Abbiamo il piacere di ospitare in un’intervista esclusiva su Theatron 2.0 gli spunti e le riflessioni personali di Daniele Timpano ed Elvira Frosini protagonisti della retrospettiva “Ritratto d’Artista” recentemente conclusasi al Teatro India dove i due performer sono andati in scena con quattro degli spettacoli con cui sono saliti alla ribalta della scena romana e nazionale. A partire dall’ultima fatica Acqua di Colonia – già al debutto col botto nel novembre scorso presso il Teatro Quarticciolo per Roma Europa Festival – si sono poi succeduti in rapida sequenza ottenendo tutti sold-out: Aldo Morto, di e con Daniele Timpano, vincitore del Premio Rete Critica 2012 e del Premio Nico Garrone 2013 per il progetto Aldo morto 54 (54 giorni di repliche dello spettacolo e di auto-reclusione di Daniele Timpano in streaming in una cella ricostruita appositamente) Digerseltz, di e con Elvira Frosini e infine Zombitudine. Martedì 14 marzo ore 20.30 la Compagnia Frosini/Timpano sarà all’Institute Culturel Italien de Paris | Istituto italiano di cultura di Parigi con ZIBALDINO AFRICANO, la prima parte di Acqua di Colonia, all’interno di una serata con Carlo Lucarelli e Giulia Caminito tutta dedicata a “L’Africa degli italiani”, una partecipazione speciale allo spettacolo di Shelina Scaravelli.
Il 6 febbraio avete presentato presso la sala Squarzina del Teatro Argentina il libro tratto dallo spettacolo “Acqua di Colonia” edito da Cue Press. Come è nata l’idea di lavorare sul tema del colonialismo?
L’idea di lavorare sul colonialismo italiano nasce dal nostro interesse per il presente che viviamo ed il suo rapporto con la storia, o meglio i rimossi della storia e le sue stratificazioni. Come tutte le cose nasce anche da incontri, letture, discorsi, pensieri. In questo caso l’incontro con la scrittrice Igiaba Scego è stato importante: dopo aver letto il suo libro “Roma negata”, realizzato con Rino Bianchi. Da lì, da questa lettura, è venuto alla luce, diciamo che è emerso pienamente alla coscienza, il desiderio di scavare nelle tracce che il colonialismo ha lasciato nelle nostre città, nei nostri pensieri, nel nostro linguaggio. Ci siamo resi conto che eravamo tutti un prodotto del pensiero coloniale. E soprattutto ci siamo resi conto che tutto ciò, alla coscienza nostra, e di tutti, era nascosto, occultato, rimosso e mascherato.
Come si è strutturato il lavoro di costruzione drammaturgica fra materiale testuale e quello storiografico?
La costruzione drammaturgica è sempre un lavoro di raccolta, sovrapposizione, decantazione. Abbiamo studiato per due anni e raccolto appunti sui materiali più disparati. Materiale storiografico, canzoni, fumetti, immagini, pubblicità, letteratura, notizie, e non solo del periodo coloniale ma anche del dopoguerra e fino ad oggi. Da lì sono nati vari testi e ipotesi di strutture, sui quali poi abbiamo cominciato a ragionare, a scegliere, e poi a scrivere.
Nei vostri spettacoli è cruciale l’attenzione per la questione della memoria collettiva o per meglio dire, del rimosso storico. Quanto è presente l’eredità coloniale e razzista nel nostro retaggio culturale? Quali sono state le risposte che avete ricevuto dal pubblico durante questo periodo di rappresentazione in giro per l’Italia?
