Intervista all’attore Alessio Esposito, vincitore del Premio Speciale Flaiano

Intervista all’attore Alessio Esposito, vincitore del Premio Speciale Flaiano

Con un parterre di grandi nomi e i protagonisti di rilievo dalla letteratura al teatro, dal cinema al giornalismo, si è svolta domenica 7 luglio in piazza Salotto a Pescara la cerimonia di consegna del Pegaso d’oro in occasione della 46esima edizione dei Premi internazionali Ennio Flaiano. Tra le personalità presenti  e premiate, tra cui Piera Degli Esposti, Antonello Avallone, Gabriele Lavia, Jacopo Gassman, c’era un giovane talento under 35, l’attore isernino Alessio Esposito. La giuria teatro composta da Giovanni Antonucci, Gianfranco Bartalotta, Antonio Calenda, Masolino D’Amico e Marco Praticelli ha conferito ad Alessio Esposito il Premio Speciale. Le ragioni di tale scelta sono state motivate con la breve ma efficace definizione che ha accompagnato l’importante riconoscimento.“Promessa e certezza del teatro italiano”. 

Il curriculum di Alessio Esposito è ricco di esperienze di incontri; ha abbracciato i classici del teatro ed ha esplorato drammaturgie nazionali e contemporanee, attraversandole. Attore trentenne, con uno spiccato impegno nel sociale e una personalità poliedrica vissuta  e condivisa con il Gruppo della Creta, la compagnia teatrale con cui Esposito è impegnato a progettare e e a organizzare nuove attività artistiche. 

46esima edizione dei Premi internazionali Ennio Flaiano
46esima edizione dei Premi internazionali Ennio Flaiano

Qual è stata la reazione a caldo nel momento in cui ti è stata comunicata la notizia del Premio Speciale Flaiano? Qual è la riflessione a posteriori a pochi giorni dalla consegna del Pegaso d’oro ? 

Sicuramente è stata una sorpresa perché non me l’aspettavo e non sono per niente abituato a momenti e a premi così importanti. È vero, ho vinto il Fringe quest’anno, però non è un evento della stessa portata. Il Premio Flaiano è stato straordinario anche perché c’erano decine di personalità come Gabriele Lavia, Piera Degli Esposti. Mi sono trovato in mezzo a dei mostri sacri del Teatro ed è stata una bella, grande soddisfazione. Nonostante ciò, anche dopo una situazione del genere, non ho modificato le mie abitudini. Il giorno dopo ero al teatro ad aiutare i miei compagni e a fare il lavoro di manovalanza di sempre. Non è cambiato assolutamente nulla in me: sono rimasto fedele a me stesso. 

La motivazione per l’attribuzione del Premio Speciale, nella sezione teatro, recita: «Giovane trentenne, promessa anzi certezza del Teatro Nazionale». Quanto una definizione può allargare o, all’opposto, restringere i confini di una persona, di un attore? Che importanza hanno per te le parole?

Come diceva Nanni Moretti: «Le parole sono importanti». Ogni singola voce ha la sua rilevanza. I miei amici amano chiamarmi “cumpà”. Cumpari, compare. Un termine che per me è importantissimo. È innanzitutto un codice affettuoso che ricorda altri tempi. Ormai il dialetto si è un po’ perso, perciò mi riporta un po’ ad un’epoca passata. Mi dà un senso di vicinanza con i miei compagni, con Cristiano (Demurtas, ndr) che ha mantenuto i vari nomignoli, dall’inglese all’italiano, con cui ci siamo sempre chiamati. Ogni singola parola ha la sua valenza soprattutto nel mio mestiere dove sono fondamentali. Ogni nome, ogni definizione ha un peso. Ho lavorato tanto sulla tecnica, sui testi, come ogni attore dovrebbe fare. Poi ovviamente le parole possono anche essere distrutte, massacrate, ma bisogna avere sempre coscienza di cosa si tratta altrimenti non si può pretendere di fare questo lavoro.

Hai iniziato a recitare ancora prima di diplomarti nel 2015 presso l’Accademia Internazionale Di Arte Drammatica del Teatro Quirino a Roma. Qual è la tua opinione su cosa è importante all’interno di un percorso formativo?

