La belva giudea, uno spettacolo al meglio dei cinque round

La belva giudea, uno spettacolo al meglio dei cinque round

Sport, storia e spettacolo dal vivo si incontrano a Roma per dare vita a un evento unico sulla nobile arte della boxe. Il 26 gennaio alle ore 20:30  presso la palestra-polisportiva Asd Casal Bruciato 2.0 verrà portato all’attenzione del grande pubblico lo spettacolo La Belva Giudea di Gianpiero Pumo, regia di Gabriele Colferai, con Gianpiero Pumo e Filippo Panigazzi. Per questa eccezionale rappresentazione che unisce la pratica artistica a quella pugilistica, il ring della palestra diventerà un palcoscenico teatrale dove gli artisti/boxeur in cinque capitoli, cinque round racconteranno la storia vera della “Belva Giudea”. Uno spettacolo patrocinato dalla Comunità Ebraica di Roma, dal CONI e dalla Federazione Pugilistica Italiana, nonché vincitore del premio Miglior Regia al festival Shortlab 2018 e meritevole di menzione dal Teatro di Roma nella Giornata della Memoria 2019. Le repliche continueranno dal 28 gennaio al 2 febbraio presso l’Off/Off Theatre nel centro di Roma.

“Belva Giudea” è il nome che fu dato a Hertzko Haft durante la sua carriera da pugile nei campi di concentramento tedeschi. Internato alla sola età di quattordici anni, Hertzko non si è mai arreso al suo destino e ha combattuto il nazismo guidato dall’amore per Leah. Dotato di una buona stazza muscolare e una notevole resistenza fisica, venne scelto da un ufficiale delle SS come “volontario” per incontri di boxe fra prigionieri. Hertzko vinse 75 incontri. Una volta libero, sbarcò in America sotto il nome di Harry Haft per ritrovare Leah. Doveva far apparire il suo nome su tutti i giornali per farle sapere che anche lui era fuggito negli States. E c’era un solo modo per farlo: sconfiggere il campione del mondo dei pesi massimi, Rocky Marciano. 

Questo progetto vuole raccontare una pagina di Storia tristemente nota con un punto di vista inedito: la boxe. La storia privata di Harry rappresenta problematiche più che mai attuali: leggi basate sulla razza, l’accoglienza di chi fugge dalla guerra, la spettacolarizzazione della violenza. L’impostazione cinematografica dello spettacolo permette allo spettatore di percepire l’attualità di questa storia e la sua contemporaneità nelle tematiche affrontate. La boxe, protagonista di questa storia, in America gli restituisce la dignità che in Europa gli aveva tolto. Nonostante la violenza in esso connaturata, questo sport non fa distinzione di razza, credo religioso o paese di provenienza. Su un ring tutti sudiamo allo stesso modo. Tutti sanguiniamo allo stesso modo. 

Uno spettacolo che osa unire cinema e teatro. Per far sì che una pagina così difficile della nostra Storia non ci sembri poi così lontana da non riuscire a ripetersi. La performance teatrale si fonde con il mezzo cinematografico, assecondando il ritmo della scrittura. Le riprese live permettono di scoprire dettagli e fragilità del protagonista, un pugile in carne ed ossa che lotta, suda e si racconta. Un’operazione toccante in grado di riunire all’unisono il pubblico diviso tra cinema, serie TV e spettacoli teatrali.

Gianpiero Pumo e Gabriele Colferai raccontano La Belva Giudea

Gianpiero Pumo e Gabriele Colferai raccontano La Belva Giudea

C’è entusiasmo e determinazione nella voce di Gianpiero Pumo e Gabriele Colferai, nei loro sguardi e nel linguaggio dei loro corpi. Questo è un dato oggettivo che è necessario e doveroso aggiungere al racconto e all’intervista realizzata in occasione della recente tournée romana de La belva giudea, iniziata l’11 e conclusa il 14 ottobre, presso il teatro Cometa Off.

È sempre bello avere la possibilità di incontrare due attori, due artisti, lì nel loro mondo: gli oggetti di scena sparsi, le prove delle luci, il sound check. Si respira un po’ di quella che è la loro creatività, le sfumature delle loro personalità, si percepiscono i contorni delle loro dimensioni umane e artistiche.

