – da dei lavori che erano sempre dedicati o a partire da qualcos’altro. Debiti alla letteratura, al teatro stesso, ad artisti. Certo erano lavori più frammentari, non avevamo trovato ancora una nostra lingua. Ma ad entrambi non era mai successo nemmeno prima di partire da un testo teatrale compiuto. Nello stesso tempo non siamo nemmeno quel tipo di autore che sa immaginare un mondo e lo scrive, quel tipo di autore che inventa dei personaggi, una trama. Veniamo entrambi dalla performance, dove il reenactment è una pratica diffusa.
Siamo attratti da figure più spesso femminili, comunque fragili, a volte decisamente marginali, indubbiamente gente comune, che non ha nulla di eroico e a cui non è successo nulla di glorioso, ma nemmeno di troppo tragico.
Siamo entrambi appassionati di arte contemporanea, sicuramente il ‘900 è il nostro secolo, e ogni volta c’è almeno un artista le cui opere ci sembra parlino di quello che stiamo progettando. Il rapporto è sempre di estrema libertà, l’influenza poi non è così leggibile nei lavori, ma sono sempre punti di partenza molto importanti.
È stato grazie a Ce ne andiamo per mandarvi altre preoccupazioni, terzo lavoro (che non a caso ci ha fatto vincere il premio Ubu come miglior nuova drammaturgia nel 2014) che, nonostante la nostra timidezza nel considerarci autori, abbiamo cominciato a guardare a quello che avevamo scritto fino a quel momento come a una traccia significativa dello spettacolo. Come sempre non è una traccia esauriente, ma questo vale per tutti i testi teatrali o quasi. Ma nemmeno la ripresa video di uno spettacolo rispetta la verità della scena. Nè i totali tristi e noiosi, nè i video dal montaggio sincopato che rincorrono il cinema. Alla fine il libro rimane l’oggetto più bello, a nostro parere.
È una parola molto ampia. Ognuno oggi la usa in modo diverso. Volendo essere semplici (rispetto ad una questione che semplice non è) potremmo dire che la drammaturgia è una colla. Tu hai tanti materiali diversi, eterogenei, che di fatto tali rimangono, ma che grazie alla colla, alla drammaturgia, vengono poi percepiti e di fatto sono un oggetto unico, diventano qualcosa che non sarebbe esistito senza quell’opera compositiva. Oppure potremmo dire che la drammaturgia è una visione che permette di re-immaginare tutti i materiali che hai accumulato durante i mesi di prova. Finché non arriva quella visione non riesci a capire cosa buttare, cosa tenere, cosa mettere prima, cosa mettere dopo.
Assolutamente sì. Ne parliamo spesso, ne siamo inevitabilmente vittime. Viviamo dentro questa società. Cerchiamo di proteggerci grazie al repertorio, portiamo in giro tutti i nostri spettacoli contemporaneamente, senza rincorrere una novità all’anno. Abbiamo la fortuna di lavorare anche all’estero: a ottobre porteremo Reality a Cracovia, come diciamo noi portiamo Janina Turek, la protagonista polacca del lavoro, a casa. Eravamo lì a provarlo nel 2010. A novembre portiamo Il cielo non è un fondale a Madrid, dopo averlo fatto a Lisbona la scorsa stagione. E così via. Altra protezione è cercare di allungare il più possibile il tempo di preparazione di un lavoro. È fondamentale dimenticarsi per il più a lungo possibile che stai preparando un prodotto, qualcosa che va venduto. Certo, nessuna protezione è sufficiente. Viviamo tutti dentro un vasto, assoluto mercato.
Qualunque risposta rischia di essere retorica. Ma rischiando allora la retorica fino in fondo diciamo che ci piacerebbe cambiare la vita delle persone che vengono a teatro. Ci sono spettacoli che hanno cambiato la nostra, quindi questa cosa è possibile. Lo sappiamo. Sono cose che riguardano l’individuo e non il pubblico nel suo insieme. E certo non c’è nessuna ricetta che ti garantisca di riuscirci, però è chiaro che quello è il desiderio.
