#Incontri: Arkady di Anonima Sette. Un viaggio nel mondo post-comunista

#Incontri: Arkady di Anonima Sette. Un viaggio nel mondo post-comunista

Dopo il debutto a Carrozzerie n.o.t, la compagnia Anonima Sette, torna a Roma presentando al Teatro Trastevere dal 23 al 26 gennaio ore 21.00, Arkady, spettacolo nato dall’estro drammaturgico di Giacomo Sette con la regia di Azzurra Lochi. Insieme a loro e ad alcuni degli attori e delle attrici/musiciste della compagnia abbiamo ragionato intorno alla genesi e all’evoluzione scenica dell’opera per conoscere meglio le storie dei protagonisti di questo viaggio in camion attraverso il mondo post-comunista.  

 

Arkady è un giovane camionista di origini moldavo-russe. La sua è una tratta molto particolare. Consegna tessuti a Le Havre (Francia) e Cabo de Roca (Portogallo), partendo da Taranto. Circa 40 ore di viaggio, con strettissime pause per mangiare e riposare. Il suo viaggio descrive un triangolo perfetto per l’Europa Occidentale. Ma Arkady avrebbe voluto fare il poeta e, soprattutto, è terrorizzato dalla prospettiva di un colpo di sonno. Il Sonno è il suo grande nemico. Per vincere la paura e superare indenne il suo viaggio, Arkady parla da solo. Lo troviamo che parla delle fatiche affrontate per corteggiare e conquistare Alina, laureanda in Storia Contemporanea con una tesi sulla nostalgia dei russi per l’Unione Sovietica. La personalità chiusa e incerta di Arkady incontra non poche difficoltà nell’impresa. Ad aiutarlo ed ostacolarlo ci sono suo Padre, (un ex dissidente sovietico, costretto alla miseria e all’emigrazione dopo la caduta del muro di Berlino), e una misteriosa ragazza, Azazael, narratrice onnisciente. Personaggi reali o semplici proiezioni? In un abitacolo sempre più simile alla mente di chi lo guida tutto è possibile: i piani e i temi si confondono, le voci si accumulano e la strada va, inesorabile. Con il Sonno. Davanti ad Arkady un bivio: la consegna precisa e puntuale dei tessuti o il volo meraviglioso nel paradiso dei camion? La strada da scegliere è tutta qui: chiudere gli occhi, o no.

 

Come nasce la storia di Arkady?

Risponde Giacomo Sette: « Il testo di Arkady è nato su richiesta di Giulio Clerici che è l’attore per cui è stato scritto e per un mio interesse sul mondo comunista e post-comunista per capire come l’ideologia del comunismo si sia strutturata al livello burocratico, militare e statale e come poi – nello specifico per la storia di Arkady – sia stato il dopo. Il comunismo sovietico ha rappresentato per settant’anni un’alternativa al sistema capitalistico. C’era una superpotenza, la Russia, che era il contraltare degli Stati Uniti poi da un giorno all’altro questa cosa non c’è stata più per cui si sono verificate una serie di conseguenze. Negli anni ’90 in quella parte dell’est europeo c’è stata  una ubriacatura per cui si è iniziato a spendere e spandere. Il passaggio al capitalismo è stato immediato, da un giorno all’altro come il crollo del muro in qualche modo. Dal momento che si è sciolta l’URSS c’è stato un cambiamento radicale; in un primo periodo c’è stato una grande ebbrezza per questa cosa ma poi sono arrivate le conseguenze. La cosa che interessava a noi era parlare di queste conseguenze non di natura economica ma morale, psicologica e sociale, al di là del confronto di due tipi di vita materiale. Volevamo capire cosa provano queste persone nei confronti della loro storia. Una cosa affascinante di cui in Italia si parla pochissimo, proprio qui dove ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno un trascorso molto problematico con questa storia per cui almeno la metà del mondo russofilo dell’ex URSS è nostalgico e sente la mancanza del regime ma non come ad alcuni degli italiani manca il fascismo che non l’hanno nemmeno vissuto e conosciuto dal momento che questi due fenomeni storico-culturali rappresentano due realtà politiche completamente diverse. Il fascismo nasce da un’idea dell’umano totalmente distorta e malata mentre il comunismo, per quanto male possa essere applicato, nasce da un’idea di uguaglianza sociale fra tutte le persone che è giusta. Oltre l’economia e la politica, è proprio un discorso teorico: queste persone avevano un codice che a un certo punto è scomparso e questo enorme sistema di valori che ha rappresentato settant’anni di storia di quella parte del mondo che veniva a sua volta da un altro impero che era quello degli Zar con quella forma mentis della superpotenza, da un giorno all’altro si è trovata ad essere svenduta. Il lavoro che cerchiamo di fare è più sottile, non vogliamo stare da questa parte o dall’altra: noi vogliamo capire esattamente cosa è successo a queste persone e come il capitalismo, a differenza degli altri sistemi economici della storia, entra in testa e ti cambia psicologicamente e vederlo sul campione di queste persone che hanno vissuto questo passaggio è molto interessante.
Per la stesura del testo ho letto un libro che si chiama Tempo di seconda mano, di Svjatlana Aleksievič Premio Nobel per la Letteratura 2015 in cui l’autrice ha raccolto interviste di russi, bielorussi, ucraini sondando tutto il passaggio dallo scioglimento dell’URSS definitivo del ’94 fino all’intervento dei russi nel Donbass. Dal libro si rileva che la maggior parte della popolazione rimpiange in qualche modo quel periodo in cui nonostante vi fosse molta povertà i rapporti umani erano veri, ora invece che possono avere tutto sentono umanamente di non avere più niente. Una cosa che loro non si spiegano mentre per noi è all’ordine del giorno. Inoltre abbiamo lavorato su un saggio di Paolo Borgognoni “Capire la Russia” in cui si trovano numeri e statistiche ben dettagliati».