Beh, come dicevamo prima il pensiero coloniale e razzista è presente in noi sotto forma di qualcosa di scontato, di naturale. Quando apriamo la Settimana Enigmistica e troviamo le vignette con il selvaggio con l’anello al naso e l’osso tra i capelli lo troviamo naturale, lo stesso film campione di incassi di Checco Zalone, Quo vado, del 2016, si apre in un villaggio africano tra i selvaggi con tanto di lance e abiti tradizionali, mentre la pubblicità dei Biscotti Cà Cao della Divella ha per soggetto l’amore tra il padrone della piantagione, un bianco col cappello alla Indiana Jones circondato da sacchi di cacao, ed una schiavetta nera con tanto di fazzoletto in testa. Ma basta pensare alle semplici confezioni del Caffè. Non sono in molti a farci caso ma, da questo punto di vista, siamo costantemente circondati. Gli stessi classici della nostra letteratura, italiana ed europea, molti dei quali sono nati durante il periodo di massimo apice del dominio europeo sul 90 % del resto del mondo, sono impregnati di un atteggiamento paternalistico di superiorità, dove l’altro esiste comunque in funzione nostra, come forza lavoro o come merce, come ribelle da reprimere o come fedele vassallo da premiare, se non addirittura pensato come antropologicamente inferiore. E questo molto prima che uscisse il primo numera della rivista “La difesa della razza” nel 1938. Da piccoli, quando leggevamo per esempio Robinson Crusoe, nessuno di noi trovava niente di particolare o di esecrando nel fatto che il protagonista avesse una piantagione in Brasile e naufragasse per finire sulla famosa isola deserta proprio mentre stava trasportando un carico “di negri” da “vendere” a basso costo ai suo colleghi possidenti. Quando leggiamo “Mansfield park” di Jane Austen e ci appassioniamo a questo grande romanzo, anche d’amore, ambientato nell’Inghilterrra vittoriana, a stento registriamo il fatto che se uno dei personaggi del romanzo non fosse per tre quarti del romanzo assente, impegnato nelle sue piantagioni d’oltremare ad Antigua, il mondo stesso in cui abitano i personaggi, i loro piccoli problemi, gli abiti che indossano e la grande casa dove abitano non esisterebbero. Quando leggiamo i romanzi di Sandokan parteggiamo naturalmente per i pirati della Malesia contro i cattivi inglesi ma raramente pensiamo che in Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia ci siamo comportati in maniera non dissimile dal Rajah bianco di Sarawak. Le reazioni degli spettatori finora sono state anche molto diverse. Spesso di sorpresa, per fatti e personaggi che non conoscevano, soprattutto per la scoperta di tutta una serie di cose che non mettevano in relazione con l’Africa e il colonialismo, a volte di fastidio, sempre di curiosità e di interesse. C’è anche qualche aneddoto commovente. Ne raccontiamo uno: quando abbiamo presentato il primissimo studio del lavoro, al Festival delle Colline Torinesi, una signora ci ha avvicinato dopo lo spettacolo e ci ha raccontato di avere riconosciuto una canzone di cui accenniamo il motivo nello spettacolo, Banane gialle (Carlo Buti, 1934), che non conosceva, ma che aveva sentito cantare dalla mamma molto molto anziana, scomparsa pochi mesi prima. Ci ha ringraziato molto perché grazie a noi è riuscita a collocare in un contesto un suo ricordo personale.
A partire da Sì, l’ammore no, primo spettacolo che vi vede insieme sul palco, passando per Zombitudine fino ad Acqua di Colonia. Quali sono i segni di continuità, rispetto sia alle tematiche sia alle modalità artistiche, che caratterizzano questo percorso di ricerca condivisa? Com’è cambiato il modus operandi nella creazione degli spettacoli teatrali da quando collaborate?
È stato un percorso di continuo affinamento. Abbiamo fortunatamente capito che interessi, tematiche e modalità artistiche erano vicine, ma abbiamo dato spazio anche alle nostre diverse peculiarità. Già in Sì l’ammore no, pur essendo il primo lavoro insieme, crediamo si rintraccino tematiche e modalità di approccio e di linguaggio che poi ritroviamo in seguito: uno sguardo sulla coscienza e l’immaginario collettivi, sui rapporti di potere che ci governano, sul nostro pensiero come prodotto di una costruzione culturale intesa in senso ampio, dalla cultura alta al pop, la necessità per noi di far collidere le certezze o ciò che diamo per scontato o naturale, o far riemergere i fantasmi e i rimossi. In Zombitudine, passando però per i fondamentali Aldo morto e Digerseltz nei quali continuiamo questa ricerca anche se in ambiti tematici diversi, il nostro sguardo è affondato nel presente e nella disperata mancanza di coscienza collettiva e di uno sguardo politico, nell’esautorazione individuale e collettiva di cui siamo tutti protagonisti. In tutti questi lavori per noi c’è in ogni caso uno scavare nel nostro rapporto con il mondo e con l’altro: nel caso di Sì l’ammore no è l’altro genere ed il rapporto di potere, costruito e rimosso, dato per scontato e imprigionato in cliché, tra uomo e donna; in Zombitudine l’altro è chiunque non sia tu, in una confusa e disperata ricerca e paura di un nemico, ma emerge chiaro che l’altro, lo Zombi, il subalterno di origine coloniale, siamo noi. La testolina nera di bimbo che appare in Zombitudine è già un presagio ed una introduzione ad Acqua di colonia, come anche in Sì l’ammore no vediamo, nel finale, un collegamento tematico e di linguaggio con Acqua di colonia. Il suo finale, infatti, è una marmellata di immaginario canzonettistico italiano, una serie di canzoni italiane famose e impiantate nel nostro immaginario montate sul basso continuo di “Faccetta nera” che le sintetizzava e riassumeva tutte. “Faccetta nera” lì rappresentava la persistenza di un immaginario maschio-centrico e un po’ reazionario che pure fa parte dell’immaginario italiano. Acqua di colonia prosegue e amplifica il discorso.