Il racconto teatrale di Edouard Louis (pubblicato in Italia da Bompiani) è arrivato al momento giusto, dopo che Mark Fisher era entrato letteralmente in scena attraverso la lettura di un suo saggio (Buono a nulla) dentro Quasi niente. Ragionamento e racconto. Dimensione collettiva e storia personale. Edouard nonostante la giovane età è un maestro in questo. Inoltre in Quasi niente scrittura di scena e scrittura a tavolino si sono alternate più del solito. Siamo pronti a provare un testo “dato”. Siamo ancora in prova. Capiremo col tempo qual è lo spostamento. Partiamo da due grosse novità per noi: per la prima volta non saremo in scena io e Antonio e come dicevo, le parole saranno quelle di Edouard Louis. In scena ci starà Francesco Alberici, attore (ma anche regista e autore dei suoi lavori) che lavora con noi dal 2016. La storia è quella di un figlio che parla ad un padre che non è in grado di ascoltare. Una rabbiosa dichiarazione d’amore a un padre difficile, scontroso, violento. Il figlio che lo ha negato per anni riapre il dialogo e lo “riguarda”. Un’azione intima e storica allo stesso tempo. Toccante e urticante. Il debutto sarà a Modena al Festival Vie a fine febbraio. Ed Edouard sarà con noi.
A volte può sembrare che un luogo si trovi vicino nonostante la sua distanza abissale. Così come è possibile trovare analogie e differenze con delle persone vissute un secolo prima di noi. Morte 30 anni fa. Giudicate e condannate per i loro misfatti. Non è poi così strano quel meccanismo che determina l’empatia. Sia che si tratti di gioia, sia di dolore, di amore o di odio. La somiglianza nel parossismo è nelle (s)proporzioni umane. È quello che hanno messo in scena Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro ultimo spettacolo, Gli sposi.
Il nostro incontro unisce simbolicamente l’inizio e la fine dell’estate. Un ponte spazio-temporale tra il quartiere Aventino di Roma, dov’è andato in scena lo spettacolo Gli sposi in occasione del Lunga Vita Festival e il Teatro Biblioteca Quarticciolo, dove il 22 settembre verrà riproposto Sì l’ammore no. E sarà un momento di festa. Per i dieci anni dello spettacolo e del loro matrimonio.
Come avete lavorato allo spettacolo Gli Sposi e come si colloca all’interno del nostro momento presente?
Elvira: Il nostro ultimo spettacolo è il secondo testo di cui non siamo gli autori. Il primo, Carne, risale al 2016 ed è stato scritto da Fabio Massimo Franceschelli, drammaturgo romano che conosciamo molto bene e che apprezziamo. Con Gli Sposi ci confrontiamo con un’altra forma di scrittura. È un percorso che ci piace fare parallelamente. I problemi che pone, affrontando una scrittura ed un punto di vista diverso dal nostro, sono interessanti. Il tema storico si inserisce bene all’interno del nostro percorso. Abbiamo conosciuto l’autore David Lescot nel 2015 all’interno di un progetto di scambio di drammaturgia tra Italia e Francia che si chiamava “Face à Face”, in cui David fece una mise en espace al Theatre de la Colline dello spettacolo Aldo morto. Ci colpì molto, ci siamo conosciuti ed è nata tra noi un’amicizia, ci siamo scambiati anche dei testi, tra cui questo sui coniugi Ceausescu. Della Romania sapevamo poco, Lescot era molto contento che lo facessimo noi, era stato messo in scena solo da una compagnia francese. Fabulamundi ha collaborato alla produzione con la traduzione di Attilio Scarpellini. A Roma è stato fatto un workshop per attori, dove abbiamo lavorato sul testo e, successivamente svolto una residenza con David Lescot. Abbiamo così potuto lavorare insieme e confrontarci con lui. Lescot va dritto al punto, narrando la storia dei Ceausescu, ed è molto ritmico. Il testo è diverso dalla nostra scrittura, molto lineare e cronologico, lo abbiamo fatto nostro con il lavoro attoriale, introducendo le musiche, la scrittura scenica e il finale. L’autore ha visto lo spettacolo al debutto a Roma, ed è stato molto contento.
Il decennio degli anni ‘80, con la fine del blocco sovietico, di un certo modo di intendere la politica e con tutte le trasformazioni e gli sviluppi nel campo della cultura: tutto questo ha a che vedere con il vostro spettacolo?
Elvira: In realtà si tratta della storia di uno sguardo su questa vicenda. Lescot descrive in maniera molto intelligente e grottesca la versione occidentale, post ‘89, di una coppia di dittatori, due “mostri” portati alle estreme conseguenze nel testo. Prima dell’89 Ceausescu non era visto così male in Occidente, aveva delle relazioni diplomatiche con molti capi di Stato. Siamo andati a vederci i documentari Rai dell’epoca, ad esempio, sia prima che dopo la vicenda dell’89.