Dal testo alla scena: quali sono gli elementi utilizzati per affrontare questo passaggio?

Risponde Giacomo Sette: « A noi piace dire che è punk o in questo caso noise, cioè c’è tantissimo suono – è un regia di suono, giocata sul suono e sul ritmo. Il discorso di Arkady che è sempre al microfono viene constantemente ritmato da Ana Kusch con il violoncello e anche dalla cantante Alice Giorgi che suona continuamente attraverso la voce e anche il corpo – tipo body percussion». Continua Azzurra Lochi: « Il suono che viene prodotto lo vedo come il sesto personaggio in scena come se fosse la coscienza collettiva di tutti questi personaggi. Quando gli attori parlano la musica magari arriva a sottileneare la cosa che stanno portando o altrimenti, per assurdo, ci racconta l’altra faccia della medaglia. Ci sono dei passaggi precisi in cui gli attori lasciano il proprio posto e questo viene fatto con un ritmo, non sono mai lasciati al caso, come fosse veramente un viaggio. Arkady, per tutto il tempo, sta guidando un camion ed è come la musica dello stereo che accende e lo accompagna e muta l’atmosfera».

Come si è integrata la partitura musicale all’interno della dimensione attorale?

Risponde Alice Giorgi, attrice e cantante: « Le musiche vengono dalle nostre improvvisazioni quindi dal sentire e dall’osservazione di cosa avviene in scena riportandolo attraverso lo strumento e la voce. Un lavoro di costruzione collettiva e di sperimentazione fra l’immagine e il suono. Il lavoro sulla ritmica è partito dalle improvvisazioni: a volte venivano date delle sensazioni anche a partire dal testo per cui si partiva da un suono e poi cercavamo noi tre di amplificarlo, ognuno col suo strumento. Io mi sono accorta che anche con Giacomo non dovevo solo cantare ma che potevo esprimere il senso di quello che stavamo creando anche con dei suoni più umani, come può essere tossire oppure fare un verso che non era semplicemente un canto. Noi tre insieme siamo come il microfono che amplifica le parole di Arkady e ciò che avviene in scena; in un certo modo le nostre vibrazioni portano lui a cantare e le sue parole portano noi a vibrare. Un passaggio ulteriore è arrivato quando abbiamo deciso che io sarei stata anche il personaggio di Alina, quindi il mio canto è diventato anche il canto di Alina, quello che faccio col mio corpo è quello che fa il mio personaggio col corpo mentre aspetta Arkady. Si è caricato tutto di significato diventando più netto».

Rispetto alla co-direzione registica dello spettacolo come vi siete trovati a lavorare insieme?

Risponde Azzurra Lochi: « Io e Giacomo, pur provenendo da formazioni diverse, abbiamo in comune un’attenzione agli spazi, siamo innamorati dei luoghi che incontriamo. Ci siamo conosciuti un anno fa in una residenza artistica facendo un progetto di site specific dove ci siamo connessi e ci siamo legati particolarmente. Molto spesso ci incontriamo nelle proiezioni che facciamo: ci sono stati momenti di blocco perché ci sono due visione diverse e insieme si cerca di plasmarle. Poi effettivamente sono gli attori che ti rivelano qual è la scelta giusta. Noi abbiamo lavorato tantissimo dando molto spazio agli attori e in un quest’anno passato insieme sono cresciuti tantissimo. Arkady era dentro di Giulio perché è stato scritto per lui e oggi Arkady è uscito fuori ed è rappresentato dal corpo di Giulio. Così per il personaggio di Alina che è nato con l’arrivo in compagnia di Alice. Tecnicamente ci sono stati dei momenti in cui abbiamo lavorato in diverso modo: alcune volte dividevamo gli attori per cui Giacomo ha lavorato a stretto contatto con le musiciste mentre io lavoravo con Simone Caporossi alla figura del padre lavorando sul portare la favola degli omini di polvere. Infine provavamo tutti insieme e così sono nate le influenze: le musiciste sentivano la storia e improvvisavano oppure il padre si lasciava influenzare dalla musica proposta, quello che lasciavamo agli attori si incontrava e lì avviene una forma di selezione naturale. E’ il primo studio e veramente si rivelano tantissime cose durante la prima rappresentazione e non vediamo l’ora di vederli in scena dopo mesi e mesi di lavoro. Ci teniamo a ringraziare carrozzerie n.o.t, in special modo  Maura e Francesco, perno di ciò che c’è di buono nel panorama teatrale romano, che ci hanno dato una fiducia enorme».

 

ARKADY

di Giacomo Sette
regia Azzurra Lochi
con Giulio ClericiSimone CaporossiAlice GiorgiAna Kusch
musiche Alice Giorgi e Ana Kusch
luci Pietro Frascaro
collaborazione alla regia Giacomo Sette
ph Giulia Castellano Ph
locandina e grafica Beatrice Fonti
comunicazione Chiara Preziosa
DURATA 50′

Over – Emergenze teatrali al Teatro Argot. Intervista a Tiziano Panici

Over – Emergenze teatrali al Teatro Argot. Intervista a Tiziano Panici

Se le speranze di un sistema economico più equo e rispettoso dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici sembrano ormai tramontate e se le lotte per un sistema politico che sappia creare le condizioni necessarie per rilanciare un settore in perenne crisi, andando a valorizzare le relazioni umane attraverso l’arte e la cultura piuttosto che distruggere l’umanità degli artisti che cercano di opporsi a questo status quo, sembrano essere sempre più lontane, qualcosa a Roma, più precisamente al Teatro Argot Studio, si muove.

