Nel 1914 Jacques Copeau debutta con La Nuit des rois di William Shakespeare con un allestimento destinato a fare la storia. In anni di guerra infatti, Copeau decide di invertire la rotta comune e mettere in scena una commedia shakespeariana, in netto contrasto con la tendenza del tempo di inscenare soprattutto i drammi borghesi e le commedie naturaliste, cercando una nuova via per dialogare con il pubblico e proponendo una visione della scena libera, epurata dai manierismi, in cui l’Illiria di Shakespeare rappresenta ideologicamente un nuovo inizio.
Sarà, l’esperienza della Dodicesima Notte la prova generale del nuovo progetto artistico di Copeau, una riflessione sull’espressione artistica a cui la messa in scena non basta trasformando il suo lavoro in ricerca costante, di lì a poco verrà infatti fondata la scuola dei Copiaus, il cui ideale possiamo riassumere con le parole dello stesso Copeau: «Un movimento generale che a poco a poco si pensa, dà il suo senso ad ogni scena a ogni replica».
Il 9 Maggio di quest’anno si è conclusa l’ultima replica de La Metamorfosi al Teatro Argentina, per la regia di Giorgio Barberio Corsetti, spettacolo con cui sono state finalmente riaperte le porte del Teatro di Roma. Quest’ultimo allestimento condivide con il lavoro di Copeau la gravosa collocazione temporale, diventando inesorabilmente un momento spartiacque all’interno della riflessione sulle evoluzioni della scena.
Cosa ci dice, dunque, la scelta de La Metamorfosi sull’attuale stato del teatro e della sua percezione di sé?
Partiamo dal titolo, anche chi non è pratico del testo Kafkiano, non può fare a meno di percepire la portata del soggetto dello spettacolo: stiamo assistendo ad una metamorfosi totale, che essa sia permanente o no poco importa, l’importante è che il fruitore come il creatore contemporaneo ne prendano coscienza.
La scelta di Corsetti tuttavia, risulta diametralmente opposta rispetto a quella di Copeau: se la parabola del regista novecentesco era quella ascendente della spensieratezza, quella di Corsetti è una presa di coscienza: la situazione di Gregor Samsa viene infatti accentuata da scelte scenografiche inesorabilmente parlanti: una divisione netta fra un mondo che prosegue, che continua a scorrere, e la stanza a tutti gli effetti da quarantenato di Gregor Samsa, segnata a caratteri cubitali dalla scritta Immondo.
È difficile cercare di comprendere, sia riflettendoci da un punto di vista di evoluzione ideologica del teatro, ma anche più profondamente a livello personale, quale sia la via che meglio dia voce ad un teatro a cui tocca la sorte di vivere un mondo alla fine del mondo.
Tentare una risposta sarebbe un salto troppo ambizioso e lungimirante, ma è sicuramente utile notare la metamorfosi inevitabile che il rientro nelle sale teatrali dopo tutto questo tempo comporta: se nel Novecento, dopo il 1914, la sensazione a cui puntava Copeau era quella della liberazione, la scelta di Corsetti è quella di uno specchio deformante, a cui probabilmente, il pubblico in via di guarigione non è ancora pronto.
La sensazione di schiacciante degradazione di cui il personaggio di Gregor Samsa è metafora spaventa la platea, ma al tempo stesso la libera. Per la prima volta dopo tanto tempo il teatro torna a svolgere una delle sue funzioni più nobili: scuotere le persone sedute in poltrona, spingendole ad uscire dalla sala, più consapevoli della necessità onnipresente di metamorfosi.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.
Cosa può un corpo?è il titolo di un libro del filosofo Gilles Deleuze che raccoglie un insieme di lezioni dedicate a Spinoza. È una domanda che sta ad indicare le possibilità impensate che si manifestano, senza preavviso, nelle pratiche. Lì dove si credeva che ci fosse un limite, l’accadere lo smentisce. Se, come ci ha raccontato Francesca Corona, «il teatro è l’arte politica per eccellenza perché al centro vi sono i corpi», ecco che appare motivato modificare l’interrogazione in «Cosa può un teatro?», come viene ripetuto più volte nell’intervista.