Daniele: In alcuni documentari dagli anni ‘90 in poi si vede in azione tutta la retorica con cui, a posteriori, ogni volta, si fa la damnatio memoriae della figura dei dittatori. Da Caligola ed Eliogabalo, passando per Cola Di Rienzo e Masaniello, ma anche Hitler e Stalin ed i Ceausescu, la demonizzazione post mortem del capo raggiunge gli stessi livelli di manipolazione e obnubilamento delle coscienze della propaganda in vita. Se accostiamo la narrazione successiva all’Ottantanove con quella precedente lo scarto è impressionante. Ci sono per esempio dei servizi giornalistici italiani anni ‘70, si trovano anche online, dove vediamo una Elena Petrescu intervistata con molto rispetto, e Ceausescu appare pienamente legittimato dal mondo politico e dall’opinione pubblica di allora come una terza via tra Blocco Sovietico e Occidente. Il testo di Lescot racconta la storia dei due coniugi Ceausescu, da quando erano piccoli a quando si sono conosciuti, dai primi passi come militanti del Partito Comunista, negli anni ‘30 del Novecento, alla progressiva presa del potere. Fino alla morte, avvenuta nel 1989.
Nel copione i personaggi sono indicati genericamente come Lui e Lei. In scena, all’inizio, ci sono soltanto i due attori. Come se li raccontassero da fuori, ciascuno dà informazioni e parla male dell’altro: lei è brutta, lui è stupido e balbetta e così via. All’inizio c’è una componente di ambiguità che porta gli spettatori a immaginarci come i due coniugi dittatori. Da questo distacco iniziale, piano piano sprofondiamo – insieme agli spettatori – sempre più dentro i Ceausescu. La scrittura perde così ogni connotazione narrativa e diventiamo due figure sempre più esagerate, parossistiche, orribili, spaventose, ridicole, grottesche, fino alla tragedia finale – il loro processo, l’esecuzione e la morte. Il momento in cui c’è una combinazione, secondo noi molto potente, tra allontanamento e commozione, raffreddamento ed empatia. Nonostante fossero stati dei potenti dittatori questi due hanno fatto una fine terribile, due vecchi zii bisbetici liquidati in un processo sommario in cui il potere che li ha rovesciati non appare migliore di quello appena rovesciato. Insomma, lo spettacolo utilizza un procedimento narrativo molto semplice ed efficace: distanza iniziale, sprofondamento nella storia e allontanamento finale. L’autore, oltre al dato storico, ha tenuto presente anche la suggestione del Macbeth di Shakespeare. C’è una donna forte e un uomo inizialmente debole. Lei che decide, lui che segue le sue indicazioni. L’eminenza grigia e l’esecutore, il braccio e la mente. Nel nostro spettacolo Lei, che è Elvira ma è anche Elena Petrescu, è come una regista, in scena abbiamo cercato di sottolineare particolarmente questo punto: Lei dà continuamente piccole indicazioni sceniche e Lui esegue obbediente. Anche noi, come i Ceausescu, siamo una coppia di vita e di lavoro. Abbiamo cercato di tenerlo presente e renderlo evidente, durante lo spettacolo, in tanti piccoli dettagli. Abbiamo creato qualche piccolo momento di tenerezza e romanticismo, che nel testo non c’era, o era solo accennato. Piccole cose, fatte di sguardi, gesti, intimità accennate, non detti. Lo spettacolo, dal punto di vista anche della forma, dice molto di come intendiamo e vediamo il teatro e lo spazio scenico. Abbiamo reso tutto molto astratto. All’inizio la scena è completamente vuota, deserta eppure evocativa. Portiamo in scena via via pochi oggetti, prima un’asta di microfono e poi un’altra, entrambe importanti per i discorsi politici del dittatore, che nello spettacolo son molti, poi due sedie di scuola, che il nostro scenografo Alessandro Ratti, peraltro d’origine romena, ha ricostruito simili a quelle sulle quali sedevano i due coniugi durante il processo del dicembre ‘89, che fu inscenato dentro l’auletta di una scuola elementare, con le sedie, i banchi e la lavagna. A Târgoviște in Romania è possibile visitare quel luogo che è diventato meta di visite turistiche, anzi abbiamo visto dei turisti farsi i selfie seduti sulle vecchie seggiole e davanti al muretto contro il quale furono fucilati questi sposi dittatori, e ciò dà l’idea del mondo squallido in cui siamo scivolati negli ultimi 30 anni: un Villaggio Globale a metà tra il villaggio turistico ed il centro commerciale.