Naturalmente lo studio e la tecnica sono fondamentali per un attore, ma credo che stare sul palco lo sia di più. In questo senso, esordire in teatro a 18 anni, nella piccola provincia da dove provengo, mi ha aiutato molto. Da quel momento in poi ho sentito la necessità di andare fuori. A Roma ho iniziato a incontrare tante persone, all’interno della scuola dell’Accademia. A confrontarmi con ognuno di loro. Fare più conoscenze possibili è importante per saper distinguere e selezionare cosa vuoi imparare e da chi. Serve anche per sviluppare la capacità di saper dire di no a quei progetti dove non c’è affinità. Più cose fai e più ti rendi conto cosa è bene fare e cosa no. 

C’è un dibattito in atto che sembra mettere in contrapposizione il teatro sociale che salva dall’emarginazione, che incontra le persone nei contesti urbani e periferici contro un teatro professionistico, concentrato a salvaguardare tradizione e competenze piuttosto che misurarsi e sporcarsi con i cambiamenti della società. Cosa ne pensi?

Ho avuto la fortuna e la possibilità di praticare il teatro sociale facendo spettacoli all’interno di case circondariali come quella di Isernia, quella di Santa Maria Capua Vetere, a Rebibbia con la sezione teatrale e non quella cinematografica. Abbiamo portato uno spettacolo in scena al Teatro Argentina con la regia di Valentina Esposito e Laura Andreini. Il teatro sociale credo abbia ancora una certa importanza. Anche noi con il nostro gruppo (Gruppo della Creta, ndr)  cerchiamo di farlo. Un paio di anni fa abbiamo realizzato uno spettacolo itinerante, Orientheatre: giro di vite, per il Festival Labirinto. Attori e spettatori si orientavano ed effettuavano un percorso per le strade del quartiere di Torpignattara. Si partiva dalla struttura chiusa, dalle quattro mura, e si usciva fuori dove gli eventi accadevano, nella vita reale, per poi ritornare alla fine all’interno del Teatro Studio Uno. 

Adesso ci sono parecchi progetti, tanti bandi che nascono con l’obiettivo di riqualificare zone e quartieri periferici in tutte le città, da Roma a Milano, a Torino. C’è il bisogno di ritornare un po’ al passato, quando c’era tanta di questa attività. Non credo che sia finito tutto, ce n’è ancora bisogno. Anche il teatro classico, di sala, è giusto che esista, non lo vedo come una cosa deleteria. Un testo che parla di società, dei costumi, portato all’interno delle quattro mura può diventare una forma di teatro sociale quando riguarda tutti noi e non è una storia  fantastica, inventata. 

Generazione XX


Quali sono stati i momenti più significativi che hai vissuto nella stagione teatrale conclusa da poco?

Ho fatto vari spettacoli sono stato fortunato perché quest’anno ho lavorato parecchio e sono molto contento. Non ho un momento in particolare, quasi tutti. La particolarità di quest’anno è che ogni lavoro fatto è stato bello, ha avuto un buon successo quindi è stato davvero un anno positivo già con Generazione XX  a novembre, qui a Roma, poi con L’attesa con cui abbiamo vinto i premi miglior regia, miglior attrice e miglior attore (Alessio Esposito, ndr) al Fringe Festival. E poi le opere liriche, I Tre Barba. Hanno avuto un successo enorme piacciono alle famiglie soprattutto ai bambini. Questa è la cosa più bella: quando al teatro in prima fila ci sono dei bambini che ascoltano con attenzione, sorridono e si divertono. Percepire lo stare bene di tutte quelle persone che mi sono trovato davanti, sentire il loro stato di benessere a teatro. 

Come attore e come uomo che vive in una società senti l’urgenza, la necessità di un maggiore impegno in un momento storico come il nostro carente di umanità e sensibilità? 