Con la fiducia che lo spazio teatrale possa farsi promotore di qualcosa che non è mai sondato fino in fondo — perché ogni volta diverso nell’unicità dell’incontro — cosa accade quando le porte sono chiuse al pubblico? Può essere reimmaginato un senso, seppur temporaneo e precario, oppure il teatro è destinato a un triste silenzio?
In quelle pagine del filosofo francese si trovava anche una definizione di artista, come colui che «muta i limiti in opportunità». Ed è questo in effetti lo spirito che ha mosso le attività del Teatro India, con Corona alla direzione, durante la pandemia. Attività che vengono approfondite in questa conversazione prendendo le mosse dall’ultima avviata, il ciclo di formazione retribuita Fondamenta, composto da sette corsi condotti da Giorgio Barberio Corsetti, Anna De Manincor (Zimmerfrei), Lucia Calamaro, Tanya Beyeler (El Conde de Torrefiel), Romeo Castellucci, Lisa Ferlazzo Natoli, Michele Di Stefano.
Un esperimento che guarda ai tempi eccezionali in cui ci troviamo, in un interstizio tra macro e micro politica. Perché lo sguardo di curatrice di Corona — a partire dal festival Short Theatre, che quest’anno accompagnerà nella transizione verso la nuova direzione artistica di Piersandra Di Matteo — si muove tra l’istituzione e l’underground mettendo al centro un fare comunitario, un brulicare di intensità.
Qual è lo spirito dietro l’esperimento di Fondamenta?
Fondamenta si inserisce in un’articolazione complessa di attività che da un anno a questa parte abbiamo messo in piedi al Teatro di Roma su quello che può un teatro in questo momento, ovvero quando viene sottratta una delle sue funzioni principali, accogliere il pubblico nei propri spazi. La riflessione mia e di Giorgio Barberio Corsetti è più in generale su ciò che può un’istituzione pubblica, pensando all’istituzione del futuro per renderla porosa, reattiva a ciò che c’è intorno, all’arte della città e al contesto specifico.
Un anno dopo il nostro arrivo si è innestata la pandemia, abbiamo attraversato tante possibilità come quella di fondare una radio, che nella situazione del lockdown dello scorso anno ha messo un acceleratore fortissimo sulla possibilità della ricerca. Abbiamo fatto dei passi anche per aiutare altri spazi, più fragili e indipendenti, che con le condizioni attuali non avevano gli strumenti per restare attivi. Ci siamo fatti piattaforma per altre realtà, mettendo a sistema quello che India faceva anche prima, ovvero ospitare compagnie in residenza anche che non fossero direttamente prodotte o co-prodotte dal teatro.
Fondamentaarriva dopo tutto questo, per mettere un altro tassello a questa riflessione fattiva. È una proposta relativa alla formazione, all’impiego e alla ridistribuzione delle risorse, per arrivare a un’idea di formazione continua. Se le residenze dialogavano con realtà già strutturate, Fondamenta entra in dialogo con gli interpreti. Ci sembrava il perfetto allenamento di corpi e menti per la sperata riapertura.
Pensi che Fondamenta potrebbe diventare qualcosa di più strutturato, da riproporre ciclicamente in diversi periodi dell’anno?
Probabilmente in una stagione normale non si sarebbero aperte le possibilità per proporre Fondamenta, è un progetto impegnativo da un punto di vista organizzativo, di occupazione degli spazi e di bilancio finanziario. Potrebbe essere una di quelle poche occasioni regalate dalla pandemia, che potrebbe trasformarsi in una buona pratica. Abbiamo imparato tante cose in questo periodo, sappiamo ora che il teatro può fare molto altro oltre a proporre spettacoli e speriamo di non perdere questa elasticità.
Il gruppo Presidi Culturali Permanenti è al lavoro sulla questione della formazione retribuita, sono in interlocuzione con le regioni e spero quindi che questo sia un caso-studio che possa rendere più solida la loro proposta. Si tratterebbe di riconoscere la formazione e la ricerca come veri momenti di lavoro, perché non necessariamente bisogna retribuire solo un prodotto finito come uno spettacolo.
Sono arrivate mille candidature per Fondamenta, evidenziano il momento difficile in cui ci troviamo.
