In programmazione all’interno del Festival Labirinto II presso il Teatro Studio Uno il 21 e 28 maggio 2017 abbiamo partecipato alla prima assoluta di Orientheatre: giro di vite, ispirato al romanzo “Il giro di vite” di Henry James. Prendendo spunto dalla disciplina dell’orienteering, o orientamento, che consiste nell’effettuare un percorso caratterizzato da punti di controllo chiamati “lanterne” e con l’aiuto esclusivo di una cartina topografica, gli attori del Gruppo della Creta hanno ideato l’evento urbano Orientheatre. Sostituendo le “lanterne” con attori, gli spettatori sono invitati ad orientarsi nel quartiere di Torpignattara, come dentro ad una drammaturgia spaziale. Seguendo le più moderne correnti di “riappropriazione territoriale”, che consistono nella valorizzazione delle zone depresse urbane ed extraurbane, messe in moto in più parti del mondo dai più svariati gruppi di ricerca teatrale e artistica, il Gruppo propone una possibilità esperienziale di spettacolarizzazione dell’impianto urbanistico, che diventa scenografia e set delle narrazioni degli attori disseminati nella zona.
Con queste premesse artistiche ha inizio il viaggio attraverso Torpignattara, periferia a sud-est di Roma; in una stanza oscura del Teatro Studio Uno una donna dal sembiante diabolico accoglie i viaggiatori impartendo loro le direttive della missione all’interno del labirinto urbano e fornendo alcuni oggetti che dovranno essere restituiti ai rispettivi proprietari – attori da raggiungere durante l’esplorazione della città. Una volta fornite le necessarie indicazioni per recarsi al primo punto di incontro, può cominciare l’iter attraverso le strade di una città oscura, avvolta nel caos calmo di un mistero che vive fra la realtà quotidiana e l’illusione drammatica.
Un percorso itinerante, ideato dall’estro registico di Alessandro Di Murro, che ci conduce attraverso le vie affollate di Torpignattara per conoscere i luoghi, le storie e le persone che compongono l’eterogenea realtà periferica di Roma. Così camminando accanto ai palazzi decadenti che fiancheggiano la strada, per quei marciapiedi multietnici dove si respirano altri profumi e si ascoltano nuove lingue, si può vivere una strana ed eccezionale sensazione di disorientamento. Attraversando gli archi dell’acquedotto Alessandrino si giunge al parco, luogo nevralgico di aggregazione sociale della zona in cui famiglie con bambini in festa colorano il verde inaridito e oppresso dall’incuria e del degrado depositatisi in cumuli di immondizia e di barbarie. Qui viene a costituirsi la scenografia naturale dell’incontro con il primo attore della performance di Orientheatre. Alla vista di uno degli oggetti della nostra refurtiva teatrale balenano in lui i ricordi di una giovinezza perduta, storie di amicizie ormai compromesse dall’avvento di nuove persone e nuovi interessi, di una nostalgia insostenibile a cui è condannata la memoria, la paura estrema di chi è costretto ad avventurarsi in solitaria per la propria strada.
Con la morte nel cuore salutiamo e continuiamo il tragitto arrivando davanti al Mausoleo di Sant’Elena, monumento funerario in cui furono deposte in un sarcofago le spoglie di Sant’Elena madre dell’imperatore Costantino. Un nuovo incontro segna la seconda tappa di questa avventura: una giovane ragazza dalle dolci ed esili forme ci invita a restituirgli ciò che le appartiene – alla vista dell’oggetto riemerge un passato lontano eppure così vivido nei suoi occhi color ebano in cui vivono i ricordi rimasti offesi dall’oblio del tempo come quelle anfore o pignatte – da qui il nome Torpignattara – inserite per alleggerire il peso della cupola del Mausoleo, oggi ben visibili a causa del crollo della volta.
Non c’è tempo per fermarsi a pensare e senza far domande saliamo su una macchina lì vicino parcheggiata, subito in moto sulla Casilina in direzione ostinata e contraria: il conducente, fermandosi in una via stretta ci ordina di entrare al civico 17. Ad aspettarci una giovane fanciulla dai capelli d’ambra che ci fa accomodare sulla terrazza di casa; incanta gli ospiti con un monologo di grande tensione drammatica, incarna la parabola esistenziale di chi non ha smesso di sognare, di chi ha avuto il coraggio di riprovare, a vivere, a sbagliare, ad amare, a ricercare il bene nonostante tutto il male del mondo. Accende il giradischi e la musica di Jimmy Fontana fa vibrare l’aria, la ragazza in un attimo scompare – al posto suo ne appare un’altra che ci conduce fuori dall’uscio di casa nella meraviglia di una scena surreale.
Non si ha nemmeno il tempo di realizzare ciò che accade che con un telefono in mano siamo pronti a seguire altre indicazioni per giungere al nostro prossimo obiettivo. Dopo un lungo peregrinaggio per le strade di Torpignattara, arriviamo a destinazione. Sotto i portici di un palazzo con una chitarra in mano un musicista di strada intona una lirica d’amore, struggente nella sua passione crepuscolare; mentre ci lasciamo ammaliare dalle note arriva d’improvviso una ragazza invasata dalla paura di essere sfrattata dal garage in cui abita. Ci racconta la sua vita travagliata, le promesse e le speranze affidate alle parole vacue di un promesso sposo ormai scappato altrove. Nella disperazione ci rivela la maestosa pittura murale di Nicola Verlato dedicata a Pier Paolo Pasolini al lato di un palazzo della borgata; consegnandoci una chiave, si congeda con l’invito a riportare i nostri umili resti in teatro dove il viaggio era iniziato, lì dove un altro viaggio presto ricomincerà.
ORIENTHEATRE
giro di vite
TEATRO STUDIO UNO
21 e 28 Maggio 2017
drammaturgia: Tommaso Cardelli, Alessandro Di Murro
regia: Alessandro Di Murro
aiuto regia: Francesco Ippolito
con
Jacopo Cinque, Giulia Modica, Laura Pannia, Lida Ricci e Bruna Sdao
DURATA PERFORMANCE: 50 minuti.
Il primo turno ha inizio alle ore 17.00, l’ultimo alle ore 20.00 ed è prevista una partenza ogni 20 minuti. La prenotazione è obbligatoria.