Visioni illuminate che portano a percorsi che, a loro volta, liberano creatività e desideri comunardi di rigenerazione socio-culturale di un gruppo di giovani, che, rilanciando il protagonismo cittadino, hanno cercato di rivoluzionare un sistema antropofago e disumanizzante qual è quello dello Spettacolo dal vivo in Italia. Un gruppo di bell* e ribell* che, da anni anima l’amorfa Roma attraverso l’organizzazione di Dominio Pubblico, Festival under 25, è riuscito anche a riversare tutto il proprio entusiasmo nelle numerose attività proposte nel teatro trasteverino di Via Natale del Grande.

L’ultima, in ordine temporale, è #OVER – Emergenze teatrali. Rassegna di giovani talenti + 25, kermesse teatrale dedicata alle nuove generazioni artistiche del panorama romano e nazionale, che tesaurizza le forti connessioni del network creato con cura da diversi anni fra diverse realtà che lavorano nel settore: compagnie, festival, operatori e pubblico, i quali diventano protagonisti di un’esperienza di cambiamento necessaria quanto vitale. Un’operazione guidata dal direttore artistico Tiziano Panici, con cui, in questa sede, continuiamo a dialogare circa le destinazioni possibili di questo folle volo.

#OVER - Emergenze teatrali ⚠️ rassegna di giovani talenti + 25

#OVER – Emergenze teatrali ⚠️ rassegna di giovani talenti + 25

La rassegna #OVER – Emergenze teatrali. Rassegna di giovani talenti + 25 presenta come slogan: “L’artista è una specie rara da proteggere”. Come nasce la rassegna e quali sono gli obiettivi prefissati?

Negli ultimi anni abbiamo dedicato molte energie e attenzione alle giovanissime generazioni attraverso il progetto Dominio Pubblico. Nel 2015, in collaborazione con Teatro dell’Orologio e Kilowatt, Argot programmava Dominio Pubblico Officine, riuscendo anche a garantire un premio di produzione a progetti in via di sviluppo. Poi con la chiusura dell’Orologio il progetto Dominio Pubblico si è progressivamente trasferito al Teatro India e oggi è un evento unico nel suo genere dedicato a progetti di artisti con meno di 25 anni. Come Argot ci siamo di nuovo posti il problema di come però deve essere affrontata la crescita e lo sviluppo delle giovani compagnie una volta che sono “emerse”. Crediamo che oggi il compito di una casa di Produzione come Argot sia di fungere da incubatore per nuove realtà che hanno il bisogno di crescere e diventare adulte. Spazi come il nostro devono poter incoraggiare e tutelare questa crescita mettendo a disposizione quello che è nelle nostre possibilità: offrire spazi di residenza, visibilità e accompagnamento produttivo.

Tanti nomi di compagnie “giovani” ma con alle spalle debutti e repliche in festival e teatri importanti: quali sono stati i parametri artistici perseguiti nella selezione degli spettacoli?

Ancora una volta è stato importante il connubio con Dominio Pubblico che ci ha permesso di venire in contatto con moltissime realtà ancora poco conosciute ma con grande potenziale. È il caso di Alessandro Blasioli, attivissimo autore e interprete che è stato ospite nel Festival per ben due edizioni e che da quest’anno inizia a collaborare con Argot Produzioni, dopo essere stato notato e premiato in contesti nazionali come il Festival della Resistenza del Museo Cervi o Direction Under 30 del Teatro Sociale di Gualtieri, realtà con cui collaboriamo attivamente ormai da tre anni.

A Gualtieri abbiamo conosciuto anche Anonima Sette e la sensibilissima drammaturgia di Giacomo Sette. Abbiamo poi amplificato le relazioni con il Matuta Teatro di Sezze, alla cui rassegna Pollini ci siamo legati fin dalla prima edizione. Ma lo stesso Argot in questi anni è rimasto spazio aperto che si è fatto attraversare da compagnie contemporanee più affermate, come quella di Licia Lanera che ha iniziato a produrre giovani scommesse tra cui Danilo Giuva.

Tra i protagonisti di OVER anche Valerio Peroni e Alice Occhiali, nuova generazione cresciuta sotto l’ala dell’Odin Teatret, che gira il mondo proprio come le ragazze di Unterwasser che, con il loro OUT, sono approdate lo scorso autunno al REF dopo centinaia di date internazionali. Non manca la ricerca sulla drammaturgia, da sempre cara a casa Argot: la freschissima scrittura di Paolo Tommaso Tambasco e quella di Sandra Lucentini a servizio della cura scenica di Lucrezia Coletti. Ad aprire le danze di OVER, il 2 maggio, sarà un progetto che proviene da una delle fucine più interessanti del panorama nazionale: il NEST di Napoli. Lo spettacolo, ospitato in residenza in questi giorni all’Argot, è firmato da Adriano Pantaleo e Giovanni Spezzano.

#OVER - Emergenze teatrali ⚠️ rassegna di giovani talenti + 25

#OVER – Emergenze teatrali ⚠️ rassegna di giovani talenti + 25

Se volessimo scattare un’istantanea della situazione teatrale romana e nazionale attuale, cosa emergerebbe dall’analisi delle nuove generazioni teatrali? Quali sono le ricerche artistiche e quali le specifiche sperimentali rispetto ai movimenti delle generazioni precedenti?