Sì e queste mille candidature provengono solo dalla regione Lazio, perché risiedere qui era l’unico requisito richiesto. Volevamo illuminare un potenziale localizzato, quali sono le vite, le esperienze e i desideri di chi è intorno a noi. La selezione è stata un’avventura magnifica, non me lo aspettavo. Leggere queste mille lettere motivazionali è stato straordinario, ad un anno esatto dalla chiusura dei teatri. Erano lettere sulle quali pesava tutta la situazione, è stato una specie di carotaggio su come stiamo. Ne esce una condizione disastrata, dal punto di vista strutturale.
La pandemia si è riversata su una categoria che già prima era profondamente affaticata, più o meno consapevolmente. C’è isolamento e una grande mancanza di relazione, oltre che di lavoro, dunque vari livelli di problematicità. Ma ho trovato anche una grande consapevolezza, precisione, capacità di presa di parola. I percorsi di formazione si stanno svolgendo ed è bellissimo vedere il teatro attraversato da queste persone. C’è una grande fibrillazione e motivazione, anche per noi.
La pandemia non ha interrotto i percorsi di creatività al Teatro India e in alcuni casi ne ha fatti nascere di nuovi. Sei soddisfatta di quello che sta accadendo da quando sei arrivata?
Sono molto felice di quello che è successo in questi due anni. Il lockdown lo scorso anno è arrivato nel momento in cui tutto stava prendendo forma. Abbiamo iniziato il percorso a settembre 2019 con quella che ormai mi sembra una storica e mitica festa per i vent’anni di India. Il teatro è stato aperto per venti ore consecutive ed è stato attraversato da più di quattromila persone. C’erano attività in tutte le sale, musica, proiezioni, spettacoli, quella celebrazione è stata una promessa che si riconnetteva alla fondazione di India da parte di Mario Martone, riaccendeva un legame con quello spirito. Pian piano il nostro progetto è emerso, con gli artisti residenti e la scuola serale, che abbiamo inaugurato il 17 febbraio. Una scuola gratuita aperta alla cittadinanza con i corsi di danza, ascolto e canto.
Tutto stava sbocciando quando è arrivata la pandemia e ha interrotto questo programma poliritmico, che vedeva le attività per la cittadinanza dialogare con una stagione teatrale strutturata, con le proposte più estemporanee delle compagnie residenti e con quanto si svolgeva all’Argentina. Era un’idea estremamente concreta di coabitazione, con l’imprevedibilità data dalla presenza dei corpi. Ridisegnare questa complessità è impossibile, quindi c’è stata sicuramente l’interruzione di un flusso. Ma piano piano ha preso vita un registro diverso che prevede l’alternanza e la somma di un’attività dopo l’altra.
Sono soddisfatta di quello che abbiamo creato, in un rapporto sempre più stretto con la direzione di Giorgio Barberio Corsetti e le attività degli altri teatri. Inoltre abbiamo passato una magnifica estate a India, dove è successo di tutto: il recupero degli spettacoli, i concerti, l’arena cinematografica all’aperto. Per poi programmare una stagione che si è interrotta nuovamente e spalancare allora le porte alle compagnie per le residenze. Sono sicura che quando riapriremo sarà ancora più polifonico, perché si aggiungeranno tutte le cose che sono successe e che prima non avevamo immaginato.
Quest’anno passerai il testimone della direzione artistica di Short Theatre a Piersandra Di Matteo, in un’edizione collaborativa. Da cosa è maturata questa decisione?
Già da tempo io e Fabrizio Arcuri stavamo maturando l’idea della conclusione di un ciclo. Abbiamo riflettuto molto su come dovesse avvenire questo avvicendamento ma poi il nome di Piersandra Di Matteo emergeva continuamente. Porterà uno sguardo alleato ma, allo stesso tempo, un vero cambio di direzione. Il 2021 è un anno di passaggio per tutto il sistema teatrale italiano, il Ministero inizierà eccezionalmente il triennio nel 2022 e la progettazione ne è necessariamente influenzata. È un anno trasformativo in cui ci si continua ad allenare prima di risbocciare completamente, spero, durante il prossimo.
Condurremo quindi questa trasformazione insieme, all’inizio non me lo ero immaginato ma è molto prezioso, corrisponde all’etica che vogliamo affermare da quindici anni con questo festival: non si tratta di voltare le spalle al passato ma di lasciarlo guardando negli occhi chi sta arrivando, prendersi cura di questo passaggio nel totale rispetto dello spazio della nuova direttrice artistica.