Teatro Studio Uno
Via Carlo della Rocca, 6 00177 Roma
tel +39 349/4356219 – +39 329/8027943 – email info.teatrostudiouno@gmail.com
Orari evento: primo turno ore 17.00 – ultimo turno ore 20.00 (partenza ogni 20 minuti)
[Orientheatre non è solo un ibridazione ben ingegnata fra uno spettacolo teatrale e una performance urbana ma soprattutto un tentativo di conoscenza dello spazio che ci circonda attraverso la connessione della propria persona con il circostante: è una possibilità unica per smarrirsi nelle strade di Roma in un artificio drammatico realizzato ad hoc come se fosse un tentativo necessario per perdersi e ritrovare sé stessi attraverso la scoperta della bellezza di nuovi spazi sconosciuti ai nostri occhi, di altri colori, di altri volti che questa Roma meticcia ha da offrirci. ]
Il margine non è un luogo sicuro, ma è «capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi». Così insegna bell hooks – all’anagrafe Gloria Jean Watkins –, scrittrice e attivista statunitense scomparsa lo scorso dicembre, che in testi come Elogio del margine indaga i molteplici volti dell’oppressione, intersecando il discorso sul genere con quello sulla razza e la classe sociale.
Ed è proprio il rischioso spazio del confine quello che il Gruppo della Cretadecide di abitare per raccontare le storture della nostra contemporaneità nel suo ultimo lavoro La regola dei giochi: uno spettacolo composto da cinque atti unici – Il Regno, Matteo, Soldato, Ucronia, Squali – che ogni mese vengono riproposti sul palcoscenico del TeatroBasilica, dove la compagnia è residente dal 2019.
Nella sala del teatro, che sorge sulle fondamenta di una basilica mai portata a termine in Piazza San Giovanni a Roma, abbiamo incontrato Anton Giulio Calenda, autore dei testi, e Alessandro Di Murro, regista e direttore artistico, per farci raccontare il loro progetto e la gestione di questo suggestivo spazio durante la pandemia.
La regola dei giochi sembra ammiccare alla dimensione della serialità. All’aspetto ludico a cui fa riferimento il titolo, si accompagna l’impegno richiesto agli spettatori di scovare quale sia il fil rouge che unisce gli spettacoli. Come siete arrivati a concepire questa forma, e quale rapporto intendete instaurare con il pubblico?
Anton Giulio Calenda: Quando prima della pandemia abbiamo realizzato il nostro primo spettacolo, Generazione XX, da parte del pubblico esisteva una sorta di accettazione dello spettacolo tradizionale, che è venuta a mancare dopo il primo lockdown, con l’allestimento di D.N.A.- Dopo la Nuova Alba: ci siamo resi conto che gli spettatori, ormai abituati a stare a casa e a vedere le serie tv, richiedevano qualcosa di diverso. Per questo abbiamo deciso di lavorare a questi cinque atti unici, con forme e durate diverse: sono spettacoli molto più brevi, caratterizzati da un fitto dialogo e dalla presenza di due soli personaggi (fatta eccezione per Squali). Sentivamo che in quel momento non andare incontro al pubblico sarebbe stato molto temerario e presuntuoso.
Alessandro Di Murro: Nel momento in cui abbiamo dovuto ipotizzare la riapertura, mi è venuto in mente di giocare con la forma immediatamente riconoscibile della serialità, per far sentire il pubblico più accolto. Si tratta però soltanto di una forma, perché il contenuto degli spettacoli rimane assolutamente teatrale. Anche il genere specifico a cui ogni spettacolo ammicca – dal war movie, al fantascientifico, al distopico, alla black comedy – è facilmente identificabile: ci ha divertito svuotare e riempire di nuovi significati queste forme che ci risultano assolutamente familiari.
Al pubblico non è solo richiesto di rintracciare il possibile collegamento che abbiamo instaurato tra gli spettacoli, ma soprattutto di costruire a sua volta la propria “regola”. È una sfida di senso che gli spettatori hanno accolto, trovandosi coinvolti in un dialogo e in una scelta attiva, che riguarda anche la modalità con la quale fruire dell’esperienza teatrale. Decidendo a quanti e quali spettacoli assistere, se inframmezzare le visioni con un bicchiere di vino o dilatarle nei giorni, il pubblico ha la sensazione di essere parte dell’evento che abbiamo creato.
Una delle immagini comuni ai cinque spettacoli è quella del margine: una sorta di linea che a livello soggettivo, politico o comunitario viene tracciata per separare e preservare il proprio “sé” da un’alterità percepita come “nemica”. Come avete lavorato su questo elemento, e quali potenzialità offre, per un tema simile, uno spazio come il TeatroBasilica?
A.G.C.: Sicuramente tutti gli spettacoli rappresentano “giochi” un po’ sadici. Ogni atto è un personaggio con un’identità ben definita, che poi si scinde in due voci. I due personaggi che le incarnano in scena sono coinvolti in un gioco sostanzialmente violento: devono difendersi e devono attaccare. Nell’ambito ludico è un qualcosa di assolutamente comune e accettato. Osservare questa dinamica da un punto di vista politico, però, mette in guardia su alcune deformità che nascono tra le mura domestiche, come in Matteo, nell’ambito sociale come ne Il Regno, o in un determinato contesto storico come in Soldato e Ucronia. Anche durante quella che sembra una tranquilla uscita in barca tra amici, come in Squali, conflitti simili vengono a emergere.
A.D.M.: La “regola dei giochi” è stato anche un preciso strumento di costruzione degli spettacoli – che abbiamo preparato simultaneamente –: abbiamo ristretto le nostre possibilità, per poi trovare una nostra libertà all’interno della scrittura scenica. Tutto accade nello spazio del palcoscenico, nessun personaggio esce mai di scena, e l’elemento del tiro, di ciò che cade dall’alto, è l’unico collegamento che i protagonisti hanno con un “di fuori”. Abbiamo giocato molto sull’idea di margine e di limite: in tutti gli spettacoli – fatta eccezione per Matteo – lo spazio si rimpicciolisce e costringe i personaggi in confini sempre più stretti. Tutti i personaggi hanno una grandissima energia che sembra permetta loro di distruggere le gabbie che li rinchiudono, ma alla fine si ritrovano a fallire.
Lo spazio del TeatroBasilica ci ha permesso di giocare molto su queste concezioni: oltre alla condizione di meraviglia che suscita per la sua bellezza, è anche un luogo chiuso, quasi catacombale, che crea la percezione di una netta separazione con l’esterno. Non essendoci divisione tra palco e platea, c’è anche una grande vicinanza tra attori e spettatori, che si trovano a condividere lo stesso spazio. La fortuna di essere residenti in questo teatro – e la possibilità di viverlo anche in quanto organizzatori – ci permette un grande lavoro di ricerca site-specific: cerchiamo di capire quale sia il genius loci di questo posto, in che modo possa arrivare al pubblico, e come possa vibrare una volta che gli spettacoli pensati qui vengono portati in altri contesti.