Il Teatro India ha di recente ospitato una retrospettiva dedicata alla vostra carriera. È un grande traguardo per la vostra carriera. Cosa provate in merito? Era questa una delle possibili destinazioni che immaginavate quando avete iniziato a fare teatro?
Ne siamo molto felici, naturalmente. Non sappiamo bene cosa avevamo in testa quando abbiamo cominciato a fare teatro, sicuramente il desiderio di farlo, al meglio possibile. Avere una retrospettiva nel teatro più prestigioso della tua città è senz’altro una soddisfazione, soprattutto in un momento così difficile per Roma. Soprattutto in un Teatro come il Teatro India, che ha significato e significa molto nella biografia teatrale della nostra compagnia, come di quella di tutta la nostra generazione teatrale. In questo spazio donato alla città da Mario Martone nella sua breve direzione artistica del Teatro di Roma nel 1999, batte forte il nostro cuore artistico, qui è nato un Festival come Short theatre, qui abbiamo visto per la prima volta gli spettacoli di Danio Manfredini e di moltissimi artisti della scena contemporanea nazionale, qui sono passati parecchi nostri lavori, è il caso di “Dux in scatola” nel 2006 e dello stesso “Aldo morto”, presentato per la primissima volta in anteprima a Short theatre nel 2011, ma anche del nostro “Zombitudine”, sul quale abbiamo cominciato a lavorare durante quella grande (e contradditoria) esperienza di residenza collettiva, durata alcuni mesi, che è stata il progetto “Perdutamente”, vero e proprio cantiere di lavoro, fortemente voluto dall’allora direttore Gabriele Lavia, che ha coinvolto 18 compagnie della scena indipendente romana nell’autunno del 2012. Molti dei lavori abbozzati al Teatro India in quei pochi mesi sono diventati poi lavori compiuti. Così è stato anche per noi: continuammo a lavorare a Zombitudine per debuttare l’autunno successivo al Teatro della Tosse di Genova, nel frattempo diventato coproduttore del lavoro. Siamo molto felici che alcuni dei nostri lavori, grazie ad Antonio Calbi, possano ora tornare nel posto dove sono nati.
Come nasce e quali sono stati gli sviluppi dello spazio Kataklisma in Roma?
Nasce nel 2002 ed all’inizio era gestito dalla sola Elvira, poi dopo il nostro incontro lo gestiamo insieme ed è per noi un atelier di creazione, uno spazio di incontro in cui incrociare esperienze, un luogo di formazione. È uno spazio di lavoro, di prove, di laboratorio. Negli anni ha realizzato incontri fra artisti, rassegne, eventi come: Generatore X, dal 2004 al 2006, piccola rassegna di spettacoli; Uovo, dal 2005 al 2007, spazio libero di incontro fra artisti e pubblico in cui si mostravano e discutevano insieme lavori in nascita, studi, prove aperte; Novo critico, dal 2008 al 2011, incontri tra artisti, critici e pubblico che ha avuto molto successo; Ecce performer, dal 2010 al 2012, progetto di formazione per attori e drammaturghi realizzato in collaborazione con Attilio Scarpellini. In questo spazio teniamo anche la nostra scuola annuale di teatro ed i nostri workshop, ma ha ospitato e ospita anche laboratori e master classes di altri artisti.
Come vi approcciate alla dimensione didattica e pedagogica dell’arte teatrale nei KataLab, i corsi di formazione e workshop per attori/performer che annualmente organizzate?