Le quattro repliche hanno emozionato gli spettatori di diversi tipi di pubblico, addetti ai lavori e non, professionisti del mondo del pugilato, persone di tutte le età e anche molti bambini e ragazzi presenti in sala che conservano ancora la capacità di sognare nonostante la digitalizzazione delle esperienze, di una quotidianità caratterizzata dalla presenza di smartphone, tablet e videogames. Quel meraviglioso carico emotivo ha in parte cancellato la fatica fisica dei due attori che sono anche il regista e l’autore de La belva giudea. Come loro stessi hanno rivelato, arrivare ad un livello alto di ascolto, di comprensione e di condivisione è un obiettivo importante.

Il nostro incontro è la narrazione anche di questo, di un venerdì pomeriggio, di uno spettacolo che è solo la prima di una serie d’incontri, poiché altre date ci saranno ancora. Nelle loro parole ci sono tanti pezzi di storie e c’è un’idea che hanno in comune Gianpiero Pumo e Gabriele Colferai. Ogni cosa può essere tutto e niente, vincere o perdere, sogno e realtà. Alla fine tutto torna e si definisce. Solo allora avviene una corrispondenza perfetta tra quello che avviene in scena e quello che il pubblico vive in sala.

Quali sono state le tappe fondamentali della vostra storia personale e professionale?

Gianpiero: La mia storia professionale nasce tardi. Nel 2005 mi trasferisco da Palermo a Roma per studiare musical. Frequento l’Accademia LIM per un anno e dopo mollo perché avevo capito che la mia strada da seguire era un’altra, la recitazione. Ho continuato gli studi con lo stesso insegnante, Gianluca Ferrato, in un laboratorio triennale dove ho incontrato Gabriele. Lì, le nostre strade si sono incrociate e con lui ho fatto il mio primo vero spettacolo insieme, The Laramie Project. Successivamente sono andato in America a fare esperienza formativa al Susan Batson Studio.

Nel 2007, per gioco, da alcuni appunti che avevo scritto, nasce il mio primo testo come autore, Il Pretesto, che con mia grande sorpresa viene selezionato dal teatro Cometa. È stato un debutto importante per un autore, con Mariano Rigillo nel cast. Il testo viene pubblicato da Di Mauro editore. Capisco così che la scrittura mi piace, e la affianco al lavoro di attore. Le esperienze più belle a teatro sono legate a Gianluca Ferrato: The Laramie Project, il musical su Papa Wojtyla, Peppino Impastato nello spettacolo di Massimo Natale, girando in tutta Italia per due anni, anche in Sicilia e a contatto con la famiglia Impastato.

Dopo quell’intensa attività teatrale ho ripreso la penna e ho scritto una commedia, andata in scena al Teatro dei Servi, Un bacio dai tuoi papà. Ancora dopo, mi è venuta voglia di scrivere qualcosa un po’ più forte, una storia di sport di pugilato. Attualmente sto dedicando spazio alla scrittura cinematografica e questo spettacolo ne è la prova.

Gabriele: Nel mio percorso mi sono spostato in ogni direzione per mettere a fuoco quello che volevo fare. Nasco come attore, ho iniziato recitando, poi mi sono diretto verso l’insegnamento e ho iniziato a farlo da giovanissimo. Mi è stata data questa opportunità come assistente del nostro insegnante, ho lavorato a Milano, in Puglia e a contatto con tanti ragazzi, sia in corsi amatoriali che professionali.

Quella svolta mi ha fatto “girare l’angolo”, ho capito così che mi piaceva dirigere. Ho fatto un primo tentativo qui a Roma con Il vizio dell’amore, il testo di Gabriele Romagnoli. Dopodiché sono andato nel Regno Unito, a Londra, e lì ho fatto un master di regia in una scuola che si chiama East 15 Acting School, dal respiro molto internazionale, con studenti che vengono da tutto il mondo. Sono rientrato in Italia da poco e devo dire che questi due anni hanno allargato gli orizzonti ed è difficile ritornare indietro.

Credo di aver portato con me tante idee nuove, ispirate dagli spettacoli che ho visto, da un mondo teatrale molto diverso, più vivo più effervescente. Questa è la mia quarta regia, la seconda a Roma. Due, invece, sono quelle fatte a Londra dove ho una compagnia che si chiama Dogma Theatre Company. Abbiamo debuttato al Camden Fringe la scorsa edizione (con Cabin Fever, 1-4 agosto 2018 ndr) e verranno sviluppati altri progetti. La belva giudea è il mio primo esperimento al mio ritorno in Italia e nasce proprio qui, al teatro Cometa Off perché abbiamo partecipato allo Shortlab e abbiamo vinto il premio come migliore regia, sviluppando in seguito l’idea di uno spettacolo integrale.