L’obiettivo, anche ne La regola dei giochi, è sempre quello di integrare ogni elemento a livello drammaturgico: abbiamo lavorato molto sulla componente materica, sulla terra, sulle luci e sull’ambiente sonoro – interamente in mano a Enea Chisci –, con lo studio della propagazione della voce e del suono. Recentemente Michele Sinisi è stato qui con Tradimenti di Harold Pinter, portando in scena un pollo bruciato, il cui odore veniva chiaramente percepito dal pubblico: credo che rimanere in questa soglia tra rischio e possibilità crei l’attrito giusto che porta lo spettatore all’interno del proprio lavoro.
La varietà dei generi e dei linguaggi con cui avete trattato tematiche estremamente contemporanee sembra invece associare la vostra identità alla duttilità a cui il nome della vostra compagnia allude. Come si colloca questo lavoro all’interno della poetica della vostra compagnia?
A.G.C.: Credo che, come gruppo di lavoro, ci stiamo dirigendo verso un’identità molto sfaccettata: stiamo andando verso una commistione di generi che è difficile catalogare attraverso un solo aggettivo. Avendo studiato Scienze Politiche, spesso la dimensione politica è al centro dei miei testi, ma secondo diverse connotazioni. Per quanto i nostri spettacoli siano spesso caratterizzati da tinte fosche, non penso che tutto quello che produciamo sia depressivo. Anzi, nell’esposizione del dramma cerchiamo sempre di indicare una via alternativa che potrebbe permettere di evitare “errori” sia dal punto di vista politico che esistenziale.
Cerchiamo di costruire spettacoli che possano arrivare al pubblico, evitando al tempo stesso cliché troppo evidenti. Andando avanti, per via negativa, credo che ci sarà sempre più chiaro quello che noi non siamo e non facciamo. Tornando all’immagine del margine, possiamo dire che non abbiamo ancora esplorato del tutto i confini del nostro “regno”. Ma quello che ci fa ben sperare, è che un minimo di “espansione” sembra esserci.
A.D.M.: Ogni spettacolo che abbiamo realizzato ci ha portato a scoprire nuove possibilità: come questo possa caratterizzarci a livello identitario è la grande scommessa che facciamo. Quello che stiamo ricercando è soprattutto un nostro linguaggio scenico: credo che sarà questo, con il tempo, a caratterizzare la nostra identità. È un linguaggio condiviso che già esiste e si sta affinando grazie alla collaborazione con Anton Giulio in primis, con Enea Chisci, e attori come Laura Pannia, Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Bruna Sdao – che sono anche tra i fondatori della compagnia nel 2015 –, oltre che con Alessandra De Feo, Valeria Almerighi, Matteo Baronchelli e Amedeo Monda.
Oltre a un lavoro sugli elementi pop e alla ricerca di sonorità differenti, nei nostri spettacoli c’è sempre una componente politica: in Generazione XX i due personaggi di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer si confrontavano con la giovane generazione – in cui ci riconoscevamo – che aveva perso il contatto con la politica. Contatto che oggi, a distanza di cinque anni, sembra invece essersi riacceso. Insieme alla nostra identità artistica ricerchiamo sicuramente la nostra identità umana, come membri di una compagnia che si accingono a superare i trent’anni. Per questo, forse, il nostro interesse si sta rivolgendo sempre di più a un’accezione “personale” della politica: nonostante lo slancio vitale, i nostri personaggi non riescono a liberarsi dall’angoscia della sconfitta.
La “nuova drammaturgia” di cui siete interpreti si confronta all’interno del TeatroBasilica con il lavoro di altri autori, legati a tradizioni e generazioni differenti dalla vostra. Cosa produce l’interazione di queste diverse “anime” in questo spazio?
A.D.M.: In accordo con Daniela Giovannetti – mia socia nella direzione artistica del teatro – cerchiamo di non creare un luogo ghettizzante, in cui abbia accesso un solo tipo di linguaggio, perché riteniamo sarebbe un modello inefficace. Vorremmo creare un luogo all’interno del quale esista una conflittualità – non solo dal punto di vista della regia, della drammaturgia, ma anche degli eventi musicali proposti – e che sia vivo e attivo proprio per questo. La forte identità del TeatroBasilica scaturisce dagli attriti lungo i margini di tradizioni diverse: la nostra programmazione varia da Alberto Moravia a Maurizio Rippa, da Michele Sinisi a Walter Pagliaro, da Roberto Herlitzka a Riccardo Caporossi. È bello sentire un regista come Sinisi dire: “Qui si respira la tradizione e il teatro contemporaneo senza che sia applicato un giudizio”. E anche per la prossima stagione la nostra volontà è quella di portare qui spettacoli che difficilmente circuitano su Roma, soprattutto per motivi economici e di produzione.
Un’altra idea per la quale combattiamo è quella di creare un luogo in cui si pensi, si ragioni e si discuta sul teatro, ma in cui la sera si faccia teatro. Negli scorsi mesi abbiamo portato avanti un laboratorio come Il trucco e l’anima, un progetto speciale finanziato dal MIBACT, sotto la supervisione artistica del regista Antonio Calenda, che ha visto la partecipazione di dodici tra attori, registi e drammaturghi under 35, e l’intervento di numerosi professori. Ma allo stesso tempo accogliamo e produciamo moltissimi spettacoli: è un progetto faticoso, ma che offre molte prospettive di lavoro, e dà agli interessati la possibilità di conoscere nuove proposte e di affezionarsi al luogo.
A.G.C.: Credo che il TeatroBasilica sia troppo grande per essere un circolo che produce solo un certo genere di cose, e sia troppo piccolo, ovviamente, per essere un teatro stabile. Non ha vetrine su vie commerciali su cui affiggere i poster di un grande attore, ma allo stesso tempo ha sede in una zona molto importante di Roma. È un luogo che quindi si adatta bene ad accogliere tutte queste anime. Scherzando, abbiamo immaginato che il Gruppo della Creta possa essere simile agli Allman Brothers, una grande band degli Stati Uniti del Sud, formata da decine di membri, che spaziava nei generi, dal jazz alla fusion. Il Teatro Basilica potrebbe allora essere una specie di Berlino alla fine dell’esperienza del Muro, quando si sono incontrati generi di persone diversissime, che l’hanno resa una città unica e senza pari. In futuro speriamo di diventare quello che Berlino è oggi: ci vuole tanto lavoro, tanta pazienza. I tempi non sono i migliori, ma combattiamo con il coltello tra i denti.
