Il Bambolo, un’illusione (e un dolore) difficilmente degradabile
Dal 10 al 13 febbraio, Argot Studio presenta Il Bambolo con Linda Caridi e la regia di Giampiero Judica: un monologo, scritto da Irene Petra Zani, per una donna e un bambolo gonfiabile. La coppia si trova al mare, su una spiaggia. Lei non sa nuotare e nemmeno il Bambolo. Potrebbe essere estate, ma la donna si nasconde dentro a un enorme cappotto impermeabile. La donna e il Bambolo stanno insieme da più diecimila anni. Il loro amore è difficilmente degradabile. Come la plastica. Come un’illusione.
La plastica è anche il materiale principale della scena e dei costumi, che rafforzano la dimensione non realistica e l’identificazione nella quale la coppia si trova immersa. Il testo inizia nel momento in cui nella relazione è entrato un terzo personaggio, l’istruttrice di nuoto, che spezza gradualmente la dualità simbiotica della coppia, portando la donna a vedere il Bambolo come un oggetto inanimato e ad uscire dall’allucinazione salvifica alla quale si è aggrappata per sopravvivere a una ferita indicibile: un abuso familiare subìto durante l’infanzia che ha causato l’affiorare della sua anoressia.
Ne abbiamo parlato con l’attrice Linda Caridi e con Giampiero Judica, regista de Il Bambolo.
Come nasce l’incontro con il testo e con l’autrice?
Linda Caridi: Ho incontrato il testo de Il Bambolo grazie all’autrice Irene Petra Zani che me lo ha sottoposto dato che una delle tematiche trattate, l’anoressia, ha attinenza con un percorso laboratoriale che tengo presso l’Ospedale Niguarda di Milano, nel Reparto dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Ne sono rimasta molto colpita e, della squadra di lavoro che si è andata via via formando, ha fin da subito fatto parte anche il light designer Giacomo Marettelli Priorelli, che aveva messo in contatto Irene e me.
Si è trattato di un cammino lungo e tortuoso durato qualche anno, durante il quale siamo riusciti a ricevere sostegni e contributi da diversi enti, in primo luogo quello di PAV e Teatro i, con cui Irene era già in relazione perché Il Bambolo era stato selezionato per il progetto Fabulamundi Playwriting Europe e tradotto in catalano per la Fundaciò Sala Beckett di Barcellona.
Questo rapporto ha dato il via al percorso produttivo dello spettacolo che si è poi ampliato grazie al sostegno offertoci da Associazione Erica e Officine Buone e – con l’ingresso del regista Giampiero Judica nella squadra- grazie alla collaborazione con Infinito Produzioni e Argot Produzioni.
Giampiero Judica: Avevo lavorato già in passato con Linda Caridi su un testo di Laura Forti che si chiamava Blu. Quando Linda mi ha proposto di entrare a far parte del progetto, anch’io sono rimasto immediatamente colpito dalla lettura della drammaturgia del Bambolo. Proseguire la collaborazione tra me e Linda era rimasto un caposaldo del nostro percorso artistico. Via via si sono aggiunti altri professionisti e professioniste come Lucia Menegazzo che si è occupata della scenografia dei costumi e Anna Zanetti che mi ha seguito come assistente alla regia. Essendo stati invitati al Todi Festival e avendo vinto Tramedautore abbiamo accelerato il processo di allestimento.
L.C: La risposta del pubblico in queste prime tappe è stata molto calorosa, emozionante.
G.J: Sicuramente siamo ancora all’inizio del percorso, un viaggio che è stato intenso perché Linda ha dovuto attraversare delle fasi artistiche e creative molto delicate esattamente come quelle che si trova ad attraversare il suo personaggio. (taglio dell’ultima frase)
L.C: Sono felicissima di riprendere questo testo dopo una pausa di qualche mese dall’allestimento e dalle prime repliche. Sento che si sono sedimentate tante cose, tutto il lavoro svolto con Giampiero e insieme al gruppo si sono depositati, e in qualche modo lo spettacolo sta vivendo una primissima maturazione.
Quali aspetti drammaturgici hanno segnato maggiormente il processo creativo?
L.C: Le tematiche sono certamente di grande impatto, ma lo è soprattutto il modo in cui Irene le affronta, con una scrittura che colpisce sensorialmente e suggerisce anche graficamente l’andamento del pensiero della protagonista ritratta in un flusso di coscienza. Il testo è suddiviso in tre quadri che scandiscono l’arco di evoluzione del personaggio e in qualche modo l’inizio di un processo di guarigione, dalla patologia alimentare e dai traumi relazionali che l’hanno generata. La schiettezza emotiva, a tratti violenta, e al contempo la delicatezza di certi passaggi nella scrittura, mi hanno fatto innamorare di questo testo.
Come si struttura l’intervento registico messo in campo per Il Bambolo?
