Occhio a chi guarda. Intervista a Giuseppe Antelmo di Casa dello Spettatore
Nonostante le immagini siano da tempo immemore veicolo di comunicazione, è dall’Ottocento in poi, con la nascita della fotografia – e poi del cinema, della televisione e di internet – che esse hanno assunto un’importanza sempre maggiore come via di accesso alla conoscenza. Eppure la didattica scolastica si è adattata con scarsa elasticità a questo cambiamento, restando orientata verso un tipo di educazione basato principalmente sulla lettura, piuttosto che sulla visione.
Casa dello Spettatore – associazione culturale che prosegue da anni la ricerca e la missione del CTE (il Centro Teatro Educazione, attivo dal 1997 al 2010 come struttura dell’Ente Teatrale Italiano) – si inserisce in questo contesto apportando il suo contributo tra i vuoti istituzionali ed educativi, ma anche favorendo la nascita di comunità spontanee attorno all’esperienza del teatro, grazie a un gruppo di mediatori che si occupano di portare avanti i cosiddetti “percorsi di visione” con iniziative su tutto il territorio.
Ma perché proprio il teatro e in cosa consiste praticamente la loro attività? A questo e ad altri quesiti ha risposto Giuseppe Antelmo, mediatore teatrale che si è formato e opera con Casa dello Spettatore.
Parliamo del vostro metodo, la “didattica della visione”: quali sono gli elementi fondanti e le finalità verso cui si orienta? Come vi si inserisce il teatro?
Se si considera il teatro come il primo audiovisivo della storia, e la sua funzione, perlomeno in Occidente, di partire da vicende personali per arrivare poi a trattare questioni di interesse sociale, possiamo rintracciare nei suoi elementi gli spunti per organizzare un discorso più ampio che faccia dello spettacolo “l’epicentro di una piccola o grande unità didattica” – riprendendo le parole del presidente e fondatore di Casa dello Spettatore, Giorgio Testa – nonché l’opportunità di attuare forme di cooperazione educativa.
Lo spettatore che va a teatro, infatti, porta con sé un bagaglio di esperienze pregresse, costituite dal pre-visto e dal pre-conosciuto che, nel dato momento del qui e ora, incontrano l’arte, con esiti spesso poco prevedibili. È per questo che la ricerca dello spunto educativo è continua e non si basa su una formula standard – non esistendo, per l’appunto, una persona standard – e utilizza strumenti e tecniche presenti in ogni didattica, ma altamente flessibili. La rielaborazione dell’esperienza e lo sviluppo di una traccia che ci si era prefissati di portare avanti dopo la visione di uno spettacolo, può infatti prendere strade secondarie o, addirittura, essere abbandonata ma non per questo persa.
È il gruppo, nella sua variabilità, a determinare di volta in volta l’evoluzione del percorso, dove non esiste “giusto o sbagliato”. In quest’ottica, educare alla visione ha l’obiettivo di portare, attraverso la presa di familiarità con le forme e i linguaggi che lo caratterizzano, a una maggiore frequentazione del teatro, favorendo la progressiva consapevolezza dell’essere spettatori – e in senso più ampio, cittadini – e lo scambio di ciò che si è adesso.
I percorsi di educazione alla visione sono rivolti dunque ad allievi in età scolare, ma anche agli adulti (insegnanti e famiglie), nonché a un pubblico largamente eterogeneo che si costituisce spontaneamente in comunità di spettatori. Una varietà di interventi di cui vorremmo sapere di più, anche in riferimento ai feedback che ne conseguono.
La comunità degli spettatori è formata da adulti che hanno condiviso percorsi di visione cittadini, a partire da una selezione degli spettacoli in programmazione nei vari teatri della città, secondo nuclei tematici o di linguaggio. In questa comunità così strutturata, i partecipanti hanno trovato dunque spazio e tempo per condividere l’attesa, l’esperienza e infine la rielaborazione attorno alla visione di uno spettacolo teatrale. L’accettazione di questa proposta, con percorsi che vanno avanti dal 2012, è indicativa di un bisogno e di una partecipazione realmente sentita, che ha portato all’instaurarsi di nuclei fissi, ampliatisi nel tempo.
Altre iniziative sono quelle rivolte ai genitori: ad esempio Famiglia a teatro, progetto che ha coinvolto con interesse genitori e figli nella visione di spettacoli; un’esperienza condivisa che determina l’annullarsi dell’asimmetria nei ruoli e favorisce spunti per il dialogo, in un tempo separato da quello istituzionale e con una distanza che normalmente non c’è in ambito domestico.
Vi è poi una doppia modalità per quanto riguarda il percorso degli insegnanti: da un lato, l’accoglienza della proposta di portare la classe a teatro e la presenza agli incontri coi mediatori di Casa dello Spettatore e gli studenti; dall’altro, i corsi di formazione esterni al contesto classe, dai quali si possono poi ricavare modelli e approcci da implementare all’interno della scuola, per favorire ad esempio un tipo di apprendimento cooperativo.
In tal senso, sono stati svolti anche corsi specifici per insegnanti di sostegno, i quali potrebbero riconoscere metodologie adeguate per venire incontro ai cosiddetti “bisogni educativi speciali” dei loro allievi. E sono proprio gli insegnanti, infine, a darci una conferma che le impressioni ricavate da noi mediatori, in termini di attenzione e interesse, corrispondano alla realtà. Segnali positivi che di solito si osservano quando si crea una certa continuità negli incontri.
I giovanissimi, pur essendo del tutto immersi in un mondo di immagini, sono paradossalmente poco “allenati” alla visione. Il “cosa” guardano è realmente il problema?