Spesso mi ritrovo a pensare, a riflettere sul perché facciamo il nostro mestiere. Questa è una domanda che ognuno di noi dovrebbe porsi. Perché faccio l’attore? Perché scrivo? Che cosa voglio, vogliamo dire?  Queste domande credo che siano collegate agli aspetti etici, politici, sociali e culturali. Tutto quello che diciamo muove dalla necessità di dirlo? Oppure perché speriamo di cambiare qualcosa, aiutare le generazioni future, noi stessi che viviamo un presente così martoriato?

La risposta a tutte queste domande potrebbe arrivare da una rivoluzione culturale: a partire da tutte le forme di arte, dalla letteratura alla pittura, non solo nel teatro. Penso utopicamente che un giorno si scenderà in piazza a milioni per farci sentire. Credo che stia rinascendo la  voglia di fare manifestazioni, alzare la voce, però non è ancora abbastanza. Siamo ancora un po’ troppo silenziosi, soprattutto noi italiani che tendiamo a chiuderci nel nostro piccolo guscio e a lamentarci troppo. Invece c’è bisogno di agire. Fare vuol dire reinventare: bisogna ritornare ad essere geniali perché non ci sono più gli intellettuali. Tutto è finito, morto, a partire da una cosa semplicissima che è quella che dovrebbe nascere dal cuore, dalla pancia, ovvero l’umanità. La cosa peggiore di tutte è che non siamo più umani, non ci guardiamo più negli occhi. Con l’avvento dei social media, di internet, la nostra modalità di azione è diventata quella di scrivere una frase più o meno banale nella nostra bacheca. In questo modo crediamo che si possa risolto tutto, invece non funziona così. 

Generazione XX: Apoteosi Pop. Intervista ad Anton Giulio Calenda, tutti i colori di un teatro che brulica di vita

Generazione XX: Apoteosi Pop. Intervista ad Anton Giulio Calenda, tutti i colori di un teatro che brulica di vita

Torna in scena a Roma, il 29 Maggio al Teatro Vittoria, per la rassegna “Salviamo i talenti”, Generazione XX, uno spettacolo volutamente “sgrammaticato e colorato”, come lo definisce Anton Giulio Calenda, l’autore del testo. I vari personaggi, molti dei quali hanno i nomi dei colori, sono interpretati dagli attori del Gruppo della Creta. Alessandro Di Murro ha firmato la regia di quello che è uno spettacolo ricco di contenuti e suggestioni, tanto da non sembrare un’opera prima. Ogni cosa si muove alla perfezione, con i tempi giusti, con un ritmo e una narrazione incalzante ed è evidente l’amalgama tra le attrici e gli attori del cast.

La compagnia è formata da giovani attori che si sono formati presso la Nuova Accademia Internazionale di Arte Drammatica del Teatro Quirinetta di Roma. Amano definire il loro Teatro indipendente e collaborativo. Visione e concretezza in parti uguali: la scelta che rivendicano con dignità Jacopo Cinque, Cristiano Demurtas, Alessandro Di Murro, Alessio Esposito, Pamela Massi, Giulia Modica, Laura Pannia, Lida Ricci e Bruna Sdao vuole posizionarsi fuori dagli schemi del teatro ufficiale. Ed è sicuramente un bene ritrovare un sussulto di emancipazione e di libertà ancora oggi, in tempi di omologazione e di crisi d’identità. Il Festival Labirinto è la creatura e la punta dell’iceberg del Gruppo della Creta, un luogo concepito nel 2016 dove albergano cultura e creatività, la caratteristica più manifesta di cooperativa di artisti, materia umana malleabile come la creta appunto.

Un vortice di storie quello di Generazione XX dove gravitano due strane coppie Linda e Giacomo, da una parte, la vecchia paralitica e il figlio obeso dall’altra. Interagiscono più o meno direttamente con due presenze ingombranti quella della politica rappresentata dagli onorevoli Romo e Meringuer e quella della televisione con Bianco “tutti i diritti riservati”. Unico canale e show televisivo, il Talent of Nation. Bianco come uno spettro costante, rumore bianco o white noise. Nero come una voce narrante che cerca di definire e misurare i segmenti di non-vita. Un grande vuoto, pesante come una zavorra, un non-luogo che è la nostra società con il suo delirio bulimico di hashtag, slogan di pubblicità, lavori part-time, ragion di stato, discoteche e cocktails, soldi e altro ancora. Una non dimensione dove i concetti di tempo e vita scorrono veloci, dove la moralità e l’immoralità si esplicitano con i paradossi. C’è sempre qualcuno che rischia di morire e qualcuno che muore sacrificandosi, ma quello che sembra un margine di libertà appare come una tecnica di persuasione occulta e ingannevole. Il resto lo spiega Anton Giulio Calenda che abbiamo raggiunto e intervistato.

