L’universo in movimento di Daniele Ninarello tra mente, corpo e cuore

L’universo in movimento di Daniele Ninarello tra mente, corpo e cuore

La genesi artistica di Daniele Ninarello inizia in una scuola di danza classica della provincia torinese. Nella sua voce ci sono i colori e l’intensità magnetica di un’indole ferrea. Impercettibili tracce piemontesi riconducono alle caratteristiche di quella terra così ricca di storie e di castelli, di cultura, vini e montagne. La sua emergenza di danzare e le sue urgenze di coreografo sono state nutrite con la passione e il desiderio, con il rigore della tecnica che, bruciando come un fuoco vivo, in una frazione di tempo coerente con il suo percorso di esplorazione e di ricerca, lo hanno portato spesso fuori dall’Italia e ovunque.

L’incontro con numerosi coreografi prestigiosi è avvenuto in coincidenza con la sua esperienza di studio e perfezionamento presso la Rotterdam Dance Academy. Ascoltare i suoi racconti, i commenti e le sue considerazioni equivale a lasciarsi condurre in una sorta di viaggio metafisico, spaziando tra l’Europa e il mondo. Le sue crezioni “Coded’uomo”, “Man Size”, “Non(leg)azioni”, “God Bless You” e “Bianconido” sono state presentate in festival nazionali e internazionali come Ammutinamenti, Corpi Urbani, Es.Terni, Short Formats, Marcher Commun/Mercati Comuni, Interplay/12, Les Repérages/Danse à Lille, Oltrarno Festival/Cango, DNA/Romaeuropa, Torinodanza Festival, Les Hivernales.

Il suo lavoro di ricerca coreografica è stato apprezzato, premiato, riconosciuto e largamente richiesto. Dall’Italia alla Francia, dal Belgio alla Germania, dal Portogallo al Brasile. L’incontro con Daniele Ninarello è stato come una congiuntura di eventi e di “sconfinamenti” che un Festival creativo come Attraversamenti Multipli, a Roma, ha contribuito a determinare. Quello che emerge è la sua personalità, la sua particolarità stilistica e, contemporaneamente, il resoconto di God bless you con tutto ciò che ruota attorno alla performance. C’è il corpo e lo spirito. Laddove finisce l’intervista, rimane in piedi il carattere del performer, in connessione con i pensieri e i sentimenti dell’uomo. In quella sezione aurea dove le due parti diseguali, la dimensione pubblica e quella personale, comunicano in perfetta armonia.

Quale evoluzione c’è stata nella tua carriera prendendo in esame il tuo presente artistico?

Il mio presente artistico proviene da riflessioni e da esperienze, artistiche e non, che ho vissuto in questi anni. Molto presto è nata in me l’esigenza di concentrare il mio sguardo sul corpo, più precisamente sul disorientamento della figura umana, e di affrontare questa necessità attraverso la ricerca sul movimento e sulla composizione coreografica. In modo più specifico mi interessa creare pratiche coreografiche e di movimento su questo tema.

È stato un processo istintivo e complesso quello che mi ha portato ad affacciarmi al mondo e, dunque, agli altri attraverso il mio fare arte, a condividere le mie riflessioni con le persone incontrate nella mia vita e nei miei processi artistici. Questo è un aspetto che oggi fa parte del mio lavoro probabilmente in maniera più approfondita. Se penso al modo in cui il mio presente comunica con il mio passato, in uno sguardo lampo sul mio percorso fin qui, posso solamente dire che oggi c’è un po’ più consapevolezza e una certa evoluzione sulle ragioni e i temi che mi han spinto fin qui. Ciò che mi è servito di questo percorso si è radicato nel profondo. Oggi rispetto agli inizi ho la possibilità di lavorare con altri corpi, trasmetto pensieri, riflessioni e pratiche ad altri danzatori, con i quali mi piace cooperare e costruire insieme dei lavori che per me sono veri e propri “rituali coreografici esperienziali”. Se collego i puntini dagli inizi ad oggi, quello che è andato qualificandosi sempre di più è il desiderio inventare modi in cui il corpo nell’attraversare una mia pièce ed il suo processo creativo, viva in tempo reale un’esperienza di trasformazione.

In che modo si è manifestata l’ispirazione e la genesi di God bless you?

God bless you è nato dopo un processo lungo e ha attraversato tante fasi. È nato nel 2010 ed è stato selezionato per il progetto euro-regionale tra Italia e Francia, Marcher commun/Mercati Comuni, con la collaborazione anche di Mosaico Danza e Teatro Piemonte Europa/TPE. In quell’anno il tema specifico era il luogo della fontana.
Nello stesso anno stavo affrontando un periodo di ricerca alla Fondation Royamount, dove sono stato invitato dalla direttrice artistica del progetto Miryam Gourfink. In quel luogo mi sono potuto dedicare a una ricerca su quello che era il mio campo di interesse. Molte ore venivano dedicate allo studio dell’autoipnosi e delle tecniche meditative, tutte esperienze che confluivano nella ricerca artistica personale. Inoltre, ho dedicato molte ore allo yoga, allo studio del movimento autentico. Quotidianamente ero immerso in una situazione che mi metteva a stretto contatto con tutto ciò che era sepolto in un profondo abisso personale e che in qualche modo cercavo anche di trasportare fuori dal corpo. Lì è nato il bisogno di lavorare sul disorientamento.