Le analogie utilizzate nello spettacolo sono servite oltre che per creare l’empatia finale anche per raccontare qualcosa che non è stato ancora raccontato sui Ceausescu?
Elvira: L’empatia avviene un po’ perché si è spinti a comprendere queste due figure. Nel testo sono talmente esagerati e poco credibili che alla fine scatta l’immedesimazione. Serve anche per porre delle domande, per esempio se hanno fatto qualcosa di positivo. Abbiamo letto diversi testi, c’è chi ne parla bene e chi male. Con la fine dei Ceausescu si chiude la pagina della fine del blocco sovietico. Quella in cui cadono tutti i regimi comunisti. Viene narrato come un grande evento, dal crollo del muro di Berlino in poi. Ci siamo posti tante domande intorno al fallimento di quella idea. Cos’è stato il dopo? Sicuramente c’è stata una entrata forzata nel capitalismo. Queste domande stanno alla base di una modalità di pensiero che ci porta ad avere dei dubbi, o comunque a non accettare per scontata la versione “corrente” delle cose, dei fatti.
Daniele: A livello teatrale ci sembra sempre interessante, e lo facciamo anche nei nostri testi, costruire le cose, disporre i materiali, in maniera che possano suscitare impressioni contrastanti. Il testo di David è molto bello ed è ben scritto, è divertente, contiene delle scene molto vive, tante informazioni, tante cose, ma si capisce abbastanza presto quale sia la tesi di fondo sui Ceausescu. Noi abbiamo cercato, senza cambiare una parola, di problematizzare un po’ il discorso.
Elvira: Abbiamo tenuto presente il fatto che il nostro pubblico è italiano. Sarebbe interessante conoscere la reazione di quello della Romania o di altri paesi. Il paradosso consiste nel fatto che conosciamo veramente poco di quella nazione, nonostante molti romeni vivano in Italia. Poiché c’era un percorso cronologico, noi abbiamo scelto di utilizzare delle musiche che fanno capire molto chiaramente il periodo di riferimento. Sono canzoni molto note in Italia, ad esempio una degli anni ‘60 che chiunque riconoscerebbe. Abbiamo scoperto che c’erano molti cantanti che rifacevano le canzoni occidentali in romeno.
Daniele: Passa il tempo, cambia il mondo e questi due invecchiano, accompagnati dalle nostre scelte musicali. Abbiamo cercato di suggerire il passaggio del tempo in questo modo, che crediamo sia molto meno didascalico che non proiettando a fondo schermo dei video con immagini d’epoca o le date dell’anno in cui via via siamo. Ci è sembrata una scelta interessante, più astratta, anche di fluidificazione di un testo che è stato scritto a quadri, come scene di un film Biopic. Noi ne abbiamo fatto un movimento unico, anziché incoraggiare lo spezzettamento del discorso.
La fine di una dittatura o il primo di una serie di errori della democrazia?
Elvira: È evidente la vittoria del capitalismo globalizzato. La scelta musicale che abbiamo fatto per la fine va chiaramente in questo senso, verso una sorta di omologazione generale nei gusti, nel pensiero, nello stile di vita. Una dispersione di identità dentro una marmellata che coinvolge tutti noi. Viviamo nello stesso mondo. Usiamo gli stessi oggetti e abbiamo gli stessi cliché. È una democrazia esportata e vincente nonostante il termine sia abbastanza ambivalente.