Quali sono state le circostanze in cui si sono manifestate e sviluppate l’inclinazione alla scrittura e la dimensione di autore teatrale?

La mia è una famiglia di artisti, più precisamente di teatro. Mio padre è un regista, mia madre è un’attrice. Quando ero piccolo, vivevo con mia nonna perché i miei genitori lavoravano in giro per l’Italia, quando poi ritornavano mi portavano con loro. Diciamo che questa dimensione artistica è sempre stata presente nella mia vita. La cosa strana è che, a differenza di molti altri, non ho esordito fin da giovanissimo. Ho avuto un’educazione borghese, nel senso più bello, tranquilla. C’è stata una sorta di dicotomia, da una parte l’educazione e dall’altra il teatro che mi facevano vedere e conoscere i miei. Diventato grande, sono venuto a Roma da Riccione, dove sono nato, e da quel momento in poi ho iniziato a fare l’attore, prima negli spettacoli con mio padre.

Parallelamente portavo avanti gli studi, mi sono laureato in Scienze Politiche, e ho unito ciò che sentivo nelle lezioni universitarie con la scrittura per il teatro che è sorta, è sgorgata da sé . Avevo cominciato a comporre delle poesie, piccole cose. Volevo scrivere un romanzo, ma era troppo grande come impresa. Il tutto è confluito nel teatro. Diciamo che questi due binari alla fine si sono uniti e Generazione XX per me rappresenta questa unità: collegare il teatro con delle cose che non sono prettamente teatrali,che provengono dall’esterno. Esperienze vissute attraverso un mio percorso che è un po’ meno di quello canonico e di formazione teatrale tradizionale. Pur essendo figlio di artisti, non ho frequentato scuole o accademie. Ho voluto portare all’ennesima potenza l’essere un po’ “sgrammaticato”. Ciò credo raggiunga la sua apoteosi in questo spettacolo pop, un po’ irregolare, molto colorato e che va a picchiare sui temi a me più cari.

E le esperienze più significative?

Le esperienze più significative che mi fanno arrivare fino a Generazione XX sono state sicuramente l’ambiente della mia famiglia, i miei studi e anche il mio essere sempre tanto interno e molto esterno al Teatro. Ovviamente si tende ad odiare le assenze dei propri genitori e ad amare la vicinanza, le loro presenze. Da questa sorta di scissione è nata una cosa che è molto teatrale e al tempo stesso è anche l’antitesi stessa del Teatro. Paradossalmente è la prima cosa con cui sono riuscito ad esordire, ma è venuto fuori come un riassunto di quelle che sono state tutte queste tappe.

Quello che emerge da Generazione XX è un disagio generazionale, una proiezione verso il futuro compromessa dal peso ingombrante del passato, ma non si tratta forse di vivere in una sorta di eterno presente?

Sì è un ritratto esatto quello che stai evidenziando. Sento che in Italia soprattutto la crisi generazionale sia diventata più acuta oggi. Ho avuto modo di conoscere e visitare altri paesi che noi ignoriamo, come le Filippine, l’Indonesia, posti che noi ancora reputiamo “Terzo Mondo”. In realtà lì i giovani sono ottimisti, il tasso di disoccupazione è basso, sanno fare tante cose e sono imprenditori, anche nel piccolo. Ho voluto parlare degli anni ’70 perché secondo me se non si elaborano certe ferite, che sono diventate zavorre, il sistema politico e il dibattito in seno alla popolazione civile rimangono stagnanti, così come la cultura e l’arte.