La formazione per noi è stimolante. In sostanza il laboratorio è un momento importante di scambio, uno spazio ed un luogo in cui mettiamo in campo e condividiamo il nostro percorso e la nostra ricerca. Più che una classica scuola si tratta di un atelier di compagnia in cui ci si forma anche ad una idea di teatro e, fondamentalmente, ad avere una propria idea del teatro. Molti temi dei nostri lavori attraversano il nostro corso di formazione che diventa una fucina creativa e di scambio. Da tre anni abbiamo innestato nella scuola annuale il workshop intensivo di drammaturgia Corpo scritto, in collaborazione con Attilio Scarpellini, in cui i drammaturghi lavorano a stretto contatto con la scena e con gli attori, ed è un progetto che funziona molto bene e che offre anche uno spazio di confronto ai giovani drammaturghi.
Una piccola anteprima di un vostro prossimo progetto?
Ancora troppo presto per annunciare i futuri progetti. Abbiamo faldoni di appunti top secret, in parte confluiti in alcuni file di progetti top secret. Abbiamo appena debuttato con Acqua di colonia e ci prendiamo il giusto tempo per decidere i prossimi lavori. Possiamo dire che ci sentiamo in un momento molto positivo, che è sia di rilancio che di stabilizzazione, in cui molte direzioni ci sembrano possibili. Di sicuro vorremmo riprendere il progetto “Pirandello ha rotto il cazzo – I classici siamo noi”, che è un progetto di committenza, in cui chiediamo ad altri autori contemporanei viventi di scrivere dei testi per noi, che ha prodotto quest’anno lo spettacolo “Carne”, con drammaturgia di Fabio Massimo Franceschelli e regia ed interpretazione nostra. Sempre quest’anno abbiamo fatto anche la regia di un testo di Fabio Fassio con produzione Teatro degli Acerbi, “Wild West Show”, in cui eravamo solo registi, che sta andando molto bene e ci sta dando qualche soddisfazione. Vorremmo esplorare anche questa direzione, diciamo così, più “registica”. Siamo aperti un po’ a tutto, e curiosi. Sarebbe bellissimo se qualche Ente lirico ci commissionasse la regia di un’opera. Insomma, un bel Verdi, o meglio ancora uno Jacopo Peri ed un Monteverdi (adoriamo i primi melodrammi del ‘600!) o direttamente una Teatralogia dell’anello di Wagner (adoriamo anche Wagner!) sarebbero per noi un bel campo di battaglia. Per quanto riguarda invece la nostra nuova produzione, la nostra futura nuova drammaturgia, come dicevamo prima, dobbiamo ancora ragionarci molto bene. Rimanere sul filone più “storico”, legato all’identità nazionale del nostro paese, oppure approndire il filone più semplicemente “drammaturgico” della nostra produzione, scrivendo un bel testo su quello che ci pare, senza doverci sentire costretti dentro l’etichetta dei “provocatori delle coscienze” (che tanto lo saremmo comunque!) con cui molta critica italiana pare volerci chiudere in una tomba anticipata, sia pure con stima e con amore.
Sono stati assegnati i premi di produzione legati al 55° Premio Riccione per il Teatro, concorso biennale di drammaturgia vinto a fine 2019 da Tatjana Motta conNotte bianca. I premi di produzione si affiancano al concorso verso e proprio, che sin dal 1947 scopre testi teatrali inediti di particolare valore, e offrono una seconda opportunità a tutti i finalisti, per favorire la rappresentazione delle opere con cui hanno partecipato al concorso.
In palio due importanti contributi economici, a parziale copertura delle spese di allestimento scenico: un sostegno essenziale in una fase estremamente critica per le arti sceniche, colpite pesantemente dalla pandemia.
Renata Tosi, sindaco di Riccione. “E’ sempre un’enorme soddisfazione constatare la qualità e il grande valore culturale che riveste Riccione Teatro per la nostra città. Per l’amministrazione è sicuramente un patrimonio da valorizzare e stimolare per un futuro sempre più ricco di soddisfazioni, sia per chi fa teatro e sia per chi lo ama da spettatore.
Presto Riccione avrà il Nuovo Spazio Tondelli, il teatro si fa cuore della comunità aprendosi alla città da viale Ceccarini. Ai vincitori dei premi produzione vanno quindi i complimenti dell’amministrazione e di tutta la città di Riccione”.
Simone Bruscia, direttore di Riccione Teatro: “In un periodo così complesso e delicato, in una fase estremamente critica per le arti sceniche, colpite pesantemente dalla pandemia e dalle misure restrittive ordinate dal governo, l’assegnazione dei premi non è un fatto scontato.