G.J: Il principio adottato è quello del realismo magico che ho incorporato in tutto il processo, sia dal punto di vista dell’approccio alla direzione dell’attore, sia dell’impianto scenografico, dei costumi e delle musiche.
Già di per sé il testo offre una realtà che si differenzia dalla quotidianità per la surreale e costante interazione con un bambolo. Inoltre, vengono suggerite delle scansioni temporali immaginifiche, creando un tempo fuori dalla realtà.
A questo però si aggiungeva una scrittura molto precisa, per cui la sfida principale è stata ricreare una dimensione antirealistica, a partire da un testo fortemente incentrato su elementi reali, come ad esempio la malattia.
La prima parte del testo affronta proprio la patologia con grande consapevolezza e insieme una spiccata ironia. Un approccio totalmente fuori dagli schemi che consente di lavorare registicamente su più livelli: abbiamo scelto infatti materiali che ricalcassero questa fuoriuscita dal reale come la plastica, utilizzata simbolicamente per i costumi e la scenografia caratterizzata, insieme alle luci, da tinte molto forti che rendono immediatamente percepibile la traccia del realismo magico.
Il testo mi ha dato inoltre la possibilità di creare delle immagini anche a partire dalla musica dei passaggi temporali tra un quadro e l’altro. Alcune sequenze sono state ideate attraverso delle improvvisazioni con Linda, un codice creativo comune a entrambi, fortificato da tanti anni di lavoro insieme che hanno sicuramente incentivato la nostra complicità professionale.
Dal punto di vista attoriale, qual è stato il tuo approccio al personaggio? In che modo sei riuscita a restituire la difficile storia di questa donna e la sua condizione emotiva e psicologica?
L.C: L’esperienza al Niguarda e il prezioso confronto con le persone conosciute durante i laboratori e con l’équipe medica, mi ha sicuramente offerto un bacino importante a cui attingere. E poi leggendo e rileggendo il testo con Irene, ho iniziato a depositare insieme a lei un primo strato del percorso, sia mnemonicamente che rispetto ai contenuti profondi e meno manifesti: è un testo tematicamente complesso e difficile da memorizzare perché ha un andamento frammentato che traduce, di quadro in quadro, questo procedere per segmenti e fratture del personaggio. Quando a noi si è affiancato Giampiero abbiamo percorso con lui una seconda e verticale analisi del testo iniziando al contempo un lavoro che coinvolgesse da subito, insieme, il corpo e la mente, per rintracciare il rapporto che queste due dimensioni hanno all’interno della patologia, per moltiplicare le sfumature dei sottotesti a servizio della complessità del personaggio e per nutrire il segno del realismo magico introdotto da Giampiero, non solo in scena, ma anche nel modo di stare al mondo di questo personaggio.
Il primo quadro racconta l’apice della malattia ed è un momento in cui la protagonista estremizza il controllo sul proprio corpo, poiché, a differenza di altre porzioni della realtà in cui si trova immersa, su di esso può esercitare un dominio assoluto e dispotico. Quella con il bambolo è l’unica relazione che ha, il suo aspetto asettico e asessuato non rappresenta una minaccia e permette anzi alla donna di avviare con lui una condivisione profonda. Questo corpo della donna così nervoso e frenetico del primo quadro, nel secondo appare sfiancato, si apre una crepa nella malattia, la voce rallenta, il tono si abbassa e si dilata in una dimensione che accoglie il dubbio: è il percorso di terapia che sta iniziando a dare i suoi esiti. Nel terzo quadro infine, il processo di guarigione è avviato, cambia la gestione della rabbia, del desiderio e delle relazioni, a partire da quella con il Bambolo.
Il testo viaggia su questi due binari principali: il racconto a ritroso della storia individuale della donna; l’evoluzione della relazione con il bambolo.
Il bambolo è una figura enigmatica con una precisa funzione e valenza simbolica. Quale ruolo assume rispetto al lavoro attoriale e registico?
G.J: Il bambolo rappresenta la proiezione psicoanalitica che la donna ha di se stessa e in cui si identifica, rintracciando il dismorfismo tipico dell’anoressia. All’inizio, però, per lei è una creatura vivente per cui ho trovato affascinante la possibilità di mettere in dialogo il personaggio e l’attrice con il bambolo, vedendo come la parabola del loro rapporto incanalasse e simultaneamente rilasciasse l’attenzione del pubblico.
Mi sono reso conto che più il bambolo fosse stato scevro di qualsiasi parvenza fisica più l’immaginazione del pubblico avrebbe dovuto compensare la visione rendendolo concreto. Può sembrare assurdo ma è l’espressione massima di quello che io chiamo realismo magico. Ecco perché ci siamo concentrati molto sul creare una dinamica fisica oltre che dialogica tra Linda e il Bambolo.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.