Di conseguenza, se non ci riappacifichiamo, il futuro diventerà ancora più difficile. Vero è che l’Italia nasce da ferite, siamo stati gli ultimi in Europa a raggiungere l’unità, l’indipendenza ancora oggi è messa in dubbio, ci sono tante fratture tra Nord e Sud, tra Chiesa e Stato laico, abbiamo avuto un Partito Comunista e un Partito della Chiesa entrambi fortissimi, siamo uno dei paesi più peculiari in Europa però se questi argomenti continuano a rimanere slogan televisivi, se non c’è una discussione, un approfondimento è difficile guardare al futuro, è difficile crearsi un’identità. La crisi giovanile è infatti una crisi d’identità.

Il futuro rielaborato in termini di sviluppo tecnologico ha sacrificato l’estensione dell’umanità della cultura dell’arte?

In teatro c’è una specie di sfasatura da quando si scrive a quando si va in scena. Ho cominciato a scrivere Generazione XX circa tre anni fa, quando ero più piccolo. Avevo 23- 24 anni adesso vado per i 27. Un po’ la mia visione è cambiata, al tempo ero molto più nichilista, Adesso sono riuscito ad adeguare e ad avvicinare il concetto della tecnologia a un mio benessere più che a un malessere ideologico. Certamente siamo di fronte a degli scenari che da una parte sono inquietanti, ma dall’altra sono curiosissimi e vanno molto più avanti di quanto può fare il mio testo teatrale. Quando scrivevo non pensavo che le elezioni si sarebbero giocare, di lì a breve, solamente su Facebook. In questi giorni, in Cina hanno presentato il primo telegiornale con un anchorman robot, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale e lì sono più avanti di noi. Al tempo ero molto pessimista e questo si vede tanto in Generazione XX.

Oggi serve una forte identità personale, come anche della società e della politica. Per governare certe cose e far sì che vadano a favore di tutti. Ogni grande innovazione ha causato benefici e problemi, a volte tragedie. La gente si lamentava dei treni, delle macchine e in entrambi i casi ci sono stati dei vantaggi per tutti. Pensiamo anche a quanto possa far discutere il nucleare. Che l’umanità sia un po’ schiacciata è vero. Le prime cose che noi conosciamo possono sembrare negative, in realtà ci sono anche molti aspetti positive, tutto sta a come vengono gestite. Quello che si vede nel nostro spettacolo è l’uso negativo, gli slogan, il rumore bianco che si sostituiscono al dibattito politico, al guardarsi negli occhi, al parlare.

É un tema di grande attualità quello sull’identità: individuale e personale da una parte, di gruppo e collettiva dall’altra. Quali sono le tue riflessioni a riguardo?

In Generazione XX è assolutamente presente questo, le due cose credo siano come un cerchio che si autoalimenta al suo interno. Noi formiamo la nostra identità in un gruppo e il gruppo è fatto di singole identità.. Oggi viviamo un momento dove, secondo me, si parla di identità in una maniera assolutamente sbagliata perché la si intende come una barriera, come un confine. Io trovo che l’uso che si fa dell’identità è paralitico, vuole rispolverare il vecchio sotto la maschera finta del nuovo. L’identità è fondamentale ma non dobbiamo aver paura di modificarla in qualsiasi momento, non deve essere intesa come un limite.

Anche perché in Italia spesso ci vantiamo di essere il paese più bello del mondo ed in effetti è vero perché abbiamo una penisola bellissima. Sarebbe giusto però assumersi, come dicono i politici di Generazione XX, non solo gli onori ma anche gli oneri. Quello che arriva al di là del mare non deve alimentare una paura. Credo che potremmo essere ancora molto più forti, più avanti, più vivi e anche più ottimisti se riuscissimo a capire che superare le nostre fobie significa cogliere un’opportunità. L’identità non viene Lesa, semmai accresciuta.

Quel cerchio di cui parlavo può trovarsi all’interno di noi stessi, all’interno della nostra società, di un continente. I problemi a cui noi facciamo riferimento non possono essere considerati come vediamo le cose in TV, come spettacoli, diventerebbero piccoli e parziali. Se la gente si sposta è perché innanzitutto sono esseri umani e in tutti i secoli è avvenuto così,ma succede anche perché noi abbiamo inquinato la Terra da molto prima di altri paesi e facciamo parte di alleanze – giustissime, non voglio fare quello che dice “No USA”- che hanno portato guerre, distrutto patrimoni giganteschi. Per il nostro benessere, abbiamo spesso sfruttato certi territori, certi paesi, la conseguenza di ciò è che oggi ci sono dei flussi migratori che sono diventati un fenomeno dalle vaste proporzioni.