Mi sembra che nel suo piccolo OVER abbia proprio questa ambizione: cercare attraverso queste nove realtà artistiche di scattare una fotografia, sicuramente parziale ma molto eterogenea, di una nuova generazione teatrale e non solo. Se osserviamo il lavoro di questi artisti troviamo dei percorsi e delle ricerche davvero uniche e per nulla ripetitive. Sono opere diverse nel linguaggio, nella scrittura, nella ricerca visiva e sonora. Ma, allo stesso tempo, se guardiamo il quadro generale, questi giovani artisti sono tutti legati da un filo sottile che li tiene insieme: una rete di rapporti e di sostegno che da più parti d’Italia si è impegnata a garantire supporto alle nuove voci della scena.

Mi sembra che rispetto alle generazioni precedenti oggi ci sia anche un gruppo di programmatori che sta cercando di rinnovare l’impegno nei confronti della ricerca e della sperimentazione contemporanea, atteggiamento che forse si era un po’ perduto e che si mantiene solo con il grandissimo sforzo di mettersi insieme.

La rassegna #OVER – Emergenze teatrali sembra essere un momento di collegamento fra la stagione artistica del Teatro Argot Studio e la prossima edizione di Dominio Pubblico che si terrà a Giugno: c’è un filo rosso che attraversa queste esperienze?

Ho sottolineato la forza di questa congiunzione fin dall’inizio. Posso solo aggiungere che, in merito a quanto appena detto, Dominio Pubblico vorrebbe diventare sempre di più un connettore di esperienze di scouting e di programmazione per giovani generazioni, ma per crescere, diventare adulti e poter vivere del proprio lavoro ci devono essere realtà come Argot Produzioni, attente e sensibili al rinnovamento e pronte a prendere in custodia progetti che hanno bisogno di cura per riuscire a circuitare e diventare progetti sostenibili.

#OVER - Emergenze teatrali ⚠️ rassegna di giovani talenti + 25

#OVER – Emergenze teatrali ⚠️ rassegna di giovani talenti + 25

Ci sarà una futura collaborazione che permetta in futuro l’inserimento delle compagnie all’interno della programmazione stagionale di Teatro Argot Studio?

OVER è uno dei progetti che Argot Produzioni ha inserito quest’anno nelle sue sfide per il futuro e sicuramente avrà una seconda edizione che è già in via di sviluppo. Quest’anno con i nuovi bandi SIAE abbiamo partecipato nella categoria per le residenze pensando a una fase due del progetto. Immaginiamo le prossime stagioni di Argot Studio sempre meno focalizzate sulla programmazione e l’ospitalità di compagnie e sempre più incentrate su un’idea di spazio produttivo dove si scelgono progetti da testare e far crescere. Ci auguriamo anche di riuscire a rafforzare la dimensione distributiva di questi lavori perché al momento è il vero anello debole di tutta la produzione italiana, quindi deve necessariamente essere adeguata all’enorme capacità creativa degli artisti nostrani, altrimenti destinati a non avere uno sbocco.

Dell’incomunicabilità dell’essere. Intervista a Giacomo Sette, autore de “Il Pianeta”

Dell’incomunicabilità dell’essere. Intervista a Giacomo Sette, autore de “Il Pianeta”

 

Dopo il primo esito nell’aprile scorso presso Blue Desk in forma di lettura, dal 4 al 6 Ottobre 2018 Il Pianeta di Anonima Sette, co-prodotto da Blue Desk, approda nella versione spettacolare a Carrozzerie n.o.t, spazio nevralgico del teatro romano attorno al quale anche per questa stagione è stata costruita una struttura virtuosa di programmazione di eventi teatrali e di residenze produttive.

A partire dal romanzo Solaris di Stanislaw Lem, il regista e drammaturgo Giacomo Sette, prosegue la personale indagine, già affrontata in Arkady e in B/Ride , intorno alle dinamiche di immobilità e di incomunicabilità nei rapporti umani ed in particolare nella relazione fra uomo-donna. Nello scenario fantascientifico di una stazione spaziale sospesa sopra l’oceano del pianeta Solaris, tre scienziati si trovano di fronte alle rappresentazioni di figure umane generate dal pianeta stesso, fantasmi del passato con cui dover fare i conti. Uno degli scienziati, Kris, protagonista de Il Pianeta, dovrà ricostruire un rapporto con Harey, la ragazza che ha perso molti anni prima.

Abbiamo intervistato l’autore Giacomo Sette per esplorare il percorso di creazione artistica che dalla lettura appassionata del romanzo di Lem si è sviluppato nella produzione dello spettacolo “Il Pianeta”.

 

Solaris di Stanislaw Lem: dalla narrativa al teatro

Personalmente tutto ciò che c’è scritto in Solaris meriterebbe di essere riportato, però o fai una riproposizione integrale del romanzo per il teatro o invece segui il lumino di quella che è la tua urgenza. Ciò che mi colpì alla prima lettura di Solaris fu come gli scienziati bloccati nello spazio vivessero i rapporti umani attraverso le dinamiche di isolamento e di dolore provate. Nel romanzo ogni scienziato ha un fantasma del passato che il pianeta gli propone.

Ognuno di loro si vergogna di questo fantasma e si isola rispetto agli altri. Non c’è una dimensione solidale e collaborativa fra questi esseri umani per resistere a quella che sembra essere una violenza del pianeta alieno nel quale si trovano. Ma la cosa più importante è il rapporto di Kris Kelvin con il clone della sua compagna morta suicida, Harey che gli viene riproposta dal pianeta.