In relazione alla programmazione per la stagione 2021 – 2022, scrivete di immaginare il TeatroBasilica come luogo in cui “ricostruire insieme una nuova necessità morale di fare teatro”. Com’è stato affrontare l’emergenza sanitaria a pochi mesi dall’apertura di questo spazio, e con quali progetti e intenti state avviando la ripartenza?
A.G.C.: Sicuramente una chiusura così prematura – dopo appena sette mesi di attività – è stata scioccante, soprattutto per il bell’inizio di stagione che eravamo riusciti a proporre, in piena assonanza con i nostri intenti, con un’ottima risposta del pubblico. Dopo lo scoppio della pandemia, è stato molto più difficile far viaggiare gli artisti nello stesso modo. Il fatto di aver chiuso subito, però, ha lasciato intatta l’idea che la potenzialità dello spazio fosse ancora tutta da esplorare. Ci siamo rimessi in piedi dopo due lockdown: forse un po’ di pelle dura l’abbiamo, e voglia di andare avanti anche. Credo che il teatro sia importantissimo per una funzione morale nella società: ha i suoi tempi, e noi li rispettiamo.
A.D.M.: Il primo lockdown ha interrotto un periodo di pienezza totale, ma non ci ha fatto smettere di lavorare. E così è stato anche durante la seconda chiusura. Questo tempo sospeso è stato un momento in cui abbiamo ricercato tutto quello di cui necessitiamo: cioè il sostegno. La compagnia è riuscita a ottenere un finanziamento importante: siamo tra le tre imprese di produzione under 35 sostenute dal FUS. Questo ci ha permesso di realizzare una programmazione di tre mesi, e speriamo nelle prossime settimane di uscire con i prossimi sei. È stato un lavoro costante portato avanti da parte di tutto il team: il nostro spazio, come molti altri, chiede di essere sostenuto, di non essere lasciato “spengersi”. È un rischio che abbiamo corso e la paura di perdere tutto ci ha portato a lavorare il doppio, sia sul piano creativo, che su quello organizzativo e della ricerca di fondi. È stato emozionante vedere il teatro pieno alla fine di questo 2021: con tanti cerotti e ferite, errori da aggiustare, ma possiamo dire che ce l’abbiamo fatta.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
In un momento storico come quello che stiamo vivendo, nel quale il nostro mondo è obbligato dal malessere e dalla crisi causata dalla pandemia del XXI secolo a porsi senza indugi interrogativi profondi riguardo la direzione e il senso del nostro esistere anche come donne e uomini di teatro, sentiamo il bisogno di ripartire dalle radici, dai fondamenti della cultura teatrale europea. Come rabdomanti, cerchiamo non tanto una via d’uscita, quanto un atto rigenerativo che affondi i propri strumenti nella ricerca e nelle visioni che alcuni grandi maestri hanno tracciato all’inizio del Novecento.
Di qui la scelta del testo: Il trucco e l’anima di Angelo Maria Ripellino, che possiamo considerare l’opera di riferimento del pensiero teatrale del primo Novecento. Con Il trucco e l’anima, avventura unica dell’intelletto e dello spirito, Ripellino porta in Italia le immagini, le aspirazioni, i conflitti e le grandiose invenzioni sceniche che, sotto il nome di Teatro d’Arte, riunirono a Mosca nei primi decenni del Novecento alcune tra le più fertili menti creatrici dell’epoca. Parliamo di alcune figure che resteranno nella storia: Nemirovic-Dancenko, Stanislavskij, Mejerchol’d, Vachtangov, Tairov. Come ci ricorda Ripellino, al Teatro d’Arte gravitarono in quegli anni altre figure storiche come l’inglese Gordon Craig, lo svizzero Adolphe Appia e il tedesco Georg Fuchs.
Affondare la ricerca e la creazione in questo humus culturale ci conduce ovviamente nel grande solco della Storia contemporanea: sarà fatale raccontare quindi i destini di questi grandi uomini nel travagliato contesto della Russia di inizio Novecento, che vede cadere lo zarismo, passare attraverso la Rivoluzione d’Ottobre fino ad arrivare alle purghe staliniane, di cui fu vittima in una forma traumatica e scioccante lo stesso Mejerchol’d, fucilato nel 1940. Le questioni della forma scenica si intrecciano con la fame e la rivolta nelle strade. Con la loro arte e i loro interrogativi, i maestri russi inventano un’idea della regia come strumento di critica e di indagine costante sulla società e i suoi conflitti, destinata a durare fino ad oggi.
Finalità
Il Progetto de Il Trucco e l’Anima intende dar vita a un laboratorio di analisi drammaturgica e scenica che ha come scopo l’avvicinamento ad una ipotesi di un futuro spettacolo inteso come “romanzo teatrale”. Un “varietà onirico sulla nascita del teatro contemporaneo” che si pone l’obiettivo di raccontare per via scenica l’importanza di alcune figure-chiave che si sono incontrate in quel periodo aureo del Novecento – Stanislavskij, Cechov, Mejerchol’d e Majakovskij, ma anche Vachtangov e Bulgakov -, tessendo insieme le vite ma soprattutto le invenzioni, le visioni, i conflitti, le lotte e gli atti immaginifici che sono stati alla base del teatro contemporaneo e che ancora oggi possono guidarci come fari nella tempesta.
Il lavoro vuole sintetizzarsi con degli “Appunti sul Trucco e l’anima”, momento culminante del lavoro a contatto con il pubblico, ma sopratutto mira ricercare un gruppo che si dividerà tra i seminari, i laboratori pratici, la visione di materiali d’archivio. Il tutto si tradurrà anche in un “Diario di Viaggio” che poi in futuro diventerà un volume editoriale. Verranno raccolte durante il progetto interviste, approfondimenti, testi integrali e foto di scena; l’intenzione ultima è quella di lasciare agli spettatori un’antologia del romanzo teatrale, così da poterne fruire oltre il momento-simbolo della rappresentazione scenica. Il grande progetto su Il trucco e l’anima vuole essere, d’altronde, il fulcro di un pensiero e una pratica teatrale già avviati, che si fondano sul concetto greco di Paidèia: la formazione che presuppone un processo continuo di conoscenza e di scambio consapevole, in armonia con le grandi questioni che la società di oggi ci pone.