Riccione Teatro è una realtà solida, di recente insignita anche del Premio Ubu a coronamento di un decennio di grandi trasformazioni che hanno confermato Riccione come osservatorio e centro di promozione teatrale tra i più attivi in Europa, e mai come questa volta Riccione Teatro decide di confermare un sostegno essenziale alla drammaturgia e al teatro. Un segnale forte e necessario di rilancio e vitalità, la parola del teatro che si fa respiro, riscatto e progetto, che si fa voce e soffio vitale.”
Tutti i finalisti sono stati invitati a presentare, nel 2020, un progetto di produzione dettagliato. Il presidente di giuria Fausto Paravidino, insieme a Daniele Gualdi e Simone Bruscia (rispettivamente presidente e direttore di Riccione Teatro), ha valutato sia i meriti artistici dei progetti che le concrete possibilità di rappresentazione scenica, e le valutazioni hanno confermato il risultato del concorso.
Il premio di produzione principale, da 15.000 euro, è stato assegnato alla vincitrice del 55° Premio Riccione, la giovane drammaturga veneziana Tatjana Motta, per il progetto collegato a Notte bianca. Gli altri finalisti chiamati a presentare il progetto di produzione erano Emanuele Aldrovandi (La morte non esiste più), Elvira Frosini e Daniele Timpano (Ottantanove), Renato Sarti (Il rumore del silenzio) e Christian Gallucci (La vita delle piante).
Un contributo a sé, da 10.000 euro, è stato riservato ai finalisti del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”, sezione under-30 del concorso. In questa categoria il premio di produzione è andato a Tommaso Fermariello, già vincitore del Tondelli con la pièce Fantasmi. La partecipazione era inoltre aperta a Stefano Fortin (George II), Valeria Patota (Minotauropatia), Luca Tazzari (Il gallo del mal di testa) e Pablo Solari (Woody è morto).
Alla selezione del progetto vincitore in questa categoria ha partecipato anche Roberto De Lellis, direttore di ATER Fondazione, partner fondamentale che si impegna a favorire la circuitazione sul territorio regionale delle opere scoperte al Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”.
Con quest’ultimo atto si conclude il ciclo biennale del 55° Premio Riccione per il Teatro. Nelle prossime settimane sarà pubblicato il bando della 56a edizione, che culminerà a fine 2021 con la proclamazione dei vincitori del nuovo concorso.
Le motivazioni della commissione di valutazione presieduta da Fausto Paravidino
“Abbiamo discusso approfonditamente i progetti di produzione. Solo due autori non sono riusciti a presentare un progetto, gli altri, malgrado il periodo decisamente difficile per il teatro, hanno tutti presentato progetti molto ben strutturati per la messa in scena dei loro testi o domandato un contributo di produzione per il sostegno a produzioni già andate in scena.
Le domande, oltre a essere ben costruite, testimoniano anche una bella creatività da parte delle autrici e degli autori nel cercare di costruire relazioni artistiche e produttive e nel tentativo di posizionarsi nel teatro italiano percependosi non solo come autori chiusi nelle loro camerette ma come parte di una comunità viva di artisti e lavoratori.
La commissione ha scelto di assegnare il premio di produzione legato al premio Riccione al progetto di produzione di Tatjana Motta per Notte bianca e quello legato al Premio Tondelli a Tommaso Fermariello per Fantasmi. Di fronte a progetti di messa in scena ben strutturati, seri e, da questo punto di vista, quasi equivalenti, abbiamo scelto di privilegiare con i contributi alla produzione i due testi già vincitori del premio letterario.
Nel caso i due spettacoli, malgrado l’assegnazione del contributo del Premio non riuscissero ad avviare il loro percorso produttivo entro il 31 gennaio 2022, il contributo alla produzione andrà a un altro progetto seguendo la graduatoria.”
Il Premio Riccione per il Teatro è organizzato da Riccione Teatro, con il sostegno di: Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Regione Emilia-Romagna, ATER Fondazione, Comune di Riccione.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
A volte può sembrare che un luogo si trovi vicino nonostante la sua distanza abissale. Così come è possibile trovare analogie e differenze con delle persone vissute un secolo prima di noi. Morte 30 anni fa. Giudicate e condannate per i loro misfatti. Non è poi così strano quel meccanismo che determina l’empatia. Sia che si tratti di gioia, sia di dolore, di amore o di odio. La somiglianza nel parossismo è nelle (s)proporzioni umane. È quello che hanno messo in scena Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro ultimo spettacolo, Gli sposi.