 

Come lui reagisce a questo evento mi ha colpito molto. Nel romanzo c’è tutta la confusione dello scienziato, un uomo iper-razionale abituato a ragionare coi numeri che si relaziona a quella che sembra essere la donna che ha sempre amato. Questa visione introspettiva piena di ragionamenti filosofici, molto astratta mi ha colpito moltissimo come lettore prima ancora che come drammaturgo. Mi ha commosso facendomi appassionare alla lettura. Io non ho capito fino in fondo il messaggio di Lem ma mi sono sentito Kris, perché mi sono accorto di quante volte io penso di aver capito le cose umane ma in realtà non ci ho capito niente.

A livello drammaturgico, il testo ha avuto molte stesure in virtù del confronto col co-produttore Simone Amendola e con Francesco Montagna e Maura Teofili di Carrozzerie n.o.t. Quindi è cambiato nel tempo ma ha mantenuto come radice la necessità di umanità nei rapporti e poi si è sviluppato anche nell’esigenza di riprendere quella sensibilità che c’è anche in Lem che scrisse Solaris nel 1956 nella Polonia comunista. A quei tempi i polacchi si sentivano controllati in ogni aspetto dai sovietici e Lem sottolinea questa mancanza di intimità e la traspone in parte nel romanzo. Inizialmente la drammaturgia è partita da un dialogo di Kris e Harey sulla loro relazione all’interno di una tessitura fantascientifica poi si è sviluppato il terzo personaggio deputato allo sviluppo della narrazione.

L’ambientazione fantascientifica e la direzione registica degli attori

Il discorso fantascientifico è partito in realtà dal confronto con Amendola che ci ha ospitati al Blue Desk per una lettura del testo nell’aprile scorso. Lui per primo mi ha invitato a far entrare la fantascienza in scena. La fantascienza è nata come gioco, come colore: portare tutti gli effetti speciali dello “sci-fi” cinematografico in teatro è molto difficile però una volta che hai dichiarato che stai parlando nello spazio in un pianeta alieno, cambia il patto col pubblico: nel senso che lo spettatore è portato a essere ancora più elastico dal punto di vista sensoriale e quindi puoi permetterti un uso della fantasia in scena che in una storia naturalistica non adotteresti.

Lo spazio di Carrozzerie n.o.t si presta molto bene all’ambientazione fantascientifica, con il pavimento bianco che favorisce un’immaginazione di quel tipo; in più usiamo moltissime luci led azionate dai personaggi. C’è un lavoro sorprendente su degli oggetti quotidiani anche molto semplici ma significativi come se fossero strumenti estranei venuti da un mondo futuro.

Abbiamo provato a vedere la fantascienza in una chiave onirica attraverso il sogno che ci precipita in situazioni che a raccontarle sembrano assurde ma non lo sono per niente. Storie personali che hanno significato e profondità. Abbiamo lavorato a livello scenico e scenografico sull’atmosfera che si portano dentro i protagonisti: piccole ossessioni e caratteristiche individuali che diventano elementi scenici. Allo stesso tempo con le luci, le musiche e i colori abbiamo cercato di ricreare l’atmosfera di una stazione di ricerca nello spazio gigante e desolato, pieno di uomini soli dove ognuno è chiuso nel suo piccolo mondo ed è in lotta con qualcosa che non capisce. Un’atmosfera, opprimente come nel romanzo, ma anche magica. Quindi dalla fantascienza abbiamo cercato di arrivare la magia.

Ho tradotto registicamente il problema dei protagonisti di entrare in comunicazione essendo tutti bloccati nei loro problemi, chiusi nei propri mondi. Continuando la mia ricerca sul tema dell’impossibilità del contatto diretto, ho immaginato sulla scena gli attori disposti su due binari diversi; essi, nonostante non si incontrino mai, parlano e si comportano come se fossero gli uni di fronte agli altri, come se ci fosse un contatto che in scena non si vede. Inoltre c’è tutta una narrazione al microfono con delle didascalie che raccontano ciò che in scena in realtà non avviene per sottolineare l’enorme freddezza nella quale sono incastrati i personaggi. Tutto è lasciato a come loro vivono questa difficoltà. È un lavoro sull’attore e sulla pulizia delle immagini.

Come si inserisce questo lavoro all’interno della tua ricerca artistica?

Prima de Il pianeta mi sono molto contenuto. Solo con l’ultimo spettacolo Il peccato ho cominciato a fare realmente quello che pensavo di voler fare: per cui questa è la prima volta che oso un po’ di più. Io sono fissato col discorso dell’immobilità umana, infatti con B/Ride ci sono i protagonisti che non si muovono mai, bloccati soprattutto a livello sociale. I miei spettacoli affrontano un lavoro di ricerca su questo tema: i personaggi cominciano la loro avventura in scena privati di ogni forma umana, per ora questa condizione la sto identificando nel movimento soprattutto perché teatralmente siamo nell’epoca delle contaminazioni col teatro-danza, quindi attraverso questa espressione artistica hai subito chiaro ciò che succede anche quando i corpi sono fermi. Vorrebbero aspirare a qualcosa ma non ci riescono, la grande difficoltà è nel dare movimento reale ai corpi. La mia ricerca va dall’immobilità al movimento non solo teatrale ma riconoscibile come reale, come quotidiano, come umano.