Daniele: Siamo molto contenti di questo lavoro che rappresenta un’ottima sintesi di un incontro tra scritture, modalità artistiche e di pensiero politico del mondo differenti, o meglio simili ma anche un po’ diverse: io ed Elvira come autori tendiamo all’accumulo ed al centrifugo, cerchiamo sempre in qualche modo di stimolare una demiurgia di terzo livello da parte dello spettatore, rispetto al secondo livello che è quello dell’artista, ed al primo, che è quello di Dio. Il creatore assoluto, l’artista supremo, il demiurgo del mondo grande e terribile in cui siamo, naturalmente se Dio esiste. Insomma ci teniamo sempre a stimolare l’autorialità dello sguardo dello spettatore, che con la sua personale lettura nel momento della rappresentazione chiude lo spettacolo. Noi siamo volutamente, direi violentemente disordinati, almeno in apparenza. Costruiamo le cose stratificando, e non sempre facciamo tornare tutti i conti. Al contrario David, che è un autore francese – il paese di Molière, Racine e di Cartesio – pone in essere una struttura chiara, geometrica, asciutta, un meccanismo teatrale perfettamente funzionante. Si capisce bene come inizia, come si sviluppa e come si conclude. David è molto ordinato anche nelle contorsioni, è sempre molto chiaro. Non volendo smontare una struttura così limpida, abbiamo cercato di complicarla aggiungendo, come si diceva, dei livelli di regia, di scrittura scenica e di presenza. Per noi è stato un ottimo cantiere di lavoro e una palestra che, spero, tornerà utile anche per i prossimi lavori. Si è trattato, oltretutto, di un magnifico e democratico lavoro con i nostri collaboratori: tutte le fasi di costruzione sono state discusse e ponderate con calma, lucidità e serenità da noi. Non solo con l’autore ma anche con il nostro light designer Omar Scala, che ha fatto davvero un buon lavoro di luci e fonica, con un senso mai solo estetico e formale ma sempre anche drammaturgico. Con la nostra aiuto regista Camilla Fraticelli e col sempre prezioso Lorenzo Letizia, che ha curato il video finale che chiude lo spettacolo ma soprattutto è stato un confronto intellettuale molto valido e prezioso fin dall’inizio del lavoro.
Al tempo dei Ceausescu era molto forte il potere unidirezionale della televisione, un mezzo di comunicazione che è stato usato successivamente anche dal Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale. La propaganda e l’informazione oggi viaggiano in rete con una maggiore velocità e interazione. La storia dei Ceausescu potrebbe avere un’interpretazione diversa attraverso la Rete?
Elvira: È difficile trasportare questa vicenda nel nostro mondo attuale, perché era tutto molto diverso 30 anni fa. Se pensiamo all’esecuzione di Gheddafi, avvenuta a Sirte nel 2011, abbastanza recente quindi, notiamo che la scena dell’uccisione è stata ugualmente filmata e diffusa in tutto il mondo. La differenza sta nel controllo. Nella Romania del 1989 c’è stata sicuramente una veicolazione precisa. Non c’erano i social, come oggi, che avrebbero potuto trasmettere dei contenuti diversi, anche controversi. I media occidentali hanno ripreso quelle immagini e le hanno diffuse a tamburo battente. Due mondi completamente diversi anche nei mezzi di comunicazione. È vero che la televisione è un mezzo apparentemente democratico perché raggiunge tutti. Poi però c’è qualcuno che decide. Ora ci sono dubbi anche sui social e sul livello di libertà e di pluralità che possono avere.
Daniele: Sia il testo di Lescot, sia lo spettacolo, sono stati realizzati da persone che vivono nel loro tempo. La storia si svolge in un paese conosciuto relativamente, è vero. Molti spettatori sicuramente non erano ancora nati e questa storia la scoprono da noi. Il mondo prima dell’Ottantanove per chi non lo ha conosciuto è una cosa ora davvero sbiadita. Per chi lo ha attraversato resta un oggetto di rimozione, revisione o nostalgia. Credo che lo spettacolo parli inevitabilmente anche e soprattutto di questi nostri tempi bui. Nei discorsi politici del dittatore romeno, pur pieni del gergo tardo-marxista che nessun politico oggi userebbe più, trapelano gli stessi meccanismi retorici e quel populismo che tutti criticano adesso. Si avverte tuttavia in essi anche un rispetto ed una considerazione per la cultura che non ci sono più. Si parla di una classe politica che deve studiare, imparare, crescere per contribuire al miglioramento del paese. Questo non può che ricordarci – per contrasto – l’estinzione totale di qualunque carisma, del concetto di cultura oggi, al tempo dei Trump e dei Salvini, dove ogni intellettuale è un “intellettualone” ed ogni politico quando sente la parola “cultura” non può che “sciogliere la fondina della pistola”, per citare Goebbels.
Nel processo di scrittura e di messa in scena emergono una serie di verità oppure vale la domanda che poneva Andy Warhol: « A chi interessa la verità? » .
