InvisibilMente e Perdere la Faccia di Menoventi. Intervista al regista Gianni Farina
Un bizzarro scherzo del destino: è questa la definizione migliore sia per InvisibilMente, spettacolo della compagnia Menoventi, andato in scena al Teatro Argot Studio di Roma il 27 e il 28 febbraio, sia per il successivo Perdere la faccia, cortometraggio – o presunto tale – del regista Daniele Ciprì.
Un progetto binario che affonda le radici nel teatro dell’Assurdo a cura del regista Gianni Farina, intervistato a caldo dopo il grande successo ottenuto nel teatro storico di Trastevere.
In InvisibilMente ad accogliere il pubblico solo uno schermo nero sullo sfondo, con un’unica scritta in bianco: “Benvenuti”
Gli attori, nelle vesti di due maschere malcapitate, cercano di rabbonire il pubblico prima che lo spettacolo cominci; vengono però inesorabilmente schiacciati dall’incapacità di gestire la situazione. Nel frattempo, una presenza incombe alle loro spalle, come un dio burlone il cui potere sui presenti rimane etereo e incomprensibile.
La compagnia nasce nel 2005, dalle tre persone viste in azione oggi: Alessandro Miele, Consuelo Battiston ed io alla regia – ricorda Gianni Farina. Adesso Alessandro vive a Lecce e ha formato un suo gruppo, Crocco/Miele e diciamo che il nucleo della compagnia è costituito da me e Consuelo, però in tutti i progetti ci avvaliamo di collaborazione esterne. Questo spettacolo è del 2008 e ha quasi undici anni: noi lo sentiamo ancora vivace, non molla e continuiamo a farlo.
Nasce però da tutt’altre premesse: noi volevamo fare uno spettacolo sul Giudizio Universale. Abbiamo provato a lungo cose legate a quella tematica e abbiamo focalizzato la nostra riflessione su un testo di Hillman che parlava della rivelazione, ovvero cosa accade quando c’è l’epifania di un’entità: il rischio è che a volte questa rivelazione venga presa alla lettera e quindi il confine tra la rivelazione e la paranoia sia sottilissimo.
Durante le prove eravamo un po’ bloccati e così, per gioco, Alessandro e Consuelo hanno improvvisato quello che poi sarebbe diventato il nostro spettacolo: i principi di questo lavoro sono nati da una loro improvvisazione che a me era piaciuta e che comunque rimaneva legata al Giudizio, all’epifania ma anche alla paranoia e, al controllo. Andando a rileggere Orwell abbiamo ovviamente messo le mani su quella improvvisazione, rimodellando molte cose. Però la linea guida a quel punto era 1984 di Orwell e non più il Giudizio Universale.
Metodo di lavoro della compagnia Menoventi
Uno spettacolo simile si deve anche all’iniziale metodo di lavoro che ha contraddistinto la compagnia Menoventi nel percorso di ricerca e sperimentazione: una costante messa in discussione di qualsiasi elemento, come il testo a cui si fa riferimento, un’idea da cui si era partiti o l’intero spettacolo, a vantaggio invece della spontaneità dell’improvvisazione sul palcoscenico.
Il nostro metodo di lavoro inizialmente era una sorta di scrittura scenica portata all’estremo: all’epoca si saliva sul palco proprio senza aver scritto nulla, magari avendo letto tante cose ma senza avere un’idea precisa di quello che saremmo andati a fare. Un tema, un filo conduttore, un’atmosfera c’è ma anche questi assunti di base vengono traditi da un’improvvisazione felice capace di farci cambiare bersaglio. È un termine che non utilizziamo più adesso, un tempo però parlavamo di metodo stocastico dagli studi di Bateson. Stocastico significava scagliare una freccia verso un bersaglio: se la freccia colpisce un altro bersaglio e non quello verso il quale miravi, forse è il caso di cambiare obiettivo e quindi di prendere un tiro particolarmente infelice come invece un tiro particolarmente felice.
La compagnia, contraddistinta da una grande libertà espressiva, si cimenta in una rappresentazione incentrata sul controllo dei sentimenti provocati agli spettatori. Ogni movimento, ogni sussurro dei due attori verrà dato in pasto al pubblico, senza possibilità di salvezza. Ma è veramente così potente il pubblico o anche questo è uno strumento dell’azione scenica il cui unico burattinaio è proprio lo schermo? Sicuramente l’elemento elettronico dello schermo rapisce lo sguardo dello spettatore facendogli a volte perfino dimenticare della scena e degli attori.
