Estate al MAXXI, Appunti per un futuro possibile: intervista a Luca Archibugi, Giovanna Melandri e Tiziano Panici
In questo scampolo d’estate, l’arte torna ad abbracciare la capitale invadendo la piazza del museo Maxxi. Iniziata a luglio, la rassegna Estate al MAXXI 2020, che si prolungherà per tutto il mese di settembre, ha proposto alla città di Roma una ricca programmazione dedicata al teatro, all’arte e alla letteratura. Incontri, che hanno trovato un importante riscontro in termini di presenza del pubblico, come racconta Giovanna Melandri, Presidente del museo MAXXI, intervistata a proposito del rafforzamento dell’offerta culturale e delle strategie di engagement.
Data la condizione attuale e la necessità di tornare a creare engagement, quali sono gli obiettivi perseguiti da Estate al MAXXI 2020?
Il mese di luglio è stato strepitoso: abbiamo riempito la piazza nonostante il distanziamento, e l’abbiamo fatto con la musica, il teatro, la letteratura, riflessioni con intellettuali, filosofi e artisti. Devo dire che la risposta c’è stata, in questa città c’è un bisogno enorme di cultura. Speriamo che anche il mese di settembre consenta a questa ricerca di andare avanti.
Rispetto al momento storico che stiamo vivendo, quali azioni ritiene necessarie per contribuire al rafforzamento dell’offerta culturale e al riavvicinamento del pubblico dopo il blocco imposto dalla pandemia?
Bisogna osare, con tutte le misure di cautela. Però, proprio perché stiamo vivendo un periodo di trasformazione, un salto antropologico della nostra convivenza civile e sociale, credo che la cultura debba essere protagonista di un mondo nuovo che dobbiamo ripensare. Occorre aprire tutti gli spazi, tutte le nicchie possibili e pretendere rispetto dal pubblico. È quello che stiamo cercando di fare al Maxxi da quando abbiamo riaperto, anche rompendo quei confini, quelle paratie tra generi, mondi che non esistono più e su cui c’è il grande campo della sperimentazione del linguaggio della creatività.
Venerdì 11 settembre, Appunti per un futuro presente a cura di Luca Archibugi e Tiziano Panici, inaugurerà la ripresa degli eventi teatrali della rassegna a seguito della pausa estiva. Un doppio appuntamento, a ingresso libero, con due opere capaci di rappresentare la città da un punto di vista strettamente contemporaneo: Il quarto dito di Clara per la regia di Luca Archibugi, con Pietro Naglieri e Veronica Zucchi, e La frontiera, performance estratta dal progetto di Margine Operativo Beautiful Borders, portata in scena da Tiziano Panici.
Si comincia alle 19:15 con La frontiera, regia di Pako Graziani, liberamente tratta dall’omonimo saggio di Alessandro Leogrande, che affronta il tema della migrazione a partire dal Martirio di San Matteo di Caravaggio. Ne abbiamo parlato con Tiziano Panici che in questo intervento approfondisce la tematica della performance e l’ideazione di Appunti per un futuro presente.
La frontiera è un’indagine sugli sconfinamenti cui dai corpo e voce in scena, prendendo le mosse dal libro di Alessandro Leongrande. Lo sguardo è rivolto a sbarchi e naufragi, all’eorismo di uomini e donne che attraversano luoghi altri, minacciati oltre che dalle insidie del viaggio, da dinamiche sociali di estromissione. Come si struttura in scena questo racconto?
Luca Archibugi mi ha coinvolto in questa avventura di Appunti per un futuro presente, che si è rivelata un punto d’incontro interessante: l’idea è venuta a Luca sotto forma di appunti ed è stata tradotta da me in una serie di azioni post-lockdown, a partire dalle quali con il Teatro Argot abbiamo avviato una campagna di comunicazione mirata a sensibilizzare e a sensibilizzarci rispetto al momento che stavamo vivendo, soprattutto da un punto di vista culturale. Anche la chiamata del MAXXI è arrivata in questo contesto: la rassegna è nata come un segnale di risposta culturale e di speranza rispetto alla città di Roma.
La richiesta di Luca è stata di individuare dei progetti che potessero rappresentare la città da un punto di vista strettamente contemporaneo. Lo spazio si è poi ridotto all’arco temporale di una serata, così sono stati inseriti nel programma Il quarto dito di Clara e La frontiera, in forma di performance, che nasce da un percorso con Margine Operativo. Questo è interessante perché il Teatro Argot Studio è ideatore e accompagnatore della serata e Margine Operativo è uno degli attori sociali della città che da anni interviene sul territorio, e che mi ha coinvolto in qualità di attore e performer in diverse produzioni. Pako Graziani e Alessandra Ferraro, ideatori delle produzioni di Margine Operativo e del Festival Attraversamenti Multipli, indagano spesso zone di confine sia artistiche sia sociali.