Hai lavorato molto in Francia ed è un contesto che conosci bene. Ti colpisce qualcosa del movimento di occupazione dei teatri?
In qualche modo me lo aspettavo, lo sentivo arrivare dai discorsi della comunità artistica francese e anche di chi dirige i teatri. Sono occupazioni in complicità con i direttori e le direttrici, per fare delle richieste al ministero e al governo. È molto interessante il fatto di cercare di essere un laboratorio intersezionale in cui il teatro è la piazza. Ci sono delle rivendicazioni di settore ma queste coabitano con riflessioni sul sistema intero, dando visibilità anche alle lotte di altre categorie.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
La scienza e il teatro: siamo abituati a considerare queste due discipline come regioni del sapere ben distinte. Diverse le posture, i linguaggi, gli scopi. Ma forse queste distanze potrebbero ridursi se riuscissimo a tenere aperte delle porte, a riconoscere le radici comuni. Allora le leggi della scienza potrebbero essere uno strumento per ampliare la visione su quei dilemmi che anche il teatro ha da sempre indagato.
Avvicinare i due mondi è lo scopo della serie di radiodrammi Scienza e fantascienza, un progetto di Giorgio Barberio Corsetti prodotto dal Teatro di Roma. Ogni giovedì fino al 6 maggio verranno pubblicati sul canale Spreaker dello stabile i podcast delle puntate dirette da Paola Rota, Manuela Cherubini, Lacasadargilla, Roberto Rustioni, Giacomo Bisordi, Francesco Villano, Duilio Paciello. I testi scelti per essere interpretati sono molto diversi tra loro, spaziando da opere di fantascienza a lavori di drammaturghi contemporanei. Una particolarità risiede nel fatto che ogni appuntamento termina con un intervento di uno scienziato o scienziata che mette a fuoco uno dei temi trattati nella puntata.
Un connubio quindi tra la divulgazione e la prova artistica, per la quale la regista Manuela Cherubini non poteva essere persona più indicata. Interessata da sempre al rapporto tra arte e scienza, tra le opere che ha tradotto e messo in scena con la sua compagnia Psicopompo Teatro ci sono quelle di Rafael Spregelburd, fautore di un approccio antiriduzionista, interessato ad introdurre nella drammaturgia modelli provenienti dalla teoria del caos e dalla matematica frattale.
I radiodrammi che Cherubini ha diretto per la rassegna si basano su tre testi di Elisa Casseri, ingegnere e scrittrice, riuniti sotto il nome di Trittico delle stanze. Tre episodi in cui i legami familiari vengono narrati e interpretati alla luce di altrettante teorie scientifiche — come Casseri aveva fatto anche nel suo ultimo romanzo, La botanica delle bugie, pubblicato per Fandangolibri.
Il primo dei tre testi, intitolato La teoria dei giochi, sarà interpretato da Luisa Merloni e Aurora Peres (con il podcast scientifico del Prof. Porretta), seguirà L’orizzonte degli eventi che ha vinto il Premio Riccione per il Teatro e sarà interpretato da Ferruccio Ferrante, Aglaia Mora, Alessandro Riceci e Giulia Weber (con il podcast del Prof. Balbi), infineIl polo dell’inaccessibilitàvedrà dietro al microfono Alessandra Di Lernia, Sylvia Milton, Laura Riccioli, Simonetta Solder e Gabriele Zecchiaroli (con il podcast della Dott.ssa Negri).
Abbiamo intervistato Manuela Cherubini per chiederle qualcosa in più su questa esperienza, di cui abbiamo scoperto anche un risvolto politico ed esistenziale: la regista era tra gli occupanti del Teatro Valle, luogo nel quale i podcast sono stati registrati.
È da tanto tempo che la scienza entra nella tua ricerca artistica. Quali sono gli stimoli maggiori che hai trovato nel pensiero scientifico per la pratica teatrale?
Gli stimoli artistici e scientifici nella mia vita sono arrivati insieme, vengo da una famiglia di musicisti e scienziati. La divisione tra questi due approcci cognitivi alla realtà, io non l’ho mai vissuta come tale. Sicuramente entrambi i linguaggi si sono autoalimentati nel corso della mia formazione e del mio sviluppo artistico.