Ho compreso che avrei voluto fare una ricerca e lavorare su cosa realmente muove il corpo, su cosa muove gli esseri umani in questo mondo, su cosa li porta a naufragare in questo continuo susseguirsi di sedentarietà e nomadismo. Noi siamo continuamente spostati a livello fisico ed emotivo. In quel periodo avevo a disposizione un bel gruppo di danzatori a Parigi con cui potevo affrontare e sperimentare idee e percorsi artistici. Si riempivano gli spazi, li riempivo di oggetti rendendoli claustrofobici, cercavo di orientare oggetti nei luoghi. A un certo punto gli oggetti sono diventati uno solo, moltiplicato: il bicchiere. Questo per me rappresenta un oggetto fragile, trasparente, un oggetto visibile ma non visibile. In quella fase io chiedevo, a me stesso e agli altri performer, attraverso processi meditativi profondi, di entrare in contatto con delle memorie fisiche, corporee e sensoriali che portassero il corpo ad uno stato alterato, a qualcosa che fosse già accaduto nel corpo e che lo avesse reso disorientato. Mi interessava vedere come il corpo agiva nello spazio nel momento in cui era mosso da questi stati di confusione, di ubriachezza, di disorientamento e di disequilibrio. E poi sono nate delle connessioni in maniera molto intuitiva.

A un certo punto le cose si sono collegate, mi sono limitato ad osservare da vicino che cosa potesse voler dire per noi e per l’uomo il luogo della fontana e si è manifestata velocemente l’idea, il collegamento con un luogo del desiderio. La fontana è il luogo dove si gettano le monete, si esprimono i desideri, un tempo si chiedeva agli dei la loro benevolenza. A quel punto si è manifestata la figura degli homeless, dei senzatetto e la scritta God bless you: che Dio ti benedica. La performance è nata come un effetto domino tra queste immagini e queste connessioni. Mi sono detto che ovunque fossi andato mi sarebbe piaciuto ricostruire una piazza, una fontana, un luogo, una superficie di acqua trasparente e avrei dedicato alla figura dell’homeless una profonda riflessione. Ancora oggi gettiamo quella moneta, affidiamo ad un luogo profondo – ed è questo che mi interessa – i nostri desideri, la nostra fortuna. Ho visto nei senza fissa dimora dei corpi in cui sono imprigionati dei desideri che forse non si sono mai realizzati o che non si realizzeranno mai.

God bless you è nato dalle riflessioni su questi aspetti, su quanti desideri sono imprigionati nel corpo, su quante persone intorno a noi hanno dei desideri e infine sulla loro distruzione. Mi sembrava importante, infine, portare la figura di un homeless che distrugge la fontana, il pozzo dove gettiamo i nostri desideri. L’immagine finale della performance ricrea il dolore, anche fisico, ma non solo. La dimensione del dolore che è dato dalla distruzione di qualcosa, di una fragilità che viene frantumata, dalla rabbia e dalla violenza dell’ingiustizia, da un abbandono. Quella fine per me è un abbandono.

Lo scambio di energie tra performer e pubblico viene amplificato dal fatto che lo spettacolo viene realizzato in uno spazio pubblico e aperto?

È un lavoro che è nato appositamente per gli spazi pubblici ed è l’unico lavoro in cui opero in questa modalità. Il contatto con il pubblico è sicuramente importante, mi interessa portare gli spettatori a sentire attraverso i loro corpi, a fare in modo che la loro percezione possa essere mossa da ciò che sta accadendo davanti a loro e che possano vivere un’esperienza immaginativa, visiva ed emotiva che si riconnetta a loro. Io non interpreto, ma cerco di entrare in una dimensione in cui il corpo rivive uno stato emotivo, uno stato di memoria reale dato da diverse situazioni del passato, come la perdita dell’equilibrio, la fatica, la stanchezza, l’ubriachezza. Quello che accade quasi sempre in queste situazioni in pubblico, quando sono presente davanti ai loro corpi, è che affiorano tanti feedback da parte degli spettatori presenti.

Alcune persone rimangono pietrificate, altre si emozionano. Per esempio, durante la serata di venerdì 21 settembre, a Roma, un bambino molto piccolo mi ha toccato la mano e la mamma gli ha dato il permesso di accarezzarmi. Sono momenti che vengono integrati nella partitura. È chiaro che c’è un modalità attraverso cui il pubblico è estremamente attivo in questo lavoro. Ci sono state situazioni particolari come per esempio a Marsiglia dove, nella piazza centrale popolata da numerosi homeless, io all’inizio ero seduto accanto a loro e nessuno si aspettava che proprio io cominciassi quell’azione. La prossimità con il pubblico è arrivata ad essere estremamente emotiva. Mi interessa arrivare al cuore della gente, in tutti i miei lavori. Arrivare al cuore del pubblico per me è importante, qualunque sia il significato di cuore.

photo by Andrea Macchia

Quali esperienze, legate ai luoghi aperti e non, agli spazi pubblici, ricordi in modo particolare?

God bless you non è stato mai fatto in uno spazio chiuso proprio per la sua natura e per il suo dispositivo; per me è importante che venga fatto in uno spazio aperto perché è nato quasi come un’incursione, è un lavoro nato così.
E’ stato messo in scena in contesti come la piazza gremita di Marsiglia, per esempio, oppure a Rio de Janeiro dove c’era un immaginario complesso e anche diverso e ancora a Porto, a Torino, a Lione, Parigi, ecc. Lavoro con l’energia del luogo, per me l’energia che si crea tra spettatore e performer è un elemento di ascolto importantissimo. Non posso far finta, non posso procedere senza ascoltare, per cui ogni volta succede sempre qualcosa di diverso. A Lione avevo tantissimi bambini intorno a me. I bambini credono a quello che vedono, poi non ci credono più e però si emozionano e con te entrano nello spazio saltano e fanno delle cose pazzesche.