Ovviamente, in un paese dove tutto funziona, questi esodi non spaventerebbero così tanto. Il nostro Paese, purtroppo, è molto complicato e la gente vede difficoltà dappertutto. Bisognerebbe con grande fatica, con grande calma, far capire alle persone che questo circolo può diventare da vizioso a virtuoso. Stare bene noi è fare stare bene gli altri. Ci sono degli esempi, Riace è un caso d’identità totale, accresciuta e non lesa, ma anche un esempio di buona politica. Uno sguardo al futuro, fatto sul campo, sul territorio, che fa star bene tutti e che non è fatto come uno slogan.

Quali sono state e sono le sinergie, lo scambio di esperienze e di contatti umani con la compagnia Gruppo della Creta e con il regista Alessandro Di Murro?

Ho conosciuto il Gruppo della Creta attraverso due esperienze. La prima è stata una sorta di antipasto, ci siamo trovati nel 2015 io e Alessandro Di Murro a lavorare nello stesso spettacolo. Era La Passione, con la regia di mio padre, già messo in scena varie volte. In quella occasione l’aveva ripreso, io facevo la parte di San Giovanni e lui San Pietro. Successivamente ci siamo un po’ persi di vista, io mi dovevo laureare e avevo scritto un testo di 200 pagine. La Compagnia mi invitava a vedere i loro spettacoli come nel caso di “Cassandra” o come con il Festival Labirinto grazie al quale sono diventati un po’ più conosciuti, soprattutto a Roma. Piano piano il nostro dialogo si è intensificato.

A un certo punto, ho proposto ad Alessandro di leggere il mio testo e lui, dopo una settimana, mi ha chiesto di incontrarci poiché aveva riscontrato un grosso potenziale. Mi aveva invitato però a tagliare alcune parti. Ho risposto di sì anche perché sono un tipo che è disponibile alla collaborazione e ai suggerimenti del regista.Ci siamo messi a lavorare facendolo diventare un testo più snello e teatrale, parliamo di un anno fa più o meno. Successivamente il gruppo della Creta si è riunito ed io ho saputo successivamente che al gruppo era piaciuto molto il copione di Generazione XX ed erano disposti a lavorare.

È stato molto gratificante, abbiamo cominciato a fare dapprima un laboratorio, successivamente sono iniziate le prove dello spettacolo. C’è stato anche il grande aiuto di Domenico Franchi che è un maestro riconosciuto, ma per noi è stato veramente un angelo. Lui ha costruito questa scenografia importantissima che risolve tutte le varie dinamiche del testo e, infine, abbiamo beneficiato dell’apporto di due attori esterni Giulia Fiume e Federico Le Pera che ha fatto le prime edizioni di Generazione XX e che è stato successivamente sostituito da Federico Galante. Sono stati molto bene con noi, si sono inseriti alla grande, abbiamo fatto una anteprima allo Spazio, la prima nazionale è stata al Festival di Todi , adesso siamo a Roma. É stato come una palla di neve che piano piano è diventata sempre più grande e speriamo cresca ancora di più. Uno spettacolo così, per la sua vastità, merita di stare fisso in un luogo. Questa è una cosa che accomuna non solo noi, ma anche tante altre compagnie, trovare cioè i luoghi adatti ad essere teatro.

Come proseguiranno a breve termine le tue attività di storytelling e il legame con il Teatro?

Per quanto riguarda l’attività teatrale, io sono un po’ atipico, nel senso che voglio fare tante cose, talmente tante che un giorno dovrebbe essere di 72 ore. Abbiamo in progetto con Alessandro un altro testo che è l’opposto di quello che è attualmente in scena, vogliamo concentrarci su una cosa più piccola, ovviamente folle anche questa, altrimenti noi ci potremmo annoiare, scritta sempre da me con Alessandro alla regia.Non sappiamo ancora quanti e se ci saranno degli attori, perché non prevede personaggi. Vogliamo fare qualcosa molto vicino a una performance, una mise en espace. Se tutto va bene dovrebbe vedere la luce tra febbraio e marzo, siamo proiettati verso quel periodo.

