Amleto take away è un affresco tragicomico che gioca sui paradossi, gli ossimori e le contraddizioni del nostro tempo che, da sempre, sono fonte d’ispirazione per il nostro teatro “contro temporaneo”. Punto di partenza sono, ancora una volta, le parole, diventate simbolo più che significato, etichette più che spiegazioni, in un mondo dove «tutto è rovesciato, capovolto, dove l’etica è una banca, le missioni sono di pace e la guerra è preventiva». È una riflessione ironica e amara che nasce dall’osservazione e dall’ascolto della realtà circostante, che ci attrae e ci spaventa.
«Tutto è schiacciato fra il dolore della gente e le temperature dell’ambiente, fra i barbari del nord e i nomadi del sud». Le generazioni sono schiacciate fra lo studio che non serve e il lavoro che non c’è, fra gli under 35 e gli over 63, fra avanguardie incomprensibili e tradizioni insopportabili. In questo percorso s’inserisce, un po’ per provocazione, un po’ per gioco meta-teatrale, l’Amleto di Shakespeare. Amleto, simbolo del dubbio e dell’insicurezza, icona del disagio e dell’inadeguatezza, è risultato, passo dopo passo, il personaggio ideale cui affidare il testimone di questa indagine.
Ma l’Amleto di Amleto Take away procede anche lui alla rovescia: è un Amleto che preferisce fallire piuttosto che rinunciare, che non si fa molte domande e decide di tuffarsi, di pancia, nelle cose anche quando sa che non gli porteranno nulla di buono. È consapevole ma perdente, un numero nove ma con la maglia dell’Inter e di qualche anno fa, portato alla follia dalla velocità, dalla virtualità e dalla pornografia di questa realtà. Amleto è in seria difficoltà circa il senso delle cose, travolto da una crisi così generalizzata e profonda che mette a repentaglio storie solide e consolidate come il suo rapporto d’amore con Ofelia e il suo rapporto con il teatro. «To be o FB, questo è il problema!»
Chiudere gli occhi e tuffarsi dentro sé e accettarsi per quello che si è, isolandosi da comunity virtuali per guardare da vicino e cercare di capire la realtà in cui si vive? O affannarsi per postare foto in posa tutte belle, senza rughe, seducenti, sorridenti, grazie all’app di photoshop? Dimostrare ad ogni costo di essere felici mettendo dei “mi piaci” sui profili degli amici. Pubblicare dei tramonti, un bel piatto di spaghetti o gli effetti della pioggia tropicale, sempre tesi anche al mare, con un cocktail farsi un selfie perché il mondo sappia, dove sono, con chi sono, e come sto. Apparire, apparire, apparire, bello, figo, number one e sentirsi finalmente invidiato.
LEGGI > Amleto Take away di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
Biografia Berardi/Casolari
Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari si incontrano per la prima volta nel 2001 durante la produzione dello spettacolo Viaggio di Pulcinella alla ricerca di Giuseppe Verdi di e con Marco Manchisi: nel 2008 nasce ufficialmente la Compagnia Berardi Casolari. Tra le produzioni Briganti (2003), spettacolo vincitore del Festival Internazionale di Lugano per la sezione nuova drammaturgia; Land Lover (2009), vincitore del Premio ETI – Nuove Creatività e del bando “Principi Attivi” dell’Assessorato alla Trasparenza e cittadinanza attiva della Regione Puglia; Io provo a volare – omaggio a Domenico Modugno(2010), spettacolo di teatro – musica, pluripremiato allo “JoakimInterFest” di Kragujévac (Belgrado, SERBIA) e vincitore a Napoli del Premio Antonio Landieri come miglior spettacolo del 2011. Dall’incontro nel 2010 con Cèsar Brie nasce In fondo agli occhi (2013). A ottobre 2015 la Compagnia debutta con lo spettacolo La prima, la migliore, prodotto da ERT (Emilia Romagna Teatro) vince Last Seen 2017 di Klpteatro come miglior spettacolo dell’anno. Con Amleto take away, spettacolo prodotto dal Teatro dell’Elfo, Gianfranco Berardi vince il Premio Ubu come miglior attore 2018. A ottobre 2019 Berardi Casolari debuttano conI figli della frettolosa (ultimo lavoro, coprodotto da Teatro dell’Elfo, Sardegna Teatro, Teatro della Tosse in collaborazione con l’Unione Ciechi di Milano), uno spettacolo – progetto speciale – realizzato a partire da laboratori su piazza con utenti non vedenti e ipovedenti.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Il nuovo spettacolo I figli della frettolosa di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari affronta la questione della diversità, in particolare della cecità e del senso che ha oggi il ‘vedere’ nel nostro mondo bombardato da immagini e suoni che alluvionano i sensi forti, ovvero la vista e l’udito. Il punto di partenza di queste riflessioni è quello di un cieco, di chi guarda ma non vede, di chi sente la realtà, di chi percepisce differentemente. È un punto di vista reale, in quanto limite fisico, ed anche metaforico, in quanto condizione esistenziale.