Parlando della genesi dello spettacolo: come nasce l’idea, il soggetto de La belva giudea?

Giampiero: Tutti sanno quello che è successo nei campi di concentramento, ma pochi sanno che nei campi si praticava la boxe tra i deportati. Era un modo per intrattenere le SS ed erano dei combattimenti all’ultimo sangue. Là dentro c’era gente che non c’entrava nulla col pugilato e c’erano anche i boxeur professionisti che venivano deportati e usati con questo scopo. Ero venuto a conoscenza di un italiano, Leone Efrati, pugile in America per il titolo mondiale. Mentre a Roma avveniva il rastrellamento, preoccupato per il fratello e i genitori, lui decise di ritornare nella sua città e lì viene catturato. C’era veramente poco materiale disponibile; una mattina, mentre stavo al bar con il mio computer e avevo la macchina dal meccanico, facendo una ricerca visualizzo Hertzko-Harry Haft. C’era un articolo della Gazzetta dello Sport di qualche anno prima che riassumeva un po’ la sua storia.

Poco dopo scopro che c’era una biografia scritta dal figlio e una graphic novel dedicata al puglie. Decido così di ordinarlo su Internet e, quando arriva, lo leggo e realizzo che quella era la storia che dovevo raccontare. Scrivo così un monologo di nove pagine e mi fermo pensando che non fosse la cosa giusta. Spesso accade che nella mia testa qualcosa si spenga fino a indurmi a mollare tutto, come se non fossi più convinto. Passano i mesi, un anno e mezzo in tutto, e vengo a conoscenza dello Short Lab con la sezione monologhi. Ricordandomi di averne uno, quello sulla belva giudea, lo riadatto per un corto teatrale e mi rivolgo a Gabriele che stava ancora a Londra.

Non volevo che si vedesse la solita storia sui campi di concentramento perché spesso la sensazione che si prova nel vedere una storia di 50-60 anni fa è quella di pensare che queste cose sono già accadute e non succederanno. Si verificano però ancora oggi, purtroppo, mascherate in un modo diverso. Il mio bisogno era quello di raccontare una storia che potesse catturare l’attenzione dei giovani, anche quelli poco abituati al teatro. Lo Short Lab andrà molto meglio di quello che potevamo immaginarci e decidiamo così di inserire un altro personaggio. Da un iniziale monologo diventa un testo a due che ha un peso specifico diverso ed entra in scena il secondo personaggio senza il quale questa struttura non potrebbe reggere.

E poi c’è il personaggio di Leah che è presente nella storia ma assente in scena. Noi non raccontiamo i campi di concentramento, non raccontiamo la Shoah. Raccontiamo una realtà dei campi e la storia di Harry Haft che è una storia d’amore. C’è un romanticismo estremo, lui subisce cose inenarrabili: cade e si rialza, non per un istinto di sopravvivenza ma perché doveva tornare da lei. È l’unica cosa che lo ha tenuto in piedi fino alla fine e non diciamo come va a finire…

Gabriele: Gianpiero mi aveva chiesto di trovare il modo per rendere moderna, da un punto di vista registico, questa storia. Una cosa che mi è sempre piaciuta è l’irriverenza nei confronti della classicità, nel modo di fare teatro. Spesso si danno come punti fermi alcuni concetti, l’idea che il teatro sia diverso da altri linguaggi come il cinema o come un concerto per esempio, lavorando per compartimenti stagno. Questa è una cosa che non mi ha mai convinto. Da spettatore ho sempre apprezzato quegli spettacoli in cui succedeva qualcosa di diverso, mescolando i linguaggi. Questa commistione dovrebbe esserci più spesso nel teatro.

Da un punto di vista registico, ho deciso di lavorare con degli schermi che trasmettono delle riprese live in scena. Sono poche perché abbiamo scelto di non esagerare e di andare a prendere quei momenti in cui risultava essenziale, offrendo al pubblico la possibilità di scegliere se guardare l’attore in scena o il dettaglio proposto da una telecamera che è un altro punto di vista. Si può fare quindi anche un’astrazione filosofica nell’offrire una prospettiva diversa.

Anche a livello musicale la traccia sonora di questo spettacolo è molto moderna, molto contemporaneo il genere elettronico, c’è solo una vera canzone con una base molto lontana dall’epoca storica che stiamo raccontando. Il suono è stato aggiunto dopo come in cabina di montaggio quando si monta il film e si aggiunge la colonna sonora che va ad incorporare un altro strato, una suggestione in più.