Elvira: Sostanzialmente non c’è una sola verità. Senza però essere relativisti al massimo ci sono alcune verità. Il percorso che facciamo noi, di solito, è quello di cercare di portare le questioni dalla semplicità alla complessità. Quello che noi crediamo essere vero, le versioni che vengono raccontate di fatti e di situazioni ha dietro comunque la decisione di una precisa rappresentazione. E quindi noi cerchiamo di mettere in luce questo processo di rimettere in discussione tutto ciò che è stato considerato naturale, o vero, o assodato e incontrovertibile.
Daniele: La storia in generale è sottovalutata, poco frequentata e tenuta da conto. In realtà è molto importante perché parla di come ognuno di noi è. Noi siamo tutti appiattiti sul presente, sul quotidiano. Ci dimentichiamo di una cosa successa tre giorni prima, sia a livello di comunicazione nel mondo, sia a livello di esperienza. Siamo sempre ricattati nel presente o angosciati dal futuro e di solito il passato si presenta come una sorta di nostalgia irrecuperabile. Qualcosa che di solito tende ad essere un misto di ricordi personali più o meno indelebili, adolescenziali se non infantili, e reminiscenze di oggetti mercificati, con cui abbiamo intessuto un rapporto personalistico. La consapevolezza che deriva da un accumulo di decenni, di secoli e millenni di conoscenze e progressi è qualcosa che ci aiuta ad interpretare l’attualità. È importante perché altrimenti si parlerebbe solo del fatto del giorno, ad inseguire il nuovo saggio del momento o la nuova serie della settimana. Il nostro immaginario è comunque colonizzato. E controllato. Non è possibile non avere Facebook o Instagram, non guardare le serie di Netflix. Queste cose ti raggiungono lo stesso indirettamente. In un modo forte e pervasivo che è totalitario. Ecco, forse questa è una delle spinte interiori più forti della nostra compagnia: se non si recupera il passato, nei materiali culturali prodotti e dalla conoscenza stessa di questo passato, i riferimenti saranno sempre pochi e l’universo concentrazionario in cui muoversi sarà sempre quello reazionario nel quale siamo cresciuti tutti.
Elvira: Il passato è come è stato raccontato, come entra dentro ognuno di noi. Parla di come e perché tu pensi delle cose oggi, di come e perché tu vedi il mondo in un certo modo oggi, delle domande che ti poni. In Acqua di Colonia tutto questo è evidente, parliamo di quel colonialismo che ritroviamo installato nel nostro pensiero inconsapevolmente anche senza essere razzisti o altro. C’è perché siamo stati nutriti ed immersi in una cultura che è sia razzista sia colonialista, che vede l’altro in una certa maniera. Dei riferimenti abitano comunque dentro ognuno di noi. Con Acqua di Colonia scaviamo nel materiale storico e culturale che forma il nostro vissuto, che ci compone. Oltre la retorica del “siamo tutti buoni”, il pensiero razzista alberga in noi. Il pubblico lo riconosce, si rispecchia ogni volta che lo evidenziamo attraverso i meccanismi ironici dello spettacolo.
Daniele: In fondo il teatro si porta dietro questo dialogo con il passato, che è sempre anche un dialogo con la morte. Se non era la storia, avrebbe potuto essere il repertorio, la storia della drammaturgia. In teatro c’è sempre un qui ed ora che è sempre tale, con tutti i problemi ed il mondo che c’è intorno. Ci vedi adesso e non ci vedrai tra 50 anni perché gli attori muoiono. Ci vedrai in qualche ripresa video, ma non è la stessa cosa. Noi non abbiamo potuto vedere gli spettacoli teatrali che faceva Totò, qualcosa è stato incastrato nelle trame di qualche film. Abbiamo la versione deformata di lui cinquantenne che faceva gli sketch, ma non lo abbiamo visto da giovane farli al teatro, in uno spettacolo di varietà. Non avremo mai idea di cosa poteva essere vedere dal vivo Petrolini a inizio ‘900; di Isabella Andreini nel ‘500 e degli attori della commedia dell’arte abbiamo solo i racconti e le descrizioni. C’è qualcosa di inesorabilmente perduto nel teatro. Quando non si parla di storia, si parla di morte, della paura della morte, di stare a metà tra la vita e la morte. Aldo morto parla di Aldo Moro ma anche di ricordi personali, di parenti morti o della morte in genere. Noi la prendiamo di petto indirettamente ma è qualcosa che ha a che fare proprio con questo concetto. Un film rimane, si può rivedere 15 volte ed è lo spettatore a cambiare nel frattempo. Gli spettacoli teatrali invece deperiscono e muoiono nel tempo come le persone che li fanno.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Duccio Camerini
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
La Compagnia BlakSoulz nasce nel 2003 a Modena. È diretta da Elisa Balugani che abbiamo intervistato in occasione della replica dello spettacolo EKstase presso Homework Spazio OFF (Villafranca):
Come nasce la formazione artistica BlakSoulz? Quali sono state le tappe fondamentali, gli incontri e i riferimenti artistici che vi hanno guidato nel vostro percorso?