Il progetto
Il Progetto il Trucco e l’Anima è finalizzato alla preparazione di un futuro spettacolo che si andrà definenfo attraverso un grande laboratorio che mira a coinvolgere giovani artisti under 35. Il progetto prevede infatti la partecipazione di artisti, attori, registi, drammaturghi, scenografi e costumisti, figure tecniche e di assistenza per le attività concernenti il Progetto nel periodo compreso tra Settembre 2021 a Dicembre 2021. Tutte le seguenti attività saranno svolte all’interno del TeatroBasilica di Roma sotto la supervisione del regista Antonio Calenda e del team artistico e tecnico del Gruppo della Creta. I laboratori e i seminari in programma saranno tenuti da esperti del settore e studiosi di teatro e letteratura russa del periodo di riferimento nel testo di Angelo Maria Ripellino.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Con un parterre di grandi nomi e i protagonisti di rilievo dalla letteratura al teatro, dal cinema al giornalismo, si è svolta domenica 7 luglio in piazza Salotto a Pescara la cerimonia di consegna del Pegaso d’oro in occasione della 46esima edizione dei Premi internazionali Ennio Flaiano. Tra le personalità presenti e premiate, tra cui Piera Degli Esposti, Antonello Avallone, Gabriele Lavia, Jacopo Gassman, c’era un giovane talento under 35, l’attore isernino Alessio Esposito. La giuria teatro composta da Giovanni Antonucci, Gianfranco Bartalotta, Antonio Calenda, Masolino D’Amico e Marco Praticelli ha conferito ad Alessio Esposito il Premio Speciale. Le ragioni di tale scelta sono state motivate con la breve ma efficace definizione che ha accompagnato l’importante riconoscimento.“Promessa e certezza del teatro italiano”.
Il curriculum di Alessio Esposito è ricco di esperienze di incontri; ha abbracciato i classici del teatro ed ha esplorato drammaturgie nazionali e contemporanee, attraversandole. Attore trentenne, con uno spiccato impegno nel sociale e una personalità poliedrica vissuta e condivisa con il Gruppo della Creta, la compagnia teatrale con cui Esposito è impegnato a progettare e e a organizzare nuove attività artistiche.
Qual è stata la reazione a caldo nel momento in cui ti è stata comunicata la notizia del Premio Speciale Flaiano? Qual è la riflessione a posteriori a pochi giorni dalla consegna del Pegaso d’oro ?
Sicuramente è stata una sorpresa perché non me l’aspettavo e non sono per niente abituato a momenti e a premi così importanti. È vero, ho vinto il Fringe quest’anno, però non è un evento della stessa portata. Il Premio Flaiano è stato straordinario anche perché c’erano decine di personalità come Gabriele Lavia, Piera Degli Esposti. Mi sono trovato in mezzo a dei mostri sacri del Teatro ed è stata una bella, grande soddisfazione. Nonostante ciò, anche dopo una situazione del genere, non ho modificato le mie abitudini. Il giorno dopo ero al teatro ad aiutare i miei compagni e a fare il lavoro di manovalanza di sempre. Non è cambiato assolutamente nulla in me: sono rimasto fedele a me stesso.
La motivazione per l’attribuzione del Premio Speciale, nella sezione teatro, recita: «Giovane trentenne, promessa anzi certezza del Teatro Nazionale». Quanto una definizione può allargare o, all’opposto, restringere i confini di una persona, di un attore? Che importanza hanno per te le parole?
Come dicevaNanni Moretti: «Le parole sono importanti». Ogni singola voce ha la sua rilevanza. I miei amici amano chiamarmi “cumpà”. Cumpari, compare. Un termine che per me è importantissimo. È innanzitutto un codice affettuoso che ricorda altri tempi. Ormai il dialetto si è un po’ perso, perciò mi riporta un po’ ad un’epoca passata. Mi dà un senso di vicinanza con i miei compagni, con Cristiano (Demurtas, ndr) che ha mantenuto i vari nomignoli, dall’inglese all’italiano, con cui ci siamo sempre chiamati. Ogni singola parola ha la sua valenza soprattutto nel mio mestiere dove sono fondamentali. Ogni nome, ogni definizione ha un peso. Ho lavorato tanto sulla tecnica, sui testi, come ogni attore dovrebbe fare. Poi ovviamente le parole possono anche essere distrutte, massacrate, ma bisogna avere sempre coscienza di cosa si tratta altrimenti non si può pretendere di fare questo lavoro.
Hai iniziato a recitare ancora prima di diplomarti nel 2015 presso l’Accademia Internazionale Di Arte Drammatica del Teatro Quirino a Roma. Qual è la tua opinione su cosa è importante all’interno di un percorso formativo?
Naturalmente lo studio e la tecnica sono fondamentali per un attore, ma credo che stare sul palco lo sia di più. In questo senso, esordire in teatro a 18 anni, nella piccola provincia da dove provengo, mi ha aiutato molto. Da quel momento in poi ho sentito la necessità di andare fuori. A Roma ho iniziato a incontrare tante persone, all’interno della scuola dell’Accademia. A confrontarmi con ognuno di loro. Fare più conoscenze possibili è importante per saper distinguere e selezionare cosa vuoi imparare e da chi. Serve anche per sviluppare la capacità di saper dire di no a quei progetti dove non c’è affinità. Più cose fai e più ti rendi conto cosa è bene fare e cosa no.
C’è un dibattito in atto che sembra mettere in contrapposizione il teatro sociale che salva dall’emarginazione, che incontra le persone nei contesti urbani e periferici contro un teatro professionistico, concentrato a salvaguardare tradizione e competenze piuttosto che misurarsi e sporcarsi con i cambiamenti della società. Cosa ne pensi?
Ho avuto la fortuna e la possibilità di praticare il teatro sociale facendo spettacoli all’interno di case circondariali come quella di Isernia, quella di Santa Maria Capua Vetere, a Rebibbia con la sezione teatrale e non quella cinematografica. Abbiamo portato uno spettacolo in scena al Teatro Argentina con la regia di Valentina Esposito e Laura Andreini. Il teatro sociale credo abbia ancora una certa importanza. Anche noi con il nostro gruppo (Gruppo della Creta, ndr) cerchiamo di farlo. Un paio di anni fa abbiamo realizzato uno spettacolo itinerante,Orientheatre: giro di vite, per ilFestival Labirinto. Attori e spettatori si orientavano ed effettuavano un percorso per le strade del quartiere di Torpignattara. Si partiva dalla struttura chiusa, dalle quattro mura, e si usciva fuori dove gli eventi accadevano, nella vita reale, per poi ritornare alla fine all’interno del Teatro Studio Uno.