Il nostro incontro unisce simbolicamente l’inizio e la fine dell’estate. Un ponte spazio-temporale tra il quartiere Aventino di Roma, dov’è andato in scena lo spettacolo Gli sposi in occasione del Lunga Vita Festival e il Teatro Biblioteca Quarticciolo, dove il 22 settembre verrà ripropostoSì l’ammore no. E sarà un momento di festa. Per i dieci anni dello spettacolo e del loro matrimonio.
Come avete lavorato allo spettacolo Gli Sposi e come si colloca all’interno del nostro momento presente?
Elvira: Il nostro ultimo spettacolo è il secondo testo di cui non siamo gli autori. Il primo, Carne, risale al 2016 ed è stato scritto da Fabio Massimo Franceschelli, drammaturgo romano che conosciamo molto bene e che apprezziamo. Con Gli Sposi ci confrontiamo con un’altra forma di scrittura. È un percorso che ci piace fare parallelamente. I problemi che pone, affrontando una scrittura ed un punto di vista diverso dal nostro, sono interessanti. Il tema storico si inserisce bene all’interno del nostro percorso. Abbiamo conosciuto l’autore David Lescot nel 2015 all’interno di un progetto di scambio di drammaturgia tra Italia e Francia che si chiamava “Face à Face”, in cui David fece una mise en espace al Theatre de la Colline dello spettacolo Aldo morto. Ci colpì molto, ci siamo conosciuti ed è nata tra noi un’amicizia, ci siamo scambiati anche dei testi, tra cui questo sui coniugi Ceausescu. Della Romania sapevamo poco, Lescot era molto contento che lo facessimo noi, era stato messo in scena solo da una compagnia francese. Fabulamundi ha collaborato alla produzione con la traduzione di Attilio Scarpellini. A Roma è stato fatto un workshop per attori, dove abbiamo lavorato sul testo e, successivamente svolto una residenza con David Lescot. Abbiamo così potuto lavorare insieme e confrontarci con lui. Lescot va dritto al punto, narrando la storia dei Ceausescu, ed è molto ritmico. Il testo è diverso dalla nostra scrittura, molto lineare e cronologico, lo abbiamo fatto nostro con il lavoro attoriale, introducendo le musiche, la scrittura scenica e il finale. L’autore ha visto lo spettacolo al debutto a Roma, ed è stato molto contento.
Il decennio degli anni ‘80, con la fine del blocco sovietico, di un certo modo di intendere la politica e con tutte le trasformazioni e gli sviluppi nel campo della cultura: tutto questo ha a che vedere con il vostro spettacolo?
Elvira: In realtà si tratta della storia di uno sguardo su questa vicenda. Lescot descrive in maniera molto intelligente e grottesca la versione occidentale, post ‘89, di una coppia di dittatori, due “mostri” portati alle estreme conseguenze nel testo. Prima dell’89 Ceausescu non era visto così male in Occidente, aveva delle relazioni diplomatiche con molti capi di Stato. Siamo andati a vederci i documentari Rai dell’epoca, ad esempio, sia prima che dopo la vicenda dell’89.
Daniele: In alcuni documentari dagli anni ‘90 in poi si vede in azione tutta la retorica con cui, a posteriori, ogni volta, si fa la damnatio memoriae della figura dei dittatori. Da Caligola ed Eliogabalo, passando per Cola Di Rienzo e Masaniello, ma anche Hitler e Stalin ed i Ceausescu, la demonizzazione post mortem del capo raggiunge gli stessi livelli di manipolazione e obnubilamento delle coscienze della propaganda in vita. Se accostiamo la narrazione successiva all’Ottantanove con quella precedente lo scarto è impressionante. Ci sono per esempio dei servizi giornalistici italiani anni ‘70, si trovano anche online, dove vediamo una Elena Petrescu intervistata con molto rispetto, e Ceausescu appare pienamente legittimato dal mondo politico e dall’opinione pubblica di allora come una terza via tra Blocco Sovietico e Occidente. Il testo di Lescot racconta la storia dei due coniugi Ceausescu, da quando erano piccoli a quando si sono conosciuti, dai primi passi come militanti del Partito Comunista, negli anni ‘30 del Novecento, alla progressiva presa del potere. Fino alla morte, avvenuta nel 1989.