La scienza può essere per il teatro una fonte di idee e di spunti che confluiscono in una drammaturgia, come nel caso dei radiodrammi, ma può anche costituire uno sfondo teorico che ha a che fare con il come si sta in scena.
Sì, in questa direzione vanno gli esercizi «sistemici» creati da José Sanchis Sinisterra, uno dei maestri più importanti che ho avuto che parte dallo strutturalismo per arrivare alla teoria della complessità. Io li uso come allenamento attoriale per esplorare le possibilità espressive sia del corpo che della voce, attraverso uno schema di ripetizione di unità minime di azione che si sviluppano con delle modulazioni o delle trasgressioni rispetto al sistema di partenza.
Inoltre il gioco teatrale può essere visto come un dispositivo che si avvicina alla realtà, la annusa, la osserva, cerca di tradurla in un linguaggio scenico che sia visivo, uditivo e di respiro. Un vero e proprio sistema dove fluiscono moltissime energie legate alla nostra sensorialità e all’elaborazione che ne facciamo poi a livello intellettuale. Tutto questo è leggibile attraverso un dispositivo di tipo scientifico.
Con Elisa Casseri avevi già ideato la rassegna Co(n)scienza, trasmessa sui canali dell’Angelo Mai e appena ricominciata con un nuovo ciclo. Cosa si genera nell’incontro tra pensatori, scienziati da un lato e teatranti, artisti dall’altro?
È grazie al Centro Ricerche Musicali di Roma, guidato da Michelangelo Lupone e Laura Bianchini, che dal 2000 se non prima sono stata coinvolta nei convegni di Arte e Scienza e in quelli di Musica e Scienza. Da lì è partita l’ideazione di questa rassegna con Elisa Casseri e Giorgina Pi, in cui abbiamo proseguito a mettere l’uno di fronte all’altro artisti e scienziati per mostrare che questi mondi non sono così separati.
Per fare un esempio, quando nel primo ciclo di incontri ho dialogato con Alessio Porretta che insegna Matematica all’Università di Tor Vergata, Elisa Casseri sottolineava quanto io usassi un linguaggio matematico e quanto Porretta uno artistico. Lo scopo di questi dialoghi è quello di avvicinare i due mondi e di fornire ad entrambi un pezzetto in più di visione. L’immaginazione è alla base di entrambe le discipline, quindi più viene nutrita questa strana natura che possediamo, più abbiamo possibilità di fare delle cose belle.
È molto interessante il riferimento all’immaginazione nei riguardi della scienza, di cui forse si ha un’idea un po’ imbalsamata a volte.
Senza l’immaginazione la scienza non va da nessuna parte, anzi forse è l’ambito dove è più sfrenata! In un prossimo incontro dialogherò con Paolo Tozzi, uno scienziato dell’osservatorio di Arcetri, che osserva le galassie a centinaia di migliaia di anni luce da noi. Bisogna avere parecchia immaginazione anche solo per concepire il desiderio raggiungere mete apparentemente così irraggiungibili. Così come il concetto di infinito, tu riesci ad immaginarlo? È una sfida immaginativa e l’immaginazione è un muscolo, lo dico sempre così agli attori, bisogna allenarlo in tutte le direzioni possibili.
Parliamo ora di Trittico delle stanze. Come è stato misurarti con un radiodramma?
Avevo già ideato e recitato in alcuni radiodrammi ma è la prima volta che mi sono confrontata con testi di impianto drammaturgico più classico come questi di Elisa Casseri, fatto salvo per il dispositivo che li guida che è di tipo scientifico. L’autrice penso sia una delle voci più originali e interessanti del panorama letterario italiano, ha la capacità di lavorare a tutto tondo sulla scrittura con questo sguardo di taglio scientifico ma sulle vicende più fortemente emotive.
Amo moltissimo la radio e la voce, penso che il teatro da ascoltare sia la modalità meno tarpante rispetto all’assenza del teatro in presenza, riesce a restituire di più rispetto ad altri media come il lo streaming in video. L’ascolto riesce a creare quella condizione di intimità e apertura della percezione che necessita il teatro. Ci ho lavorato creando degli ibridi, degli oggetti a cavallo tra il radiodramma e il radiofilm, insieme all’ingegnere del suono Graziano Lella abbiamo dato vita a dei paesaggi sonori emotivi che conducessero chi ascolta attraverso le azioni contenute nelle opere.