Un’immagine e un’idea ha preso corpo in questi anni nella fantasia dei due artisti: un coro composto da persone non vedenti, con i bastoni bianchi e gli occhiali scuri, che diviene rappresentazione della nostra società, allegoria di un popolo cieco, smarrito, che vive in una condizione permanente di instabilità, di assenza di prospettive. Il progetto coinvolge infatti un gruppo di persone non vedenti ed ipovedenti che, a partire da spunti autobiografici, porta in scena insieme agli attori della compagnia un affresco del contemporaneo attraverso il quale raccontarsi e nel quale riconoscersi.
Cosa vi ha spinto a scegliere proprio il teatro come forma di espressione?
Gabriella Casolari: Per me è stata una folgorazione. Avrò avuto 13 anni e ho visto un attore dell’Antoniano di Bologna recitare nella mia scuola. Non ero mai andata a teatro in vita mia, ne avevo un’idea molto vaga, pensavo fosse una cosa antica, noiosa. Quel giorno a scuola ho visto L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello e ho pensato: “Questo è il teatro, questo è quello che voglio fare nella mia vita”.
Gianfranco Berardi: Il teatro è qualcosa che hai dentro, è l’Arte suprema. Ed è un’arte effimera, perché dura per il tempo in cui ci sei, è l’arte della presenza. Nel momento in cui tu non sei connesso e non sei presente, quel rito smette di esistere e non si potrà mai più ripetere. È un’arte eterna e sacra perché è sempre diversa pur nella ripetizione. Come nelle tradizioni sapienziali. E le tradizioni sapienziali insegnano che quello che trovi fuori è la risonanza di qualcosa che hai dentro. L’incontro con il teatro per me è stato la rivelazione di un’immagine espressiva che avevo dentro e che mi ha fatto sentire vivo.
Come è avvenuto il vostro incontro artistico?
Gianfranco Berardi: Nel 2001, alla Corte Ospitale di Rubiera, ed è stata una cosa meravigliosa, un amore a prima vista! (ridono, ndr) Avanzavamo, vestiti da personaggi dell’Ottocento, sulle assi di un palcoscenico all’interno del Chiostro dell’ex Convento di Rubiera, portando una bandiera dell’Italia, e facevamo un dialogo sulla incomunicabilità della lingua italiana. Io parlavo il mio dialetto pugliese, lei il suo dialetto modenese e le feci questa dichiarazione: “Vuoi lavorare per sempre con me finché morte non ci separi?”
Gabriella Casolari: Infatti io non ho capito, ma ho detto sì! (ridono, ndr). È stato un incontro magico, è vero. Io stavo lavorando con Marco Manchisi a una nuova produzione, Pulcinella alla ricerca di Giuseppe Verdi, e Gianfranco, che aveva conosciuto Marco durante un altro laboratorio a Taranto, venne a Modena per quel laboratorio. Marco mi aveva parlato di lui e per caso siamo capitati in coppia insieme, perché lui era del sud e io del nord. Durante la nostra prima improvisazione io indossavo un abito da sposa, ero cieca e lui mi guidava. Conserviamo ancora vecchia una foto di quel momento.
Dite che partite sempre da uno scandalo, nel senso originario di inciampo, e da qualcosa di concreto: come nascono i vostri spettacoli?
Gianfranco Berardi: Da un’urgenza interiore, da alcune domande forti che ci scandalizzano, ci fermano, catturano la nostra attenzione su alcuni paradossi di quest’epoca che troviamo fuori di noi. E al contempo dalla voglia di indagare su di noi, da alcuni vissuti autobiografici nostri che risuonano e vengono fuori. Non decidiamo una tematica, scriviamo abbastanza liberamente, ognuno per i fatti suoi. Poi ci incontriamo e vediamo quali tematiche sono venute fuori, più per caso che razionalmente, per provare a costruire una rete che metta in connessione le tematiche emerse e le renda materia condivisa di relazione all’interno di un atto creativo.
Lo spettacolo I figli della frettolosa è nato durante un laboratorio: avete messo in moto un processo di drammaturgia collettiva?
Gabriella Casolari: Abbiamo fatto ai partecipanti domande ben precise, perché sapevamo dove volevamo arrivare, e partendo da una sintesi delle loro risposte abbiamo creato una riscrittura su misura.
Gianfranco Berardi: Il lavoro drammaturgico è tutto nostro, però la gente che lavora con noi viene coinvolta nell’atto creativo direttamente, come essere umano e come professionista.
Come trasformate le vostre domande individuali e i racconti autobiografici in qualcosa di universale?