Nel copione i personaggi sono indicati genericamente come Lui e Lei. In scena, all’inizio, ci sono soltanto i due attori. Come se li raccontassero da fuori, ciascuno dà informazioni e parla male dell’altro: lei è brutta, lui è stupido e balbetta e così via. All’inizio c’è una componente di ambiguità che porta gli spettatori a immaginarci come i due coniugi dittatori. Da questo distacco iniziale, piano piano sprofondiamo – insieme agli spettatori – sempre più dentro i Ceausescu. La scrittura perde così ogni connotazione narrativa e diventiamo due figure sempre più esagerate, parossistiche, orribili, spaventose, ridicole, grottesche, fino alla tragedia finale – il loro processo, l’esecuzione e la morte. Il momento in cui c’è una combinazione, secondo noi molto potente, tra allontanamento e commozione, raffreddamento ed empatia. Nonostante fossero stati dei potenti dittatori questi due hanno fatto una fine terribile, due vecchi zii bisbetici liquidati in un processo sommario in cui il potere che li ha rovesciati non appare migliore di quello appena rovesciato. Insomma, lo spettacolo utilizza un procedimento narrativo molto semplice ed efficace: distanza iniziale, sprofondamento nella storia e allontanamento finale. L’autore, oltre al dato storico, ha tenuto presente anche la suggestione del Macbeth di Shakespeare. C’è una donna forte e un uomo inizialmente debole. Lei che decide, lui che segue le sue indicazioni. L’eminenza grigia e l’esecutore, il braccio e la mente. Nel nostro spettacolo Lei, che è Elvira ma è anche Elena Petrescu, è come una regista, in scena abbiamo cercato di sottolineare particolarmente questo punto: Lei dà continuamente piccole indicazioni sceniche e Lui esegue obbediente. Anche noi, come i Ceausescu, siamo una coppia di vita e di lavoro. Abbiamo cercato di tenerlo presente e renderlo evidente, durante lo spettacolo, in tanti piccoli dettagli. Abbiamo creato qualche piccolo momento di tenerezza e romanticismo, che nel testo non c’era, o era solo accennato. Piccole cose, fatte di sguardi, gesti, intimità accennate, non detti. Lo spettacolo, dal punto di vista anche della forma, dice molto di come intendiamo e vediamo il teatro e lo spazio scenico. Abbiamo reso tutto molto astratto. All’inizio la scena è completamente vuota, deserta eppure evocativa. Portiamo in scena via via pochi oggetti, prima un’asta di microfono e poi un’altra, entrambe importanti per i discorsi politici del dittatore, che nello spettacolo son molti, poi due sedie di scuola, che il nostro scenografo Alessandro Ratti, peraltro d’origine romena, ha ricostruito simili a quelle sulle quali sedevano i due coniugi durante il processo del dicembre ‘89, che fu inscenato dentro l’auletta di una scuola elementare, con le sedie, i banchi e la lavagna. A Târgoviște in Romania è possibile visitare quel luogo che è diventato meta di visite turistiche, anzi abbiamo visto dei turisti farsi i selfie seduti sulle vecchie seggiole e davanti al muretto contro il quale furono fucilati questi sposi dittatori, e ciò dà l’idea del mondo squallido in cui siamo scivolati negli ultimi 30 anni: un Villaggio Globale a metà tra il villaggio turistico ed il centro commerciale.
Le analogie utilizzate nello spettacolo sono servite oltre che per creare l’empatia finale anche per raccontare qualcosa che non è stato ancora raccontato sui Ceausescu?
Elvira: L’empatia avviene un po’ perché si è spinti a comprendere queste due figure. Nel testo sono talmente esagerati e poco credibili che alla fine scatta l’immedesimazione. Serve anche per porre delle domande, per esempio se hanno fatto qualcosa di positivo. Abbiamo letto diversi testi, c’è chi ne parla bene e chi male. Con la fine dei Ceausescu si chiude la pagina della fine del blocco sovietico. Quella in cui cadono tutti i regimi comunisti. Viene narrato come un grande evento, dal crollo del muro di Berlino in poi. Ci siamo posti tante domande intorno al fallimento di quella idea. Cos’è stato il dopo? Sicuramente c’è stata una entrata forzata nel capitalismo. Queste domande stanno alla base di una modalità di pensiero che ci porta ad avere dei dubbi, o comunque a non accettare per scontata la versione “corrente” delle cose, dei fatti.