Adesso ci sono parecchi progetti, tanti bandi che nascono con l’obiettivo di riqualificare zone e quartieri periferici in tutte le città, da Roma a Milano, a Torino. C’è il bisogno di ritornare un po’ al passato, quando c’era tanta di questa attività. Non credo che sia finito tutto, ce n’è ancora bisogno. Anche il teatro classico, di sala, è giusto che esista, non lo vedo come una cosa deleteria. Un testo che parla di società, dei costumi, portato all’interno delle quattro mura può diventare una forma di teatro sociale quando riguarda tutti noi e non è una storia fantastica, inventata.
Quali sono stati i momenti più significativi che hai vissuto nella stagione teatrale conclusa da poco?
Ho fatto vari spettacoli sono stato fortunato perché quest’anno ho lavorato parecchio e sono molto contento. Non ho un momento in particolare, quasi tutti. La particolarità di quest’anno è che ogni lavoro fatto è stato bello, ha avuto un buon successo quindi è stato davvero un anno positivo già con Generazione XX a novembre, qui a Roma, poi con L’attesa con cui abbiamo vinto i premi miglior regia, miglior attrice e miglior attore (Alessio Esposito, ndr) al Fringe Festival. E poi le opere liriche, I Tre Barba. Hanno avuto un successo enorme piacciono alle famiglie soprattutto ai bambini. Questa è la cosa più bella: quando al teatro in prima fila ci sono dei bambini che ascoltano con attenzione, sorridono e si divertono. Percepire lo stare bene di tutte quelle persone che mi sono trovato davanti, sentire il loro stato di benessere a teatro.
Come attore e come uomo che vive in una società senti l’urgenza, la necessità di un maggiore impegno in un momento storico come il nostro carente di umanità e sensibilità?
Spesso mi ritrovo a pensare, a riflettere sul perché facciamo il nostro mestiere. Questa è una domanda che ognuno di noi dovrebbe porsi. Perché faccio l’attore? Perché scrivo? Che cosa voglio, vogliamo dire? Queste domande credo che siano collegate agli aspetti etici, politici, sociali e culturali. Tutto quello che diciamo muove dalla necessità di dirlo? Oppure perché speriamo di cambiare qualcosa, aiutare le generazioni future, noi stessi che viviamo un presente così martoriato?
La risposta a tutte queste domande potrebbe arrivare da una rivoluzione culturale: a partire da tutte le forme di arte, dalla letteratura alla pittura, non solo nel teatro. Penso utopicamente che un giorno si scenderà in piazza a milioni per farci sentire. Credo che stia rinascendo la voglia di fare manifestazioni, alzare la voce, però non è ancora abbastanza. Siamo ancora un po’ troppo silenziosi, soprattutto noi italiani che tendiamo a chiuderci nel nostro piccolo guscio e a lamentarci troppo. Invece c’è bisogno di agire. Fare vuol dire reinventare: bisogna ritornare ad essere geniali perché non ci sono più gli intellettuali. Tutto è finito, morto, a partire da una cosa semplicissima che è quella che dovrebbe nascere dal cuore, dalla pancia, ovvero l’umanità. La cosa peggiore di tutte è che non siamo più umani, non ci guardiamo più negli occhi. Con l’avvento dei social media, di internet, la nostra modalità di azione è diventata quella di scrivere una frase più o meno banale nella nostra bacheca. In questo modo crediamo che si possa risolto tutto, invece non funziona così.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Torna in scena a Roma, il 29 Maggio al Teatro Vittoria, per la rassegna “Salviamo i talenti”, Generazione XX, uno spettacolo volutamente “sgrammaticato e colorato”, come lo definisce Anton Giulio Calenda, l’autore del testo. I vari personaggi, molti dei quali hanno i nomi dei colori, sono interpretati dagli attori del Gruppo della Creta. Alessandro Di Murro ha firmato la regia di quello che è uno spettacolo ricco di contenuti e suggestioni, tanto da non sembrare un’opera prima. Ogni cosa si muove alla perfezione, con i tempi giusti, con un ritmo e una narrazione incalzante ed è evidente l’amalgama tra le attrici e gli attori del cast.
La compagnia è formata da giovani attori che si sono formati presso la Nuova Accademia Internazionale di Arte Drammatica del Teatro Quirinetta di Roma. Amano definire il loro Teatro indipendente e collaborativo. Visione e concretezza in parti uguali: la scelta che rivendicano con dignità Jacopo Cinque, Cristiano Demurtas, Alessandro Di Murro, Alessio Esposito, Pamela Massi, Giulia Modica, Laura Pannia, Lida Ricci e Bruna Sdao vuole posizionarsi fuori dagli schemi del teatro ufficiale. Ed è sicuramente un bene ritrovare un sussulto di emancipazione e di libertà ancora oggi, in tempi di omologazione e di crisi d’identità. IlFestival Labirinto è la creatura e la punta dell’iceberg del Gruppo della Creta, un luogo concepito nel 2016 dove albergano cultura e creatività, la caratteristica più manifesta di cooperativa di artisti, materia umana malleabile come la creta appunto.
Un vortice di storie quello di Generazione XX dove gravitano due strane coppie Linda e Giacomo, da una parte, la vecchia paralitica e il figlio obeso dall’altra. Interagiscono più o meno direttamente con due presenze ingombranti quella della politica rappresentata dagli onorevoli Romo e Meringuer e quella della televisione con Bianco “tutti i diritti riservati”. Unico canale e show televisivo, il Talent of Nation. Bianco come uno spettro costante, rumore bianco o white noise. Nero come una voce narrante che cerca di definire e misurare i segmenti di non-vita. Un grande vuoto, pesante come una zavorra, un non-luogo che è la nostra società con il suo delirio bulimico di hashtag, slogan di pubblicità, lavori part-time, ragion di stato, discoteche e cocktails, soldi e altro ancora. Una non dimensione dove i concetti di tempo e vita scorrono veloci, dove la moralità e l’immoralità si esplicitano con i paradossi. C’è sempre qualcuno che rischia di morire e qualcuno che muore sacrificandosi, ma quello che sembra un margine di libertà appare come una tecnica di persuasione occulta e ingannevole. Il resto lo spiega Anton Giulio Calenda che abbiamo raggiunto e intervistato.