Gianfranco Berardi: Se mi vuoi parlare del mondo, mi devi parlare esattamente di te. Quando un’esperienza è vera e concreta, è poetica in quanto è la tua. Il lavoro sta nel cercare di non essere autoreferenziali. In che modo? Affidando la comunicazione a diversi linguaggi, attraverso un lavoro sull’immagine, sul movimento, sulla metafora…
Se vuoi raccontare la fragilità, la sensazione di stare per precipitare, di non avere più terra sotto ai piedi, che può essere il momento in cui un medico ti dice che diventerai cieco o quello in cui da bambino ti dicono che i tuoi genitori non si amano più o quello in cui sei in ospedale con tuo padre che sta morendo. Quando trovi una metafora, per esempio quella del funambolo, e chiedi a ciechi e non ciechi di attraversare lo spazio camminando sui bastoni raccontando la propria caduta, le storie si mescolano, non è più il vissuto personale di un individuo ma qualcosa che accomuna la collettività.
Gabriella Casolari: Quando si parla di cose così importanti e così forti, bisogna stare anche molto attenti a non diventare patetici. Lavoriamo sulla poesia, ma anche sull’ironia: è l’alternanza dei registri alto e basso che fa volare sia l’uno che l’altro.
In questo spettacolo ci sono dieci persone in scena, di cui solo quattro vedenti: come lavorate sull’uso dello spazio?
Gabriella Casolari: È stato un lavoro lungo e impegnativo. Molti dei non vedenti in scena sono abituati ad affidare la loro autonomia al bastone. Imparare a fidarsi di chi si ha di fianco, capire come ti devi muovere e spostare necessita di un lavoro lungo sugli individui. Abbiamo portato avanti un lavoro sull’attenzione e sull’ascolto, sul sentire la scena e i corpi degli altri.
Gianfranco Berardi: È importante non dare mai niente per scontato: un cieco è convinto di avere una percezione superiore e non è vero. Non è che ti tappi gli occhi e senti di più, non è automatico. È necessario un costante allenamento all’attenzione. Abbiamo fatto ricorso anche alla meditazione, durante l’ultima fase delle prove. Perché a volte sembra che la tecnica sia un vestito esterno al tuo corpo e alla tua anima, finalizzato ad aumentare il tuo bagaglio di conoscenze. Ma la tecnica può anche essere un ripulirsi da tutto quello che pensi di sapere e di conoscere per far sì che quello che hai dentro, la tua sensibilità, affiori, affinché sia possibile vedere veramente chi sei. Non si può fare un lavoro sull’attore senza tener conto dell’essere umano che c’è dietro.
In una società bombardata dalle immagini, come si nutre l’immaginario di chi non può usare la vista?
Gianfranco Berardi: Come può nutrirsi l’immaginario di chiunque. Recuperando l’antica tradizione orale, l’arte del racconto. Dov’è la grande narrazione? In 140 caratteri? In una foto da postare con un hashtag?L’immaginario si nutre leggendo, ascoltando delle storie, andando a teatro, al cinema, anche fruendone in maniera indiretta, chiedendo a chi è con te di raccontarti cosa accade. Il potere evocativo del racconto della persona che hai accanto e dell’opera d’arte che hai di fronte è l’alimento più sano per l’immaginario. Il nostro spettacolo è fruibile anche in cuffia, per i non vedenti.
Gabriella Casolari: Sì, ha l’audiodescrizione. Dobbiamo ringraziare il Teatro dell’Elfo, l’Unione italiana Ciechi e un ragazzo che ha seguito le prove e che si è occupato di questa descrizione. Lo abbiamo fatto impazzire, perché lo spettacolo continuava a cambiare fino al giorno prima.
Gianfranco Berardi: Sai perché ringraziamo spesso il Teatro dell’Elfo e l’Unione Italiana Ciechi, in particolare la sede di Milano? Perché sono stati folli. Sono i pionieri che ci hanno permesso di trasformare un atto rivoluzionario in qualcosa di concreto. Questo è un progetto nato con la fondazione LIA, Libri Italiani Accessibili. La prima scintilla risale al 2014, durante il Salone del Libro di Torino. Ci è stato chiesto un progetto di lettura per non vedenti e a me è sembrato uno dei paradossi del nostro tempo, come la banca etica, le guerre preventive e le bombe intelligenti. Ma fate leggere quelli che vedono, no? Non legge più nessuno tra i vedenti, perché concentrarsi su una minoranza?
Gabriella Casolari: Chiamarono Gianfranco per fare questo esperimento di lettura, anche con l’ausilio di dispositivi elettronici. In quell’occasione ci hanno chiesto se avessimo voglia di condurre un laboratorio per non vedenti e da lì poi è nato questo progetto.
Gianfranco Berardi: In molti ci hanno chiesto di fare uno spettacolo al buio, ma che cazzo facciamo uno spettacolo al buio? Facciamo integrazione, non disintegrazione. Chi non vede ti racconta il suo mondo nel momento in cui si svela: c’è un momento dello spettacolo in cui tutti i ciechi si tolgono gli occhiali da sole, la loro maschera tragica. Ci si chiede sempre cosa nascondano i ciechi, dietro gli occhiali scuri, chissà quale mostruosità. Quando li tolgono e svelano degli occhi normali o semplicemente un po’ storti o chiusi rivelano che non c’è niente da nascondere. E poi io sono bello, mi vedono vedere!
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