Io credo che più che poco allenati alla visione, essi abbiano poche occasioni di condividere una riflessione sull’esperienza in un contesto educativo. Non sempre accade infatti che le famiglie portino i ragazzi a teatro e spesso il primo approccio avviene con la scuola; ma è sempre da tenere in considerazione il numero di occasioni e le modalità di confronto. Riferendoci alla questione del “cosa” guardano, ci si muove su un terreno scivoloso, poiché subentra il giudizio su ciò che è brutto o bello, valido o no, quando l’importante è verificare il senso dell’esperienza dalla viva voce di colui che l’ha fatta, il “come” più che il “cosa”.
Senza contare l’entrata in gioco di un elemento, ovvero il gusto personale, da cui non si può prescindere nemmeno dopo che, frequentando il teatro, esso si è gradualmente affinato. Anche il mediatore teatrale, come tutti, ha il proprio gusto, ma questo non deve costituire il criterio di scelta, dato che il punto di partenza del percorso è l’individuazione, di volta in volta, dello spunto educativo che uno spettacolo può offrire.
Inoltre, ciò che rimane centrale, al di là dell’impressione positiva o negativa dopo aver visto un’opera teatrale, è la rielaborazione personale e soprattutto collettiva che ne consegue: nessuno infatti vedrà mai la stessa identica cosa, e il teatro, in questo senso, offre una grande libertà allo sguardo che diviene persino anarchico, difficile da imbrigliare. Essendo poi un’esperienza di compresenza dal vivo, gli elementi che entrano in gioco sono diversi.
Ciò che manca adesso è proprio l’elemento di compresenza, il dialogo dal vivo tra palco e platea e tra spettatore e spettatore. Come vi siete adattati al cambiamento imposto dalla pandemia, ora e nel periodo del lockdown?
Intanto, partirei da una premessa: non si può pensare che l’esperienza dal vivo sia sostituibile con quella a distanza. È un dato di fatto e pensare il contrario cercandone dei surrogati creerebbe solo frustrazione. L’imposizione di un mezzo che si frapponga tra pubblico e il teatro, o all’interno di un patto con finalità educative, non dovrebbe essere vista come una triste alternativa a ciò che non si può al momento avere. Bisognerebbe osservare le nuove possibilità che apre, tra cui quella di entrare in contatto con un linguaggio.
Faccio qualche esempio: prima dell’arrivo della pandemia, a Bari, stavamo tenendo un corso di formazione rivolto agli insegnanti, avente per oggetto uno spettacolo di danza ispirato a La metamorfosi di Kafka, per mantenere il dialogo tra lettura e visione. Una volta sopraggiunto il lockdown, questo binomio che crea l’unità didattica, e che pareva destinato a perdersi, si è ricomposto, attraverso un riadattamento in termini di tempo, gruppo e contenuto.
Per continuare a lavorare a distanza, e in maniera gestibile, si è sentita l’esigenza di dividere gli insegnanti in tre gruppi; si è sostituito il racconto La metamorfosi con uno più breve, sempre di Kafka, e la visione si è rivolta verso corti cinematografici trovati in rete e ispirati a quell’opera. Si è così potuto mantenere un occhio teatrale pur osservando qualcosa di diverso. Questo è poi il senso in cui si è evoluta la didattica della visione.
Come è evoluto il metodo negli anni, cosa è cambiato?
Ciò che è cambiato è il rapporto con le altre arti: mentre prima il teatro era centrale (e continua assolutamente ad esserlo) e le altre forme artistiche costituivano un controcanto per arrivare a parlare di esso, da qualche anno ci siamo concentrati sul confronto tra esperienze diverse, a un livello più paritetico. Il cinema, ad esempio, si è rivelato una grande risorsa anche per il progetto Allunaggi mitici, iniziato circa due mesi fa, quando ancora si poteva andare a teatro.
A proposito del progetto Allunaggi mitici, di cosa si tratta e come è proseguito a seguito della seconda chiusura dei teatri?
Si tratta di un progetto in collaborazione con la Compagnia La luna nel letto di Ruvo di Puglia, che ha voluto formare una comunità di spettatori sul territorio. A causa dei lavori di ristrutturazione del Teatro Comunale in loro gestione, gli spettacoli, che avevano come tema la rielaborazione contemporanea dei miti, sono stati allestiti in una chiesa nel periodo di ottobre e, seguendo una modalità mista, il percorso di visione è avvenuto a distanza, con il supporto del materiale didattico in digitale, altra grandissima risorsa.
Una volta che anche lo spettacolo dal vivo è stato sospeso, quella stessa comunità ha deciso di proseguire il dialogo e, anche in questo caso, è avvenuta una transizione dal teatro al cinema: per continuare sul filone del rapporto tra mito e religione è stato scelto il film La via lattea di Luis Buñuel e, per mantenere almeno “l’ora”, non essendo possibile il “qui”, ci si è dati un appuntamento per guardarlo insieme. Si è poi creata una nuova fase intermedia tra la visione e l’incontro a distanza condividendo le prime impressioni sul film attraverso un gruppo Whatsapp.
Quest’esperienza tenace ed entusiasmante è dunque la dimostrazione che distanziamento fisico non sempre equivale a distanziamento sociale e che l’uomo, da sempre, fin dai segnali di fumo, ha sempre cercato di rimanere in contatto e di soddisfare il suo bisogno di socialità. Anzi, è proprio nella distanza che può misurarsi il livello di un certo bisogno: penso anche alla trasmissione della cultura attraverso i libri, o alle lettere d’amore tra gli innamorati che non possono vedersi.
Potremmo dire che il sentimento acquisisce ancora più valore nella distanza…
Bisogna certo capire quanto questo amore sia realmente forte. Come si dice: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Lontano dagli occhi, quanto? Lontano dal cuore, quanto? Anche per ciò che riguarda il teatro questo è un buon momento per capirlo.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.