Nel Trittico alcune teorie scientifiche si mostrano nella vita quotidiana, prendendo forma nei legami familiari. Le consideri suggestioni immaginative oppure credi che in qualche modo ci sia un legame tra queste leggi universali e le nostre esistenze individuali?
Io penso che un legame ci sia, innanzitutto perché queste leggi universali le abbiamo scritte noi, che siamo esseri umani con carne ossa emozioni sentimenti e con un linguaggio, lo strumento attraverso il quale costruiamo teorie. Quante volte ci è difficile comunicare i nostri sentimenti attraverso la parola? La stessa difficoltà incontra la scienza a comunicare alcuni concetti con un determinato linguaggio. È lo stesso tipo di spinta, se io analizzo il rapporto tra me e mio fratello, ad esempio attraverso lo strumento della psicoanalisi o della letteratura, non vedo perché ciò non possa accadere anche attraverso il linguaggio e la visione di fenomeni scientifici che ci riguardano.
Nel primo dei tre testi il cardine è la teoria dei giochi matematici, che nasce dal rapporto tra giocatori o gioc-attori, ovvero persone che agiscono. Come quando incontriamo una persona e proviamo ad immaginare tutte le probabilità, le sue possibili mosse…possiamo osservare questi comportamenti da un punto di vista analitico o scientifico.
Questi podcast sono stati registrati al Teatro Valle, un luogo che ha una storia particolare per la scena teatrale romana.
Ho partecipato all’occupazione del Valle, ero nel gruppo che è entrato per la prima volta il 14 giugno 2011, quindi per me quel luogo ha un significato importante. Tornarci a lavorare è stata un’esperienza fortissima. L’ultima volta che ci ero entrata era il 2014, nel momento in cui si è chiusa l’occupazione. Quando negli anni successivi ci sono stati piccoli eventi nel foyer organizzati dal Teatro di Roma, avevo difficoltà ad andarci. Abbiamo restituito il teatro al governo della città chiedendo che lo spazio rimanesse pubblico e che non fosse riconvertito ad altro scopo, queste condizioni erano state accettate ma da allora è successo ben poco, il teatro non è stato riaperto alla cittadinanza in quanto tale. Da un lato è stato molto bello rientrare lì per fare teatro, anche se senza spettatori, dall’altro la ferita di questo luogo ancora non restituito si è fatta sentire.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Giorgio Barberio Corsetti incontra William Shakespeare nella tragedia del potere, tra vanità, adulazioni, perfidie, crudeltà, portando sulla scena temi di grande attualità in una combinazione inedita di linguaggi e visioni, con protagonista Ennio Fantastichini. Dal 21 novembre al 10 dicembre al Teatro Argentina, in prima nazionale, debutta RE LEAR, un racconto epico dove i padri fraintendono i figli e i figli tradiscono i padri, nuova produzione del Teatro di Roma in sinergia con il Biondo di Palermo.
Così l’innovatore del teatro contemporaneo si immerge nella scrittura del bardo per costruire, con un linguaggio attualissimo che coinvolge il pubblico, un ponte tra presente e futuro in un’inedita, appassionata, visione per la scena. Seguendo il suo percorso di sperimentazione, che contempla l’impiego di nuove tecnologie e la drammaturgia itinerante, Corsetti compone una sinfonia infernale che ha principio nella prova d’amore corposa, pretesa da un Re alle sue tre figlie e culmina, in un crescendo di caos, nella distruzione di un regno in cui i pochi superstiti sono chiamati a confrontarsi con la possibilità di ricostruire un futuro possibile.