In Solaris le riproduzioni delle persone del passato rappresentano l’Altro per i personaggi che sono sul pianeta: in questo senso ho trattato teatralmente la riflessione sulle relazioni con l’Altro. Nello spettacolo ho insistito di più sulle emozioni dei protagonisti legate a queste immagini interne portatrici di ricordi e di dolori passati. Nel romanzo Kris è combattuto fra l’uccidere questa figura che torna e che lui ama tantissimo e il restare con lei. Nello spettacolo ho creato una spaccatura fra Kris che vorrebbe dare vita un rapporto vero con questa creatura e gli altri due scienziati che la rifiutano a prescindere in quanto estranea.

In generale, la nostra percezione è fondamentale per stabilire delle relazioni con gli altri: iI primo contatto con l’altro può essere straniante ma bisogna cercare un confronto, una dialettica propositiva con le persone. La paura dell’Altro porta a facili soluzioni, mentre la realtà è molto più complessa di come vogliono farci credere. In questo senso la ricerca di Anonima Sette parte dall’individuo e arriva al sociale.

Questa è una società malata e sta peggiorando sempre di più. Ciò che è successo al sindaco di Riace, a livello politico è grave quanto l’omicidio Matteotti. La situazione è gravissima e la cosa che mi terrorizza più di tutti e mi fa essere pessimista è il fatto che a molti di noi sta bene, siamo pronti sui social a commentare ma poi rimaniamo immobili, senza sentire l’urgenza di agire. Da quello che si legge sui social media ma anche quando ascolti i discorsi al bar, la sensazione è che ci siamo persi l’umanità per strada. Dieci anni fa un bambino che moriva in mare era una cosa molto grave e “sacra” come lo era la sepoltura del fratello Polinice per Antigone. Non serve una legge per sapere che cosa sia l’umanità e io penso che noi la stiamo perdendo.

Tutto quello che accade è una conseguenza coerente di questo. Soltanto a settembre c’è stato il 20% dei morti in più nel Mediterraneo perché abbiamo chiuso i porti ed è allucinante che nessuno si indigni per queste cose. Mi sembra chiaro che il rapporto con l’altro è difficile e conflittuale, però bisogna trovare una criticità vera nelle cose: andando avanti diventa tutto o bianco o nero soprattutto quando la realtà è molto complessa. La strage di semplificazione che stanno facendo sul senso delle cose ti obbliga a dover prendere delle posizioni senza problematicità: o sei con loro, o sei contro di loro, come col fascismo. D’altronde il raffreddamento totale di tutti i rapporti non può che portare al fascismo.

Anonima SetteBLUE DESK

presentano

IL PIANETA

scritto e diretto da Giacomo Sette
da Solaris di Stanislaw Lem
musiche originali di Luca Theos Boari Ortolani

con
Benedetta Rustici
Simone Caporossi
Ivano Conte

disegno luci
Luca Pastore
produzione creativa
Simone Amendola
assistente alla regia
Gemma Cossidente
comunicazione
Chiara Preziosa

Concedere tempo. La residenza artistica targata Settimo Cielo

Concedere tempo. La residenza artistica targata Settimo Cielo

Settimo Cielo
Gloria Sapio e Maurizio Repetto

In un’epoca in cui il fuggevole incedere della vita fa scivolare il quotidiano in una danza di ritmi battenti, concedere del tempo è un atto generoso. Al Teatro La Fenice di Arsoli, la dilatazione temporale è tutta dedicata agli artisti. Gloria Sapio e Maurizio Repetto, direttori della residenza artistica Settimo Cielo, impegnati da più di vent’anni in progetti artistici, di produzione, programmazione e formazione in campo teatrale, stabilendosi nel cuore della Valle dell’Aniene, hanno decretato la propria mission: destinare energie e risorse alla ricerca e ai processi artistici.

Le numerose attività portate avanti da Settimo Cielo – che comprendono, oltre ai percorsi di residenza, laboratori, spettacoli e attività formative –hanno riunito una comunità di artisti e cittadini, riuscendo a tessere un forte legame con il territorio. Nata come associazione culturale, divenuta residenza artistica e dal 2018 parte, insieme a Twain Centro Produzione Danza, Ondadurto Teatro e Vera Stasi, del Centro di Residenza multidisciplinare del Lazio Periferie Artistiche, Settimo Cielo crede nella contaminazione generazionale, offrendo la propria esperienza ai giovani talenti della scena nazionale.

In tale direzione muove anche la costituzione dell’organico, di cui è entrato a far parte il drammaturgo e regista Giacomo Sette che in questa intervista, insieme a Gloria Sapio e Maurizio Repetto, racconta l’esperienza di Settimo Cielo.

Ragionando su una linea progettuale che parte dalla ricerca sulla storia del costume popolare e i mezzi di comunicazione di massa, per arrivare alla crescita dei luoghi attraverso le pratiche spettacolari, qual è stata l’evoluzione di Settimo Cielo dalla sua costituzione fino al 2015, quando il Teatro La Fenice di Arsoli è diventato una Residenza Artistica Nazionale?

Gloria Sapio: Settimo Cielo nasce da un desiderio di autonomia progettuale mio e di un gruppo artisti. Le proposte ruotavano intorno a un repertorio, un percorso drammaturgico e di ricerca portando avanti da me e Paola Sambo, con cui abbiamo a lungo formato un duo artistico. I nostri spettacoli erano profonde immersioni nella storia del costume, condotte anche attraverso il canto. 

Tutto aveva un profondo legame con la nostra condizione di donne, com’è stato per il nostro primo spettacolo, Un bacio a mezzanotte, costruito attraverso delle lunghissime sedute in emeroteca, con uno studio sulle riviste di fine anni ‘50 e ‘60. L’ultima residenza che abbiamo ospitato quest’anno è stata quella di Giulia Trippetta, con un progetto dal titolo La moglie perfetta che indaga, proprio attraverso gli stessi materiali da noi utilizzati, il problema del femminile. Questo è stato l’inizio di Settimo Cielo, percorso che ho condiviso con Paola Sambo per dieci anni. 