Credo che questo sia stimolante perché lo spettatore viene reso attivo. Non gli diciamo subito quello che deve sentire, ma gli diamo un profilo in camera, un attore che sta parlando dal vivo, un suono che sembra aggiunto dopo. Io ho assecondato l’idea di scrittura di Gianpiero sviluppando insieme la struttura del testo. Cinque round, cinque capitoli che sono divisi non tanto da un punto di vista cronologico, ma secondo aree tematiche che legano la boxe ad accadimenti della vita del protagonista e che si chiamano per esempio Knockout, Getto della spugna, Schivata. Tutti termini specifici, schivare è un movimento tecnico però è qualcosa che si fa nella vita quando c’è un evento che potresti subire e invece lo eviti.

Ci sono un po’ di riferimenti a Tarantino nella divisione dei capitoli. Questa struttura credo che sia molto stimolante e digeribile perché alla fine è uno spettacolo di 50 minuti, applausi compresi. È un’esperienza molto rapida, veloce e devo dire che questa è una cosa che mi sono portato dietro da Londra dove un teatro può trovarsi al piano superiore e sotto c’è un pub. Si prende una birra, si sale su per 45 minuti di spettacolo e dopo si scende a bere un’altra birra. Questo dà una sensazione di leggerezza e la possibilità di fruire del teatro molto più quotidianamente di quanto invece facciamo noi che dobbiamo attraversare la città, parcheggiare, stare due ore in teatro.

Da regista quello mi che interessa è far piacere il teatro a chi non ci è mai andato. Bisogna andare incontro, trovare nuove strade per portare più gente a teatro. Questa storia per esempio fornisce un buon pretesto per tutti quelli che magari hanno interesse nei confronti della boxe per esempio, nello sport. Il linguaggio del testo e anche quello visivo sono coerenti con questa visione. Nell’idea delle riprese ci sono dei riferimenti molto alti. A Londra c’è un regista molto affermato, Robert Icke, che ha fatto la regia di 1984, di Amleto, in grandi produzioni e che fa tanto uso delle riprese live in scena. L’ho vissuto io da spettatore e capisco che può dare delle sensazioni diverse. Chiaramente il compito del regista è di cercare quei momenti in cui serve in cui veramente, ha un significato e può offrire qualcosa di più allo spettacolo.

Quali sono state le vostre impressioni e sensazioni subito dopo il vostro debutto?

Gianpiero: Noi siamo stati molto contenti perché il pubblico era molto emozionato, La cosa bella è che tutte le persone che abbiamo sentito dopo hanno detto la stessa cosa: hanno continuato a pensarci per tutta la sera. Non è facile da digerire la storia, non è facile mettere tutti i pezzi insieme. È uno spettacolo in cui devi stare concentrato perché è complesso, non ti puoi permettere di girarti, di chiacchierare o di fare altro perché rischi di non capire. Ha un montaggio veramente rapido e netto. Questo carico di emozioni che ha vissuto il pubblico ha emozionato tanto anche noi.

Gabriele: Quello che mi è mancato per tanti anni in Italia – e sono uno che va davvero tanto al teatro – è che era difficile trovare seduti accanto a me ragazzi della mia età o più piccoli. Nei due anni che ho passato fuori, sembra una cosa assurda, lì al National Theatre c’erano ragazzi a vedere Amleto, con la birra in mano. È avere questo senso di leggerezza nei confronti del teatro che a me è mancato, anche da addetto ai lavori. Il teatro va riportato alle sue origini.

Preponderante l’aspetto fisico ma anche un raccordo con il mondo interiore nei due personaggi. In che modo è avvenuta la preparazione?

Gianpiero: Preparare il personaggio di Harry, il pugile, è stato il lavoro più semplice perché si trattava di allenarsi. Ricordo che ho messo 5 kg di massa muscolare durante la preparazione per lo Short Lab. Dietro quella struttura muscolare, dietro quel pugile però c’è tutto un mondo di sofferenze, di ricordi, di malinconia che ho dovuto costruire e creare senza molti elementi perché non ho mai conosciuto Harry.