Quali sono state le circostanze in cui si sono manifestate e sviluppate l’inclinazione alla scrittura e la dimensione di autore teatrale?
La mia è una famiglia di artisti, più precisamente di teatro. Mio padre è un regista, mia madre è un’attrice. Quando ero piccolo, vivevo con mia nonna perché i miei genitori lavoravano in giro per l’Italia, quando poi ritornavano mi portavano con loro. Diciamo che questa dimensione artistica è sempre stata presente nella mia vita. La cosa strana è che, a differenza di molti altri, non ho esordito fin da giovanissimo. Ho avuto un’educazione borghese, nel senso più bello, tranquilla. C’è stata una sorta di dicotomia, da una parte l’educazione e dall’altra il teatro che mi facevano vedere e conoscere i miei. Diventato grande, sono venuto a Roma da Riccione, dove sono nato, e da quel momento in poi ho iniziato a fare l’attore, prima negli spettacoli con mio padre.
Parallelamente portavo avanti gli studi, mi sono laureato in Scienze Politiche, e ho unito ciò che sentivo nelle lezioni universitarie con la scrittura per il teatro che è sorta, è sgorgata da sé . Avevo cominciato a comporre delle poesie, piccole cose. Volevo scrivere un romanzo, ma era troppo grande come impresa. Il tutto è confluito nel teatro. Diciamo che questi due binari alla fine si sono uniti e Generazione XX per me rappresenta questa unità: collegare il teatro con delle cose che non sono prettamente teatrali,che provengono dall’esterno. Esperienze vissute attraverso un mio percorso che è un po’ meno di quello canonico e di formazione teatrale tradizionale. Pur essendo figlio di artisti, non ho frequentato scuole o accademie. Ho voluto portare all’ennesima potenza l’essere un po’ “sgrammaticato”. Ciò credo raggiunga la sua apoteosi in questo spettacolo pop, un po’ irregolare, molto colorato e che va a picchiare sui temi a me più cari.
E le esperienze più significative?
Le esperienze più significative che mi fanno arrivare fino a Generazione XX sono state sicuramente l’ambiente della mia famiglia, i miei studi e anche il mio essere sempre tanto interno e molto esterno al Teatro. Ovviamente si tende ad odiare le assenze dei propri genitori e ad amare la vicinanza, le loro presenze. Da questa sorta di scissione è nata una cosa che è molto teatrale e al tempo stesso è anche l’antitesi stessa del Teatro. Paradossalmente è la prima cosa con cui sono riuscito ad esordire, ma è venuto fuori come un riassunto di quelle che sono state tutte queste tappe.
Quello che emerge da Generazione XX è un disagio generazionale, una proiezione verso il futuro compromessa dal peso ingombrante del passato, ma non si tratta forse di vivere in una sorta di eterno presente?
Sì è un ritratto esatto quello che stai evidenziando. Sento che in Italia soprattutto la crisi generazionale sia diventata più acuta oggi. Ho avuto modo di conoscere e visitare altri paesi che noi ignoriamo, come le Filippine, l’Indonesia, posti che noi ancora reputiamo “Terzo Mondo”. In realtà lì i giovani sono ottimisti, il tasso di disoccupazione è basso, sanno fare tante cose e sono imprenditori, anche nel piccolo. Ho voluto parlare degli anni ’70 perché secondo me se non si elaborano certe ferite, che sono diventate zavorre, il sistema politico e il dibattito in seno alla popolazione civile rimangono stagnanti, così come la cultura e l’arte.
Di conseguenza, se non ci riappacifichiamo, il futuro diventerà ancora più difficile. Vero è che l’Italia nasce da ferite, siamo stati gli ultimi in Europa a raggiungere l’unità, l’indipendenza ancora oggi è messa in dubbio, ci sono tante fratture tra Nord e Sud, tra Chiesa e Stato laico, abbiamo avuto un Partito Comunista e un Partito della Chiesa entrambi fortissimi, siamo uno dei paesi più peculiari in Europa però se questi argomenti continuano a rimanere slogan televisivi, se non c’è una discussione, un approfondimento è difficile guardare al futuro, è difficile crearsi un’identità. La crisi giovanile è infatti una crisi d’identità.
Il futuro rielaborato in termini di sviluppo tecnologico ha sacrificato l’estensione dell’umanità della cultura dell’arte?
In teatro c’è una specie di sfasatura da quando si scrive a quando si va in scena. Ho cominciato a scrivere Generazione XX circa tre anni fa, quando ero più piccolo. Avevo 23- 24 anni adesso vado per i 27. Un po’ la mia visione è cambiata, al tempo ero molto più nichilista, Adesso sono riuscito ad adeguare e ad avvicinare il concetto della tecnologia a un mio benessere più che a un malessere ideologico. Certamente siamo di fronte a degli scenari che da una parte sono inquietanti, ma dall’altra sono curiosissimi e vanno molto più avanti di quanto può fare il mio testo teatrale. Quando scrivevo non pensavo che le elezioni si sarebbero giocare, di lì a breve, solamente su Facebook. In questi giorni, in Cina hanno presentato il primo telegiornale con un anchorman robot, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale e lì sono più avanti di noi. Al tempo ero molto pessimista e questo si vede tanto in Generazione XX.
Oggi serve una forte identità personale, come anche della società e della politica. Per governare certe cose e far sì che vadano a favore di tutti. Ogni grande innovazione ha causato benefici e problemi, a volte tragedie. La gente si lamentava dei treni, delle macchine e in entrambi i casi ci sono stati dei vantaggi per tutti. Pensiamo anche a quanto possa far discutere il nucleare. Che l’umanità sia un po’ schiacciata è vero. Le prime cose che noi conosciamo possono sembrare negative, in realtà ci sono anche molti aspetti positive, tutto sta a come vengono gestite. Quello che si vede nel nostro spettacolo è l’uso negativo, gli slogan, il rumore bianco che si sostituiscono al dibattito politico, al guardarsi negli occhi, al parlare.
É un tema di grande attualità quello sull’identità: individuale e personale da una parte, di gruppo e collettiva dall’altra. Quali sono le tue riflessioni a riguardo?
In Generazione XX è assolutamente presente questo, le due cose credo siano come un cerchio che si autoalimenta al suo interno. Noi formiamo la nostra identità in un gruppo e il gruppo è fatto di singole identità.. Oggi viviamo un momento dove, secondo me, si parla di identità in una maniera assolutamente sbagliata perché la si intende come una barriera, come un confine. Io trovo che l’uso che si fa dell’identità è paralitico, vuole rispolverare il vecchio sotto la maschera finta del nuovo. L’identità è fondamentale ma non dobbiamo aver paura di modificarla in qualsiasi momento, non deve essere intesa come un limite.