Il tempo di questo Lear è adesso. Un tempo dove un Re si spoglia del potere nel tentativo disperato di vivere senza responsabilità. Un tradimento della fondamentale dimensione politica alla conquista di una estasi individuale, mentre il mondo privato e pubblico intorno a sé implode: «Lear avviene adesso, nei nostri giorni, in un mondo fluttuante, dove l’economia e la finanza ci spingono da una crisi all’altra, portandoci con loro. È la storia del potere della successione, di padri e figlie, figli e padri. Lear vuole ritrovare la giovinezza perduta, abbandonare le cure del regno, il peso delle responsabilità, poter vagare con i suoi cavalieri da un palazzo all’altro, fare bagordi e occuparsi solo del proprio piacere; per combattere la solitudine e l’approssimarsi della fine si porta dietro un seguito colorato e chiassoso, di dubbia moralità. Questo seguito è rappresentato dal pubblico che fin dall’inizio viene chiamato in causa – racconta Giorgio Barberio Corsetti–Lear vuole essere amato, perché pensa che il sentimento delle figlie sia una garanzia, un investimento che gli permetterà di vivere spensierato una seconda giovinezza. Vuole essere amato perché sta dando via il potere … in realtà si sta alleggerendo per volar via liberi e il potere si diffonderà come una malattia contagiando tutti. È una favola ed è una tragedia di padri e figli. Lear e le sue figlie, Gloucester ed i suoi figli. I padri fraintendono i figli, i figli tradiscono i padri. Oppure li salvano fino ad arrivare alla follia di Lear e alla cecità di Gloucester, il buio degli occhi e il buio della mente. E troviamo il re pazzo con Tom, Edgar, finto pazzo, e il matto, pazzo di professione. Lear con il figlio del cieco, che si è fatto accecare per Lear. Una proprietà transitiva della tragedia che scivola tra padri e figli. Le situazioni, i luoghi sono simbolici, come arcani maggiori dei Tarocchi, la torre, la tempesta, la capanna. La superficie del racconto è tagliata a colpi netti, come una tela di Fontana».
Composta tra la primavera del 1605 e l’autunno del 1606, Re Lear è un’opera intrisa da una cieca volontà di potere, in cui Shakespeare confida nella speranza che le nuove generazioni possano riscattare il mondo di corruzione e morte che hanno ereditato dai padri. “Una tragedia di padri e figli”, dove si scontrano paternità ed eredità, trasmissione e usurpazione, il passaggio del potere nei suoi più atroci termini essenziali: «Lear ha un carattere violento, rabbioso, che si sfracella contro le porte chiuse dalle figlie. Cordelia è come il padre, non vuol dire fandonie, odia le smancerie, non capisce l’adulazione, diretta e ombrosa. I personaggi si stagliano contro un cielo fosco con tutti i loro difetti e le loro qualità, caratteri che possono solo essere tirati allo spasimo, alle estreme conseguenze. La fedeltà, la lealtà, oppure il tradimento, la doppiezza, sono scolpite nelle figure come la trama stessa della materia in cui sono forgiate. Ancora una volta è una scrittura materica».
Nel corso dello spettacolo il paesaggio si deforma, dalla favola si passa all’incubo, un viaggio verso le tenebre: «chi non ha saputo vedere diventa cieco, chi non ha capito perde la mente, chi ha tradito sprofonda nel tradimento, chi è puro viene trucidato». Così Barberio Corsetti immagina il suo spettacolo diviso in tre parti come il regno di Lear: il dramma delle due famiglie, Lear e Gloucester, fatto di interni in cui il pubblico avrà un ruolo attivo; la tempesta, la fuga, la follia, la natura che si confonde con la mente, tempeste e abissi sono momenti e luoghi fisici e interiori, reali e allucinati, qui la scena perde i contorni della realtà; la guerra che arriva come una battaglia di soldatini, in cui un re dovrebbe essere salvato dalla figlia che ha cacciato, ma perde lasciando al potere la necessità di ricostituirsi intorno ad un nuovo personaggio, «una guerra persa, una disfatta della ragione e del diritto, fino alla morte del Re e della figlia, e la necessità del potere di trovare un nuovo personaggio intorno a cui raggrumarsi».
Lo spettacolo si inserisce nel percorso di Stagione Shakespeare nostro contemporaneo, un viaggio in 5 dei suoi capolavori restituiti con sensibilità dell’oggi: dal già citato Re Lear al Riccardo II di Peter Stein, con Maddalena Crippa nei panni maschili del re d’Inghilterra (12 dicembre, al Teatro Nazionale); dal Macbettu in sardo, ma alla maniera della tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini, per la regia di Alessandro Serra, proposta audace che traspone l’opera nel cuore di un’immaginaria Barbagia (4 maggio, Argentina); a Reparto Amleto di Lorenzo Collalti, dove ritroviamo il Principe di Danimarca ricoverato in un ospedale in preda ad un attacco isterico (9 gennaio, India).
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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