Intervista alla coreografa Floor Robert per Influenza di InQuanto Teatro

Intervista alla coreografa Floor Robert per Influenza di InQuanto Teatro

Nel prestigioso ambito di Romaeuropa Festival, il 3 Novembre 2017, andrà in scena presso il MACRO Testaccio – La Pelanda in Roma, INFLUENZA, opera prima della coreografa olandese Floor Robert per il collettivo fiorentino InQuanto Teatro. Finalista al concorso DNA – Appunti coreografici 2015 del Festival Romaeuropa e vincitore del bando SIAE – Sillumina, dedicato alle compagnie under 35, il progetto ha già ottenuto il sostegno di grandi realtà teatrali italiane. Concepita dall’estro di Floor Robert, INFLUENZA è una fuga indietro nel tempo, nella memoria e nella fantasia in cui le suggestioni del passato si materializzano sulla scena inseguendo le immagini che ci legano al mondo dei sogni, linguaggio universale – come la danza – di cui gli interpreti Francesco Michele Laterza e Giacomo Bogani sono l’espressione più vivida. Abbiamo parlato con Floor per approfondire il lavoro e la storia passata del collettivo inQuanto Teatro e per cogliere gli aspetti più intimi di questa nuova produzione.

Fotografia di Guido Mencari | www.gmencari.com

Come e con quali ambizioni è nato inQuanto Teatro?

inQuanto teatro nasce dal desiderio comune, mio, di Andrea Falcone e di Giacomo Bogani, di fare teatro. Si, eravamo presi semplicemente dalla stessa passione. Amavamo il teatro, nella sua forma più ampia, dalla rappresentazione spettacolare sul palco, alla sua funzione più sociale. Avevamo questa esigenza di comunicare ad un pubblico, per capire meglio il mondo che ci circondava e abbiamo messo alla prova la nostra amicizia diventando un collettivo. Pur essendo affascinati dai grandi classici del passato siamo partiti con quella sana presunzione di fare un teatro contemporaneo, mai visto, ma pieno di riferimenti storici.

Con un fortissimo bisogno di fare ci siamo buttati e nel 2010 è nato ufficialmente inQuanto teatro in occasione dell’edizione di Premio Scenario Infanzia in cui il nostro spettacolo Il gioco di Adamo è risultato finalista, mentre l’anno successivo abbiamo partecipato a Premio Scenario con il progetto Nil Admirari che ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria. Fin dal inizio abbiamo cercato di unire linguaggi molto differenti, soprattutto perché venivamo tutti e tre da percorsi completamente diversi e per abbracciare queste diversità la nostra mentalità doveva rimanere aperta. Negli anni abbiamo sempre cercato di collaborare con artisti esterni e ci siamo spesso anche allontanati dalla scatola nera.

Le nostre ambizioni nel tempo sono molto cambiate. C’è chi di noi ha intrapreso un percorso di studio autonomo più articolato allontanandosi per un po’, per poi tornare ad arricchire la compagnia. Da vari anni insegniamo in diversi ambiti, nelle scuole pubbliche e in laboratori privati. Realizziamo progetti che prevedono la partecipazione degli abitanti della nostra città, e ci siamo trovati di fronte a persone di tutte le età fortificando il nostro rapporto sul territorio.

Quali sono stati i momenti fondamentali della vostra sperimentazione artistica?

Direi che dal momento che abbiamo deciso di radicarci nella nostra città, il lavoro è diventato quotidiano, molto vivace. Un lavoro che cerca di rispondere alla realtà circostante e alle esigenze del momento. I nostri progetti, i nostri laboratori registrano una grande adesione, tante persone sentono il bisogno e hanno voglia di “fare teatro” o come piace dire a me “imparare a sapersi esprimere”. A ben guardare questa spinta diventa un’azione politica, perché la comunità ne ha così tanto bisogno. Come d’altronde è sempre stato, siamo tutti fruitori attivi e partecipi dell’avvenire.

E abbiamo tutti bisogno di dare una forma a qualcosa e di far sentire la propria voce. Questa libertà d’espressione individuale sta diventando sempre più rara, e complessa. Ci sono sempre più fattori esterni che disturbano questo richiamo primordiale che appartiene all’essere umano e bisogna insistere, per pretendere un posto.

Un altro momento fondamentale è stato quando ci siamo allontanati dall’idea della regia collettiva ed ognuno di noi ha capito meglio il proprio ruolo. All’inizio tutti facevano tutto! Dalla regia al montaggio delle luci. E tante energie si sprecavano. Ci abbiamo messo un po’ a capire dove ognuno di noi poteva dare il meglio, e tutt’oggi continuiamo ad aggiustare la nostra modalità di lavoro così che ognuno possa dare il meglio di sé.

Arte nella sfera pubblica: dal 2014 il gruppo è impegnato nell’opera di ricerca sulla memoria condivisa. Come avete concepito e realizzato lavori basati sull’interazione e il dialogo con la cittadinanza?