Ho sempre desiderato dedicare uno spazio alla nostra associazione e ciò è avvenuto quando si è presentata l’occasione di Officina Culturale, un progetto promosso dall’ex Assessore alla cultura della Regione Lazio, Giulia Rodano, rivolto a compagnie senza una sede che andavano a radicarsi in un luogo. Alessandro Berdini, direttore di Atcl Lazio, fu molto lungimirante e ci offrì la possibilità di portare avanti il nostro progetto nel territorio in cui ci troviamo oggi, che era già stato attraversato dal circuito. 

Nel frattempo, anche Maurizio Repetto era entrato a far parte dell’associazione come collaboratore e socio ed entrambi ci sentimmo molto stimolati da questa avventura. Anche prima di approdare in questi luoghi, come compagnia abbiamo sempre avuto la volontà di non fermarci allo spettacolo, aprendo ad attività collaterali. Quando siamo arrivati nel territorio della Valle dell’Aniene, abbiamo utilizzato questa peculiarità del gruppo moltiplicando le attività proposte sul territorio.

La fascinazione per il progetto proveniva dall’aver avvertito di poter avere una funzione. Al successivo progetto di Officina Culturale abbiamo stabilito la nostra sede in sette piccoli comuni della Valle dell’Aniene pur non avendo ancora un luogo fisico. Nel 2014, abbiamo iniziato a cercare un luogo che ci potesse accogliere, trovando una sponda nel Sindaco neoeletto di Arsoli, che ci ha affidato il Teatro La Fenice di Arsoli che era stato già oggetto di una ristrutturazione ma mancava di qualsiasi dotazione tecnica.

Atcl è stata da subito al nostro fianco per aiutarci a organizzare una programmazione. Da officina culturale siamo diventati quindi una Residenza Artistica e dal 2018 siamo parte di Periferie ArtisticheCentro di Residenza multidisciplinare del Lazio insieme ai partners TWAIN Centro Produzione Danza, Ondadurto Teatro e Vera Stasi.

Il radicamento nei luoghi che ospitano la residenza emerge dalle attività multidisciplinari che proponete, ed è, tra i vai obiettivi, finalizzato alla diffusione della cultura dello spettacolo dal vivo in zone decentrate. Qual è il vostro legame con il territorio e con la comunità e in quali azioni si sostanzia questa relazione?

Maurizio Repetto: Il territorio così come il teatro, la letteratura, la lingua è qualcosa di vivo che muta nel tempo. Da quando siamo giunti qui fino ad oggi sono cambiate tante cose, anche il nostro rapporto con il territorio si è modificato. Prima del nostro arrivo nella Valle dell’Aniene non c’era un teatro attivo che offrisse una proposta culturale organica di spettacolo dal vivo. 

Abbiamo fin da subito trovato una comunità molto disponibile e anche molto interessante, che ci ha dato modo di venire a contatto con un mondo rurale, che i più anziani amavano raccontarci e che mano a mano è andato dissolvendosi, ma da cui abbiamo tratto molta ispirazione. Non abbiamo aperto il nostro teatro qui proponendo la nostra idea di programmazione, abbiamo piuttosto coinvolto la comunità nella costruzione di spettacoli che parlavano di loro.

Ciò ha fatto sì che, intorno a Settimo Cielo, si creasse a sua volta una comunità di persone interessate sempre di più al discorso dello spettacolo, della costruzione della scrittura, della regia, della memoria. Questa nostra attività ha formato uno zoccolo duro di spettatori che poi si è riversato nel sistema del Teatro di Arsoli e per cui andare a teatro è diventata una consuetudine. 

Di questo, hanno beneficiato anche le residenze poichè queste persone che prendevano parte in maniera trasversale ai percorsi laboratoriali e alle proposte artistiche di Settimo Cielo hanno manifestato grande curiosità per il processo di creazione, potendo interloquire direttamente con gli artisti. Peraltro, fin da subito abbiamo proposto al nostro pubblico spettacoli di artisti di grande valore ma molto spesso sconosciuti al pubblico vasto, e devo dire che la nostra proposta ha vinto. Questo per dire che gli spettatori si abituano alla qualità se gli viene offerta. 

Rispetto al progetto di Residenza Artistica, La Fenice di Arsoli è un luogo che, fedele all’attività di scouting di giovani talenti, ospita e supporta il processo artistico di artisti e compagnie. Che valore ha, oggi, e ancor di più in un momento di affanno per il settore dello spettacolo, investire sulla ricerca?

Gloria Sapio: Crediamo molto nelle contaminazioni tra generi e linguaggi ma crediamo soprattutto nella contaminazione tra generazioni. Abbiamo aperto le nostre attività e le nostre progettualità anche agli under 30, incrementandone la presenza anche in virtù della partecipazione ai bandi. Questa operazione assume per noi un valore rilevante sia perché ci permette di conoscere giovani artisti e sostenerli, sia perché pensiamo che quando si incontrano più generazioni, senza prevaricazione da parte di chi ha maggior esperienza, possano prodursi dei risultati inaspettati.

Maurizio Repetto: L’esperienza del centro di residenza, che ovviamente ha ampliato le possibilità di accoglienza, ci ha anche consentito di specializzarci: eravamo soliti ospitare anche la danza contemporanea, pur non avendo uno spazio del tutto conforme tecnicamente alle necessità, ma che adattavamo in modo che i danzatori potessero usufruirne al meglio. 