Spero di aver reso giustizia a quest’uomo che ne ha passate veramente tante e ha dovuto causare anche del male. Spesso è così, le persone che causano del male ne hanno ricevuto in quantità maggiore. È stato utile fare la preparazione con Gabriele perché con lui ho lavorato sempre bene. Lui è uno che non ti fa andare per forza negli inferi per trovare la motivazione giusta. Una cosa che a me non piace del teatro è quando bisogna avere per forza un unico modo di recitare. A me piace la verità e probabilmente in ogni replica potrei fare delle cose in modo diverso per cercare di restituire la mia verità in quel momento.

Gabriele: Così come ci sono cantanti che senza avere una intonazione perfetta fanno parte della storia della canzone italiana, nello stesso modo ci sono attori che hanno recitato in un modo completamente fuori dalle regole e che sono emersi e arrivati di più perché hanno provocato di più. Si passano varie fasi nella carriera di un attore. La prima è quella in cui devi portare tutto te stesso, tutta la tua storia. Ogni singolo momento deve essere carico di tutto. Presto arrivi a comprendere che lo spettatore ha bisogno di ascoltare e di andare avanti nella storia. Non devi fare uno, ma dieci passi indietro per rimetterti al servizio del racconto, in maniera intelligente e mirata, dando gli elementi che servono al pubblico.

C’è anche la magia e il segreto di quello che avviene sotto le luci, nel modo in cui un attore va a pescare delle cose per aprire i canali emotivi. Essere credibile agli occhi del pubblico è sicuramente una cosa su cui l’attore deve lavorare, ma credo sia anche una cosa molto privata. Io posso solo dire a Gianpiero che forse c’è una strada più intelligente per arrivare a commuovere il pubblico, per esempio. Posso indirizzarlo a cercare altre strade, ma non posso dirgli quello che voglio da lui. Come in ogni rapporto umano, anche tra un regista e un attore ci deve essere la possibilità di scoprirsi continuamente e di mantenere i rispettivi silenzi. Questo ti avvicina tanto perché nel silenzio succedono tante cose ed è proprio quello che succede nel teatro.

Gianpiero: Rientra nella bellezza di un personaggio il non riuscire a vedere tutto di lui perché non viene mostrato come una tavola imbandita. Lasciando che quello sia un momento privato e che da spettatore tu pensi sia giusto mantenerlo così.

C’è comunque a tutta la letteratura cinematografica da Rocky Al Pacino passando pure per Kill Bill vi siete ispirati o avete trovato un linguaggio tutto vostro?

Gabriele: Credo che tutte questi riferimenti fanno parte della nostra vita. Li abbiamo amati, li abbiamo visti e rivisti e quindi sono sicuramente dentro di noi. Se dovessi indicarne uno, il mio riferimento più recenti direi che è la serie televisiva Black Mirror. Sono tutti singoli episodi di universi distopici di un ipotetico futuro che non è poi così lontano con l’uso dei social media, della tecnologia avanzata, i rapporti tra persone e robot. La capacità che ha questa serie, portando alle estreme conseguenze quello che già c’è, è di farti vedere l’umanità, con uno sguardo critico e distaccato.

Abbiamo ricevuto feedback positivi sul nostro spettacolo perché credo che dia la possibilità di dare una certa “distanza” proprio per la sua impostazione cinematografica. Se viene rispettata questa distanza tra le poltrone e la scena, tra gli spettatori e gli attori, c’è una storia con la sua forza. Il suo svolgimento eleva a potenza quel meccanismo che spesso si verifica al cinema e che qui ha fatto spendere qualche lacrima, la sera del debutto. Evidentemente ha funzionato anche a teatro.

Harry è la storia di un sogno americano che si realizza o che viene infranto?

Gianpiero: Il sogno americano si realizza, ma Harry non è andato lì per il sogno americano. Nella scrittura c’è qualche elemento di critica; l’America si dice che sia il paese delle contraddizioni. Un po’ lo penso davvero e qualche riferimento c’è anche nel caso di Harry, attenendoci a quella che è stata la sua storia. Lui non parte per il sogno americano, ma per ritrovare la sua Leah. Il suo sogno è riuscire ad avere quella possibilità perché sa che lei è negli Stati Uniti.

L’unica cosa che sa fare è il pugile; far apparire il suo nome sui giornali è l’unico modo di farle sapere che lui è ancora vivo. Per questo coglierà l’occasione di combattere contro il campione del mondo dei pesi massimi Rocky Marciano. Sylvester Stallone ha scritto un film immaginandosi di combattere contro il campione del mondo Apollo Creed. Ad Harry è successo davvero.