Per questi progetti siamo letteralmente scesi in strada con i nostri blok notes, i nostri microfoni e videocamere e abbiamo iniziato a fare domande. Domande preparate, domande giocose, domande a cui chiunque poteva rispondere se ne aveva voglia. Siamo entrati in punta di piedi nelle vite degli altri, e questo ovviamente ha arricchito il nostro lavoro e abbiamo imparato molto anche da un punto di vista umano. Abbiamo fatto un grande patchwork con tutto il materiale raccolto, dalle registrazioni audio a quelle visive.

Le performance e gli incontri finali che ne sono nati erano molto di più di una semplice restituzione del progetto; a volte erano delle installazioni visive, a volte degli spettacoli itineranti, altre volte erano salotti urbani dove parlare insieme, delle feste, dei ritrovi dove lavorare e passare del tempo con gli altri, disegnando, e scrivendo liberamente commenti, aneddoti e memorie sulla città. Con MAPS, per esempio, un progetto realizzato nel 2015 per Estate Fiorentina, la rassegna di eventi culturali e di spettacoli del Comune di Firenze, le suggestioni, le immagini e le parole raccolte sono diventate parte di un testo originale che ha accompagnato una performance urbana.

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Nei vostri lavori tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria. In che modo il tema del passato si inserisce nella ricerca estetica e poetica del collettivo?

La storia, i ricordi, la memoria sono temi che ci hanno sempre affascinato sin da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme. Credo che chiunque che si presenti sulla scena si interroghi sull’epoca storica in cui vive, perché stare nella rappresentazione, essere interprete e al servizio dell’opera stessa è una condizione che ti fa vivere fuori dal tempo.
La dimensione “tempo” è stato uno degli elementi centrali dei nostri spettacoli da sempre. In alcuni di essi abbiamo fatto dei veri e propri viaggi nel passato, in altri ci siamo divertiti a proiettarci nel futuro.

Ci interessa tutto quello che non ci faceva stare nel presente. Proprio per dare un senso diverso, a questo presente, che è sfuggente. Il presente non ci appare chiaro, è pieno di imbrogli, difficile da afferrare. Così ci prendiamo la libertà di sognare e evadere, proponendo lavori che sono intrecci di storie, trame e brandelli di un altro tempo. Le immagini che proponiamo in scena provengono dal passato, soprattutto dalla storia dell’arte poiché è una materia che fa parte di noi, che abbiamo studiato a lungo.

Io personalmente sono molto legata al passato. Vengo da una famiglia di artisti, non vivo più nel mio paese natale da più di 15 anni. E sento di portare con me tanti valori che provengono dai miei nonni e bisnonni.

Influenza è una fuga indietro nel tempo, nella memoria e nella fantasia per scandagliare i ricordi dell’infanzia: quali prospettive di indagine vengono privilegiate in questa opera?

Più che scandagliare i ricordi dell’infanzia, che possono essere così personali e segreti, in questo lavoro chiedo semplicemente allo spettatore di abbandonare lo sguardo e di farsi trasportare dalle emozioni. Di non cercare significati, preconcetti o altre narrazioni, se non la propria interpretazione. Per me il lavoro proviene dall’infanzia, mi interessa una capacità di stare sulla scena priva di tecniche, trasparente e leggera. Senza sovrastrutture, esercizi di stile, maniera o bravure. È come inseguire qualche ricordo dell’infanzia, si. Ma non è così fondamentale che anche lo spettatore faccia questo viaggio indietro nel tempo. A me interessa di più che possa apprezzare qualcosa che assomiglia ad un sogno, un sogno dolce, collettivo, surreale e a tratti inquietante. Che possa sorprendersi e alleggerire il cuore.

A partire dalla tua capacità di immaginare e disegnare la danza, le figure in movimento, l’uomo in azione, quali sono stati i tempi e le modalità di produzione di INFLUENZA?

Per fare Influenza ci ho messo un po’. È un lavoro nato nel tempo perso, fuori dai tempi di produzione. Prima di tutto è stata necessaria una lunga ricerca personale, dove testavo come muovermi sulla scena e come incarnare e dare forma a quella sensazione che volevo dare. Ho cercato una dolcezza e una posatezza dentro di me che corrispondeva al primo impulso che avevo avuto. Da questa è nata un’immagine, una visione, e per capirla meglio, l’ho portata sulla carta. Successivamente ho pensato come realizzarla, quali materiali fossero adatti e sono arrivati i palloncini.

Ovviamente di quella prima immagine è rimasto poco, solo l’essenza.Anche se disegnare la danza e farla sono due cose completamente diverse, mi piace unirle. Spesso si dice che il danzatore si muove come un pennello sulla tela, e per me è così. Si compattano anima e corpo, interiore e esteriore si sfidano. Linee si muovono, qualcosa prende forma.