La frontiera si colloca all’apice di questo percorso condiviso, di cui il momento dedicato al Martirio di San Matteo di Caravaggio, rappresenta una summa assoluta, un’estrema sintesi. In quella sintesi Alessandro Leogrande, che è uno dei più grandi indagatori sociali del nostro tempo, racconta il rapporto dell’uomo con la violenza. Questo non contiene solo le migrazioni, le tratte delle frontiere in cui si sono perse le orme di centinaia di migliaia di uomini, ma riesce anche a sintetizzare la crisi della società contemporanea dell’Occidente. Attraverso la sola osservazione del Caravaggio, Leogrande indaga il rapporto tra l’uomo e l’atto della violenza. Nello specifico, si tratta del Martirio di San Matteo che si trova nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, la prima struttura culturale chiusa per Covid-19 durante il lockdown.
Le frontiere da abbattere, con l’avvento di internet, e ancor più a seguito del distanziamento imposto dalla pandemia non sono più soltanto territoriali. Qual è oggi la frontiera più difficile da superare?
La frontiera più pericolosa è quella interiore, quella che ci pone in contatto con noi stessi e che ci permette, in questo modo, di stare più attenti e più in ascolto degli altri. Il teatro da questo punto di vista da un insegnamento grandissimo, già stato postulato da molti politici e anarchici: c’è una frase di Kropotkin che mi è rimasta molto impressa e che dice che se ognuno di noi imparasse a mettersi nei panni dell’altro, avremmo bisogno di molte meno regole per gestire il nostro sconfinamento verso gli altri. In questo secolo, il compito che il teatro deve portare a termine, rispetto al tema delle frontiere, è proprio quello di insegnare, a ogni uomo e a ogni bambino, ad attraversare il confine di sé stesso e conoscersi meglio, rispettando gli altri.
Nella scrittura di Archibugi si ritrova un ulteriore confine, quello temporale, che si mescola fino a perdere i suoi tratti. Il passaggio temporale viene sempre percepito come una conseguenza di passato, presente e futuro, mentre ne Il quarto dito di Clara, Luca trasporta la figura romantica e mitica di Schumann fino al Terzo Millennio. L’assottigliamento dei confini temporali è la grande sfida del futuro, qualcosa su cui la contemporaneità deve riflettere.
Alle ore 21:00, il debutto de Il quarto dito di Clara chiuderà la serata di Appunti per un futuro presente. Luca Archibugi racconta l’interessante lavoro di trasposizione psicologica che ha condotto sui personaggi della propria opera a partire da una ricerca filologica sulla vita e sull’arte di Robert e Clara Schumann.
L’opera di Schumann ha la capacità di mettere insieme parola, suono e immagine. Una caratteristica, questa, che anticipa i tempi, proiettando le sue composizioni nel Terzo Millennio. In questo senso, in che modo l’opera di Schumann ha guidato l’ideazione dell’Ultimo dito di Clara?
Il Romanticismo è stato un’epoca di straordinaria innovazione. L’approccio dei romantici era fortemente dedicato ai sentimenti, ma in una maniera molto ironica. Quanto avvenuto nel tardo Romanticismo ha molto cambiato questo tipo di approccio. Molti autori dell’epoca erano maestri di ironia come Henrich Heine e Jean Paul. Anche in Schumann, pur essendo un autore straordinariamente intenso e romantico, nel senso più tradizionale in cui lo intendiamo, l’ironia molto spesso si affaccia. Questa complessità della sua poetica lo trasporta, a mio avviso, all’inizio del Terzo Millennio: per me è un artista contemporaneo e il suo occhio ha guardato oltre il Secolo delle Avanguardie.
Alcuni considerano Schumann un genio assoluto che, nel corso dell’esistenza, è diventato pazzo. A mio avviso la questione va completamente rovesciata: Schumann aveva dei serissimi problemi nervosi, già in gioventù, e il precipitare nella follia ha portato a questa grande capacità innovativa. I problemi nervosi non sono stati un limite. Quello che noi sappiamo di Schumann è un’immagine edulcorata dalla convenzione tradizionale, nello spettacolo questo non c’è.
Perché ha scelto di raccontare la storia di Robert Schumann?
Per testimoniare di un artista che ci riguarda da vicino, invece di fissarlo in una teca. Farlo vivere non solo nella storia della musica e della cultura, ma insieme a noi. Nello spettacolo racconto di una paziente psicotica e schizofrenica che si crede sia Clara sia Robert Schumann. Tutto quello che viene raccontato di Schumann e di Clara nello spettacolo è attraverso il filtro di questa donna che si è addossata l’identità di entrambi. La paziente è in cura presso uno psichiatra che lei crede essere il Professor Richarz che aveva in cura Schumann nel manicomio di Endenich dove fu rinchiuso, nel 1854, dopo essersi gettato nel Reno. Lì fu ostacolato nel comporre, gli fu proibito ogni contatto con l’esterno, perdendo sé stesso. Clara pur amandolo fino all’ultimo giorno, si alleò in questa strategia di isolamento.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.