Il progetto BlakSoulz nasce nel 2003 all’interno della scuola di danza La Capriola di Modena (che oggi ospita le prove della formazione artistica) dal mio incontro con ballerini molto diversi tra loro per background e percorsi di studio, costantemente aggiornati da corsi professionali e da esperienze di spettacolo e rappresentanti di un nuovo tipo di movimento in continua evoluzione che trae ispirazione dalle tecniche e gestualità dell’Hip Hop e della danza contemporanea. Durante gli anni i danzatori BlakSoulz hanno intrapreso percorsi di studio a livello professionale ottenendo risultati degni di nota in concorsi e contesti culturali nazionali ed internazionali. La formazione attuale è composta da : Simone Accietto, Nikita Cattini, Simone Schedan, Chiara Pellegrini , Lucia Greco, Ciro Sackie, Erik Galloni, Francesco Misceo, Francesca Galli, Emi Longagnani, Chiara Ugolini e le giovani nuove danzatrici Alessia Luciani e Beatrice Dieci.
Tra le peculiarità che connotano la vostra poetica emergono una forte coralità, un dinamismo sincronizzato dei corpi e una intensa espressività dei volti. Che tipo di lavoro viene svolto e quale processo creativo svilupate per realizzare questo risultato?
Il nostro lavoro è caratterizzato dalla contaminazione tra danze urbane, danza contemporanea, teatro fisico e ricerca di movimento con musica dal vivo. Il processo creativo è caratterizzato dall’interazione con artisti diversi quali coreografi, attori, musicisti, illustratori e video-maker con cui collaboro stabilmente. Tra questi ci teniamo a nominare Enrico Pasini (musicista che ha realizzato alcune parti musicali di EKstase) , Gaia Davolio (attrice), Marino Neri (illustratore), Bianca Serena Truzzi (video-maker che ha realizzato la parte di visual art per EKstase). Tramite laboratori coreografici sperimentiamo nuovi linguaggi con l’ambizioso intento di cercare nuove stimolanti forme espressive.
“EKstase” è la vostra riflessione in tre atti sul tempo. Quali sono state le tappe fondamentali, le estetiche che hanno orientato la creazione di questo progetto?
La nostra nuova produzione EKstase è liberamente ispirata a “Canto alla durata” di Peter Handke. Si tratta di una riflessione sulla durata, intesa come la sensazione di vivere, come consapevolezza dell’attimo presente. Lo spettacolo è idealmente diviso in tre atti, tre atmosfere che descrivono l’attimo sfuggente della durata.
EKstase – BlakSoulz
Nelle vostre creazioni il linguaggio corporeo dialoga frequentemente con la visual-art. Ci sono altre “contaminazioni artistiche” che vi incuriosiscono e che desiderate approfondire?
Le contaminazione artistiche non finiscono mai di stupirci e le possibilità di nuove idee e creazioni sono infinite. Per questo motivo desideriamo continuare la nostra ricerca attraverso la collaborazione costruita nel tempo con gli artisti che ci seguono e collaborano con noi. Sicuramente ci interessa molto la connessione tra danza e musica live e vorremmo cimentarci più spesso anche in creazioni site specific,, lavorando appunto sull’interazione tra danza, musica ed in questo caso la location (anche inusuale) che ci ospita.
Quali sono i vostri progetti futuri?
Ci teniamo tantissimo a portare in giro il più possibile la nostra nuova produzione EKstase e contemporaneamente ci stiamo cimentando in nuove performance in collaborazione con gli artisti citati in precedenza. Proseguiamo con impegno il nostro percorso di ricerca con un occhio di riguardo per le nuove esperienze sia di studio che di spettacolo che ci arricchiscono sempre. Vorremmo anche portare sempre più spesso il nostro lavoro all’estero in nuovi contesti e davanti ad un nuovo pubblico.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.