Oggi, godendo del sostegno dei nostri partner, possiamo offrire agli artisti la residenza che meglio si confà alla tipologia di intervento artistico e, nel caso della danza ad esempio, Twain è il maggiore riferimento. Per quanto riguarda Settimo Cielo, oltre a portare avanti i generi teatrali e le ricerche artistiche che ci sono più vicine, lasciamo sempre aperto uno spiraglio, ospitando anche il teatro di figura, la musica, figurando quindi tra le poche residenze in Italia che consentono un percorso di ricerca multidisciplinare. 

Giacomo Sette: Sono entrato in contatto con Settimo Cielo attraverso una residenza durante la quale fui ospitato come dramaturg. La prima cosa che mi colpì fu la cura che Gloria e Maurizio dimostrarono di avere nei confronti del mio percorso artistico, mettendo a disposizione, anche da un punto di vista tecnico, tutto ciò di cui avessi bisogno. Dal 2018 il rapporto è diventato sempre più profondo. Venni richiamato per scrivere e dirigere un testo, via via me ne sono stati proposti altri, avviando il processo di inserimento nell’organico di Settimo Cielo.

Venivo trattato come drammaturgo e regista, quindi esattamente per ciò che volevo essere, una cosa che dovrebbe essere normale ma che non accade molto spesso. Solitamente si investe sui giovani convincendoli del fatto che il loro sia un percorso che, prevedendo una crescita, può comprendere delle battute d’arresto. Poi, al primo errore intercorso si tende a scartarli. Gloria e Maurizio, invece, hanno una visione molto più prospettica e questo mi ha davvero conquistato.

Il rapporto intergenerazionale è molto importante, soprattutto in un’età delicata come la mia, quella dei 30 anni, perché consente di confrontarsi con un mestiere, con una conoscenza completamente diversa dalla propria e con un’esperienza decisamente maggiore

Soffermandoci ancora sulle residenze, facendo un bilancio di questa prima triennalità che volge al termine, quali ulteriori azioni ritenete necessarie per lo sviluppo del comparto relativo alle residenze artistiche?

Gloria Sapio: Uno dei problemi principali è quello del consolidamento dell’esperienza progettuale, che corre sempre il rischio di essere parcellizzata. Quindi certamente è necessaria una maggiore garanzia di continuità.

Maurizio Repetto: Il secondo tema riguarda il garantire risorse economiche utili a portare avanti una residenza artistica che, oltre a un sostegno tecnico, assicura vitto, alloggio, tutoraggio e sostegno alla produzione. Il costo totale per ogni singola residenza diventa considerevole. Necessaria sarebbe inoltre un’azione del Ministero volta a inserire i giovani che affrontano il percorso di residenza nei circuiti di distribuzione, dando loro modo di mostrare gli esiti del proprio lavoro. Ad esempio, i teatri che sono predisposti a ospitare progetti relativi alla nuova drammaturgia, dovrebbero interloquire maggiormente con i centri di residenza.

Abbiamo aperto un dialogo con Romaeuropa Festival che ha inserito in programmazione Fabiana Iacozzilli che aveva precedentemente portato avanti una residenza artistica da noi con lo spettacolo La classe, arrivato addirittura a essere candidato al Premio Ubu. In conclusione direi che occorrono più risorse, un maggior coordinamento e una garanzia di solidità per i progetti.

Nel nostro sistema teatrale odierno (considerata o meno la pandemia), qual è secondo voi il ruolo di una residenza artistica e qual è, in tal senso, la vostra mission?

Gloria Sapio: La residenza artistica deve certamente impegnarsi in un’opera di scouting, dando sostegno agli artisti giovani senza però dimenticare gli over 35 che molto spesso, avendo meno possibilità, tendono all’abbandono della professione. Anche questo è un fenomeno che va assolutamente arginato. Fondamentale è poi il rapporto col territorio, che quasi sempre nel caso delle residenze è un territorio periferico che resta fuori dai circuiti ufficiali. 

Questo consente all’artista un incontro con un pubblico genuino, non costituito solo da addetti ai lavori, che riesce a restituire un feedback senza remore. Il bacino di pubblico che si è creato intorno a Settimo Cielo è una delle grandi fascinazioni che ha la nostra residenza, muovendosi su un doppio arricchimento: per gli artisti e per il territorio che cresce acculturandosi. 

Maurizio Repetto: Le residenze artistiche hanno anche la possibilità di dare grande valore al tempo. Avere individuato nelle zone periferiche, negli spazi extraurbani o nella provincia le sedi ideali per le residenze non è una scelta casuale: l’isolamento cui si sottopongono gli artisti è preziosissimo proprio perché riduce al minimo le distrazioni. Essere in una bolla temporale in cui potersi dedicare completamente alla creazione, al proprio progetto è veramente impagabile.

Giacomo Sette: Oggi più che mai c’è bisogno di un’esperienza del genere. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, la mission di una residenza diventa anche quella di individuare artisti meritevoli e “salvarli”.  L’esperienza che Gloria e Maurizio mettono al servizio degli artisti, consente anche di creare un centro di ricerca veramente strutturato che permetta a molti talenti di non perdersi.

Si tratta di focalizzare delle forze artistiche che spesso non hanno le spalle abbastanza coperte per farcela e che invece possono nascondere dei tesori. Questa è una caratteristica molto esclusiva di Settimo Cielo e della residenza artistica del Teatro La Fenice di Arsoli, che va sostenuta stimolata, potenziata e perseguita.