Il pubblico si sente osservato, catturato da questa entità invisibile – dice Gianni Farina – questa mente invisibile finora ha controllato solo i protagonisti di questa sfortunata tragicomica vicenda, ma nella seconda parte il pubblico viene chiamato in causa. C’è un piccolo lavoro statistico: lo spettacolo è cambiato un po’ dopo il debutto perché abbiamo cercato di raffinare le due o tre slides che prevedono le azioni e i pensieri del pubblico. Replica dopo replica, abbiamo capito, per esempio, che in certi punti ridevano sempre, e quando noi lo scrivevamo nelle volte successive il riso spariva.
E così si passa dall’ironia alla tragedia in un colpo. Inoltre abbiamo capito quando il pubblico concede l’applauso di incoraggiamento ai tecnici e quando no. Questa piccola statistica ci ha permesso di lavorare delle strategie di inclusione dello spettatore dentro questa vicenda. È stato abbastanza semplice in realtà perché ci siamo resi conto che la massa, anche la piccola massa o il gruppo è facilmente manipolabile.
Basta poco affinché i ruoli si scambino, e chi pensa di essere vittima diventi ben presto carnefice. Il pubblico, che ride delle due povere maschere umiliate dallo schermo, è sia complice quanto vittima dello stesso beffardo gioco che viene inflitto sulla scena.
Alessandro Miele e Consuelo Battiston, presenti sulla scena, sono a stretto contatto con il pubblico e questo permette di cogliere al meglio l’unica forma di protesta che gli rimane: l’espressione facciale.
Questa viene calcata fino a diventare quasi una smorfia orribile di dolore, unica manifestazione di insofferenza rispetto al peso della situazione o della propria condizione. È interessante come quest’arma della smorfia, spesso più sfruttata cinematograficamente, possa essere preservata nel suo potenziale espressivo grazie alla struttura stessa dello spettacolo.
Perdere la faccia
Sempre la compagnia Menoventi al Teatro Argot Studio di Roma, nei giorni seguenti a InvisibilMente, ha presentato Perdere la Faccia, cortometraggio – o presunto tale – del regista Daniele Ciprì. Anche in questo spettacolo la compagnia gioca con lo spettatore sfruttando e sconvolgendo quelle meccaniche basilari dell’intrattenimento. Perdere la Faccia viene presentato come la proiezione di un cortometraggio con tanto di telo abbassato e telefonata al regista Daniele Ciprì. A presentarlo ci sono gli attori Alessandro Miele e Consuelo Battiston. Non ci vuole molto a capire, fin dai primi minuti, e soprattutto con la telefonata al regista, che qualcosa non vada, come se non fosse reale. Poi buio.
Nessun cortometraggio. Appena si riaccendono le luci, la presentazione viene ripetuta in maniera automatica, con una meccanicità angosciante. Via via però si accumulano errori e imperfezioni. La telefonata svanisce e con esso anche il telo, ma da dietro a questo compare un elemento di disturbo nuovo: Rita Felicetti nei panni di una persona qualsiasi, che senza volerlo distrae il pubblico, invitando al tempo stesso a seguire i presentatori. Questo Puck contemporaneo, continua a prendersi gioco dei presenti in loop, prima invitando il pubblico a festeggiare un compleanno, poi modificando la situazione a suo piacimento, facendogli prendere sempre più un aspetto imperfetto e inquietante.
Perdere la Faccia è un climax ascendente che parte dall’entusiasmo della presentazione di un lavoro straordinario e discende fino a riflettere intorno alla frustrazione, alla sofferenza e al disagio. L’intera situazione prende tinte surreali, sia per tutti quegli elementi di disturbo, sia per le dinamiche registiche che contraddistinguono il lavoro della compagnia come in InvisibilMente.
Entrambi gli spettacoli portati al Teatro Argot Studio ricalcano il gusto di sperimentare della compagnia Menoventi, soprattutto nella loro capacità di giocare con la grammatica teatrale e dello spettacolo più in generale, ma anche per l’uso attivo della regia, quasi come ci fosse un terzo attore, una mano invisibile sempre presente sulla scena.