Ho scritto anche altri testi che prima di iniziare a Generazione XX pensavo fossero più facilmente spendibili. Poi, però, diciamo che il tempo e i fatti mi hanno smentito. Quello che è venuto alla luce prima è stato talmente grande che ha assorbito tutte le mie, le nostre energie. Per fare un mese di prove bisognava essere pronti un mese prima. Nel frattempo spero di conoscere tante più cose possibili, lavoro nei musei, per Zètema Progetto Cultura (ente strumentale di Roma Capitale NdR) al Foro di Cesare. Mi piacerebbe fare tanto altro a teatro, non mi vedo soltanto come autore. Non mi vedo ancora come regista forse perchè ho ancora l’ombra di papà che è ingombrante, mi piacerebbe portare avanti l’attività di attore.

GENERAZIONE XX, al Teatro Sala Uno di Roma dall’8 novembre

GENERAZIONE XX, al Teatro Sala Uno di Roma dall’8 novembre

Al Teatro Sala Uno di Roma giovedì 8 novembre alle ore 21 il debutto romano di GENERAZIONE XX, di Anton Giulio Calenda. Con un cast di giovanissimi composto da Stefano Bramini, Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Giulia Fiume, Federico Galante, Laura Pannia, Lida Ricci e Bruna Sdao, regia di Alessandro Di Murro.

Lo spettacolo è una ricerca sulla comprensione delle dinamiche post-moderne di produzione di immagini e stereotipi comportamentali che plasmano l’esistenza delle nuove generazioni. GENERAZIONE XX è il risultato della riflessione fatta da una giovane compagnia teatrale che intende indagare e comprendere la propria identità storica e il proprio essere nel mondo contemporaneo. Il tutto con uno sguardo stupito e attento sulla società, dal privilegiato punto di vista della gioventù.

GENERAZIONE XX è la storia d’amore di Linda e Giacomo, “due giovani fidanzati gravati dal peso della vita”. Le crudeltà che a questi due personaggi verranno inflitte e che loro stessi si troveranno obbligati a infliggersi reciprocamente non costituiscono altro che una lente di ingrandimento volta ad analizzare il paesaggio distopico ove la trama si svolge: la “Nazione”. “Con la N maiuscola”: ci terrà a precisare Nero con cinico e beffardo scrupolo (perché commettere errori in questo carosello surreale e ipertecnologizzato non è consentito, benché la sorte di ognuno sia già scritta in maniera grottescamente prevedibile al pari dei canovacci televisivi su cui da anni si assiste incessantemente al sorgere di personaggi privi di qualsiasi sfumatura di talento). La Nazione, territorio immaginario dove l’azione si svolge, è un evidente non-luogo, eppure un altrettanto chiaro rimando alla storia politica e sociale dell’Italia degli anni settanta, quando la classe politica, in nome della salvaguardia della Democrazia, si trovò a risolvere urgenti dilemmi morali attraverso decisioni di cui ancora oggi sentiamo l’effetto ma che già allora rischiavano di risultare un mezzo così pesante da giustificare a stento il fine.

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GENERAZIONE XX

Teatro Sala Uno l’8, 9, 10, 11, 16, 17 novembre alle ore 21.00 e il 18 novembre alle ore 18.00.
Scritto da: Anton Giulio Calend
Regia: Alessandro Di Murro
Con: Stefano Bramini, Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Giulia Fiume, Federico Galante, Laura Pannia, Lida Ricci e Bruna Sdao
Musiche: Enea Chisci 
Scene: Domenico Franchi 
Costumi: Laura Giannisi
Luci: Marco Macrini
Direttore di produzione: Pino Le Pera
Una produzione: Gruppo della Creta | Fattore K | Golden Show srl – Impresa sociale, in collaborazione con Todi Festival