Intervista a Francesco Frangipane regista di Giusto la fine del mondo

Intervista a Francesco Frangipane regista di Giusto la fine del mondo

Giusto la fine del mondo Di Jean-Luc Lagarce Traduzione Franco Quadri  Con Anna Bonaiuto Alessandro Tedeschi Barbara Ronchi Vincenzo De Michele Angela Curri  Regia Francesco Frangipane
Giusto la fine del mondo di Jean-Luc Lagarce
ph. Manuela Giusto

Louis – uno scrittore malato di Aids e prossimo alla morte – dopo essere stato lontano da casa per dodici lunghi anni, torna nel suo paese natale per rivedere i suoi familiari e comunicare loro la notizia della sua malattia e della sua imminente morte. Ad aspettarlo trova la madre vedova, i due fratelli Antoine e Suzanne e la cognata Catherine.

A partire dal capolavoro di Jean-Luc Lagarce, arriva al Piccolo Eliseo di Roma, fino al 1 marzo, lo spettacolo Giusto la fine del mondo, regia di Francesco Frangipane con Alessandro Tedeschi, Anna Bonaiuto, Angela Curri, Vincenzo De Michele e Barbara Ronchi. Intervistiamo il regista e direttore artistico di Argot Produzioni per scoprire i dettagli di questa nuova produzione.

Come si intreccia il dramma di Louis e della sua famiglia a partire dai temi dell’abbandono e dell’incapacità di comunicare?

Il meccanismo interessante di questo testo è che l’elemento chiave viene dichiarato subito. Già a partire dal prologo, il pubblico sa cosa sta per vedere: c’è un figlio che dopo anni di assenza  torna per comunicare alla famiglia che sta per morire. Tutto ruota intorno all’attesa del disvelamento della notizia, un momento che però viene continuamente rinviato dagli altri familiari, come se consciamente o inconsciamente, tendessero a evitare di ricevere l’informazione. Anche se non conoscono i motivi di questo inaspettato ritorno, è come se percepissero l’esistenza di un rischio mostrando il bisogno costante di riempire i vuoti attraverso una una bulimia di parole che si origina da una scrittura fiume del testo. L’unico elemento di sorpresa per lo spettatore, che persiste fino alla fine dello spettacolo, è rappresentato dalla possibilità di Louis, il protagonista, di dare o meno la dolorosa notizia, motivando la ragione del suo ritorno. In questo percorso, anche il personaggio di Louis ha un suo sviluppo e una sua trasformazione: egoisticamente, ritorna a casa dopo 12 anni per il proprio bisogno di essere ricordato come desidera dai suoi familiari, rendendosi conto che la sua assenza ha determinato nella famiglia la percezione che egli sia già morto. Da ciò si avvia una serie di regressioni esistenziali, scritte come fossero un dialogo con il pubblico in cui Louis prende coscienza di questa condizione.

Il testo scritto da Jean-Luc Lagarce ha una natura fortemente discorsiva, con una presenza ipertrofica della parola. In questo senso come si è avviato il processo registico dalla lettura del testo fino alla restituzione scenica?

Sono stato molto influenzato dal film di Xavier Dolan che mi ha fatto comprendere quanto il testo potesse essere concreto nonostante la sua verbosità, il linguaggio molto letterario e di difficile eloquio. Tralasciando i flussi di coscienza del protagonista, le restanti situazioni sono quotidiane, per cui ho evitato di essere astratto puntando a una recitazione realistica che semplificasse anche il linguaggio, non sminuendo la scrittura ma pronunciando le parole con una semplicità tale da aiutare il pubblico a riconoscersi in una situazione comune: un figlio che torna a casa e si scontra con le conseguenze del suo allontanamento. È come se la vicenda familiare non fosse contemporanea e Louis fosse in una propria dimensione dalla quale racconta quell’episodio. Louis è una sorta di voice over che, di volta in volta, ci riporta alla sua realtà, quella di un uomo morto da solo che compie un cammino di espiazione verso la propria casa e la propria famiglia.

Anna Bonaiuto in Giusto la fine del mondo
ph. Manuela Giusto

Come hai lavorato su questa produzione? Hai cercato degli stimoli da parte degli attori per quanto riguarda un senso possibile rispetto alla messinscena di un testo così complesso?

Solitamente scelgo un testo perchè mi convince profondamente ma poi lo spettacolo prende la forma del lavoro fatto con gli altri. Per questo trovo fondamentale la scelta degli attori: mi faccio attraversare dai consigli, dai risultati del lavoro di gruppo per poi veicolarli verso la mia idea di regia facendo evolvere il personaggio attraverso la sensibilità e la qualità attoriale degli stessi interpreti. Da un punto di vista estetico ho deciso di creare un contenitore scenografico con un astrattismo che risultasse il più quotidiano possibile, pur conservando il simbolismo: la casa è come fosse un’isola, c’è un sistema di veneziane che nell’alzarsi e nell’abbassarsi esclude e confonde  interno ed esterno.

In che modo il teatro può indagare la condizione umana e riportarla sulla scena? E come il pubblico potrà ritrovare sé stesso e il proprio percorso familiare all’interno di questa storia?

Questa è una costante dei miei lavori: sono anni che faccio spettacoli sulla famiglia che, essendo a mio avviso l’elemento centrale della società, permette a tutti di immedesimarsi in una situazione. Raccontare di volta in volta quel mondo, attraverso un dramma che scatena delle dinamiche è diventato la mia poetica. Anche in base a come sono state recepite quelle situazioni dal pubblico, ho capito che le scene di vita quotidiana molto riconoscibili sono uno strumento che consente allo spettatore di entrare nel dramma e viverlo. È un tipo di meccanismo teatrale che aumenta il coinvolgimento ponendo lo spettatore in una condizione voyeuristica, quasi stesse spiando come un intruso. In virtù di questo, faccio un lavoro di messinscena legata a delle atmosfere di suoni e luci che accompagnano una dimensione emotiva senza essere mai invasive.