Anche perché in Italia spesso ci vantiamo di essere il paese più bello del mondo ed in effetti è vero perché abbiamo una penisola bellissima. Sarebbe giusto però assumersi, come dicono i politici di Generazione XX, non solo gli onori ma anche gli oneri. Quello che arriva al di là del mare non deve alimentare una paura. Credo che potremmo essere ancora molto più forti, più avanti, più vivi e anche più ottimisti se riuscissimo a capire che superare le nostre fobie significa cogliere un’opportunità. L’identità non viene Lesa, semmai accresciuta.
Quel cerchio di cui parlavo può trovarsi all’interno di noi stessi, all’interno della nostra società, di un continente. I problemi a cui noi facciamo riferimento non possono essere considerati come vediamo le cose in TV, come spettacoli, diventerebbero piccoli e parziali. Se la gente si sposta è perché innanzitutto sono esseri umani e in tutti i secoli è avvenuto così,ma succede anche perché noi abbiamo inquinato la Terra da molto prima di altri paesi e facciamo parte di alleanze – giustissime, non voglio fare quello che dice “No USA”- che hanno portato guerre, distrutto patrimoni giganteschi. Per il nostro benessere, abbiamo spesso sfruttato certi territori, certi paesi, la conseguenza di ciò è che oggi ci sono dei flussi migratori che sono diventati un fenomeno dalle vaste proporzioni.
Ovviamente, in un paese dove tutto funziona, questi esodi non spaventerebbero così tanto. Il nostro Paese, purtroppo, è molto complicato e la gente vede difficoltà dappertutto. Bisognerebbe con grande fatica, con grande calma, far capire alle persone che questo circolo può diventare da vizioso a virtuoso. Stare bene noi è fare stare bene gli altri. Ci sono degli esempi, Riace è un caso d’identità totale, accresciuta e non lesa, ma anche un esempio di buona politica. Uno sguardo al futuro, fatto sul campo, sul territorio, che fa star bene tutti e che non è fatto come uno slogan.
Quali sono state e sono le sinergie, lo scambio di esperienze e di contatti umani con la compagnia Gruppo della Creta e con il regista Alessandro Di Murro?
Ho conosciuto il Gruppo della Creta attraverso due esperienze. La prima è stata una sorta di antipasto, ci siamo trovati nel 2015 io e Alessandro Di Murro a lavorare nello stesso spettacolo. Era La Passione, con la regia di mio padre, già messo in scena varie volte. In quella occasione l’aveva ripreso, io facevo la parte di San Giovanni e lui San Pietro. Successivamente ci siamo un po’ persi di vista, io mi dovevo laureare e avevo scritto un testo di 200 pagine. La Compagnia mi invitava a vedere i loro spettacoli come nel caso di “Cassandra” o come con il Festival Labirinto grazie al quale sono diventati un po’ più conosciuti, soprattutto a Roma. Piano piano il nostro dialogo si è intensificato.
A un certo punto, ho proposto ad Alessandro di leggere il mio testo e lui, dopo una settimana, mi ha chiesto di incontrarci poiché aveva riscontrato un grosso potenziale. Mi aveva invitato però a tagliare alcune parti. Ho risposto di sì anche perché sono un tipo che è disponibile alla collaborazione e ai suggerimenti del regista.Ci siamo messi a lavorare facendolo diventare un testo più snello e teatrale, parliamo di un anno fa più o meno. Successivamente il gruppo della Creta si è riunito ed io ho saputo successivamente che al gruppo era piaciuto molto il copione di Generazione XX ed erano disposti a lavorare.
È stato molto gratificante, abbiamo cominciato a fare dapprima un laboratorio, successivamente sono iniziate le prove dello spettacolo. C’è stato anche il grande aiuto di Domenico Franchi che è un maestro riconosciuto, ma per noi è stato veramente un angelo. Lui ha costruito questa scenografia importantissima che risolve tutte le varie dinamiche del testo e, infine, abbiamo beneficiato dell’apporto di due attori esterni Giulia Fiume e Federico Le Pera che ha fatto le prime edizioni di Generazione XX e che è stato successivamente sostituito da Federico Galante. Sono stati molto bene con noi, si sono inseriti alla grande, abbiamo fatto una anteprima allo Spazio, la prima nazionale è stata al Festival di Todi , adesso siamo a Roma. É stato come una palla di neve che piano piano è diventata sempre più grande e speriamo cresca ancora di più. Uno spettacolo così, per la sua vastità, merita di stare fisso in un luogo. Questa è una cosa che accomuna non solo noi, ma anche tante altre compagnie, trovare cioè i luoghi adatti ad essere teatro.
Come proseguiranno a breve termine le tue attività di storytelling e il legame con il Teatro?
Per quanto riguarda l’attività teatrale, io sono un po’ atipico, nel senso che voglio fare tante cose, talmente tante che un giorno dovrebbe essere di 72 ore. Abbiamo in progetto con Alessandro un altro testo che è l’opposto di quello che è attualmente in scena, vogliamo concentrarci su una cosa più piccola, ovviamente folle anche questa, altrimenti noi ci potremmo annoiare, scritta sempre da me con Alessandro alla regia.Non sappiamo ancora quanti e se ci saranno degli attori, perché non prevede personaggi. Vogliamo fare qualcosa molto vicino a una performance, una mise en espace. Se tutto va bene dovrebbe vedere la luce tra febbraio e marzo, siamo proiettati verso quel periodo.
Ho scritto anche altri testi che prima di iniziare a Generazione XX pensavo fossero più facilmente spendibili. Poi, però, diciamo che il tempo e i fatti mi hanno smentito. Quello che è venuto alla luce prima è stato talmente grande che ha assorbito tutte le mie, le nostre energie. Per fare un mese di prove bisognava essere pronti un mese prima. Nel frattempo spero di conoscere tante più cose possibili, lavoro nei musei, per Zètema Progetto Cultura (ente strumentale di Roma Capitale NdR) al Foro di Cesare. Mi piacerebbe fare tanto altro a teatro, non mi vedo soltanto come autore. Non mi vedo ancora come regista forse perchè ho ancora l’ombra di papà che è ingombrante, mi piacerebbe portare avanti l’attività di attore.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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