Daniele: A livello teatrale ci sembra sempre interessante, e lo facciamo anche nei nostri testi, costruire le cose, disporre i materiali, in maniera che possano suscitare impressioni contrastanti. Il testo di David è molto bello ed è ben scritto, è divertente, contiene delle scene molto vive, tante informazioni, tante cose, ma si capisce abbastanza presto quale sia la tesi di fondo sui Ceausescu. Noi abbiamo cercato, senza cambiare una parola, di problematizzare un po’ il discorso.
Elvira: Abbiamo tenuto presente il fatto che il nostro pubblico è italiano. Sarebbe interessante conoscere la reazione di quello della Romania o di altri paesi. Il paradosso consiste nel fatto che conosciamo veramente poco di quella nazione, nonostante molti romeni vivano in Italia. Poiché c’era un percorso cronologico, noi abbiamo scelto di utilizzare delle musiche che fanno capire molto chiaramente il periodo di riferimento. Sono canzoni molto note in Italia, ad esempio una degli anni ‘60 che chiunque riconoscerebbe. Abbiamo scoperto che c’erano molti cantanti che rifacevano le canzoni occidentali in romeno.
Daniele: Passa il tempo, cambia il mondo e questi due invecchiano, accompagnati dalle nostre scelte musicali. Abbiamo cercato di suggerire il passaggio del tempo in questo modo, che crediamo sia molto meno didascalico che non proiettando a fondo schermo dei video con immagini d’epoca o le date dell’anno in cui via via siamo. Ci è sembrata una scelta interessante, più astratta, anche di fluidificazione di un testo che è stato scritto a quadri, come scene di un film Biopic. Noi ne abbiamo fatto un movimento unico, anziché incoraggiare lo spezzettamento del discorso.
La fine di una dittatura o il primo di una serie di errori della democrazia?
Elvira: È evidente la vittoria del capitalismo globalizzato. La scelta musicale che abbiamo fatto per la fine va chiaramente in questo senso, verso una sorta di omologazione generale nei gusti, nel pensiero, nello stile di vita. Una dispersione di identità dentro una marmellata che coinvolge tutti noi. Viviamo nello stesso mondo. Usiamo gli stessi oggetti e abbiamo gli stessi cliché. È una democrazia esportata e vincente nonostante il termine sia abbastanza ambivalente.
Daniele: Siamo molto contenti di questo lavoro che rappresenta un’ottima sintesi di un incontro tra scritture, modalità artistiche e di pensiero politico del mondo differenti, o meglio simili ma anche un po’ diverse: io ed Elvira come autori tendiamo all’accumulo ed al centrifugo, cerchiamo sempre in qualche modo di stimolare una demiurgia di terzo livello da parte dello spettatore, rispetto al secondo livello che è quello dell’artista, ed al primo, che è quello di Dio. Il creatore assoluto, l’artista supremo, il demiurgo del mondo grande e terribile in cui siamo, naturalmente se Dio esiste. Insomma ci teniamo sempre a stimolare l’autorialità dello sguardo dello spettatore, che con la sua personale lettura nel momento della rappresentazione chiude lo spettacolo. Noi siamo volutamente, direi violentemente disordinati, almeno in apparenza. Costruiamo le cose stratificando, e non sempre facciamo tornare tutti i conti. Al contrario David, che è un autore francese – il paese di Molière, Racine e di Cartesio – pone in essere una struttura chiara, geometrica, asciutta, un meccanismo teatrale perfettamente funzionante. Si capisce bene come inizia, come si sviluppa e come si conclude. David è molto ordinato anche nelle contorsioni, è sempre molto chiaro. Non volendo smontare una struttura così limpida, abbiamo cercato di complicarla aggiungendo, come si diceva, dei livelli di regia, di scrittura scenica e di presenza. Per noi è stato un ottimo cantiere di lavoro e una palestra che, spero, tornerà utile anche per i prossimi lavori. Si è trattato, oltretutto, di un magnifico e democratico lavoro con i nostri collaboratori: tutte le fasi di costruzione sono state discusse e ponderate con calma, lucidità e serenità da noi. Non solo con l’autore ma anche con il nostro light designer Omar Scala, che ha fatto davvero un buon lavoro di luci e fonica, con un senso mai solo estetico e formale ma sempre anche drammaturgico. Con la nostra aiuto regista Camilla Fraticelli e col sempre prezioso Lorenzo Letizia, che ha curato il video finale che chiude lo spettacolo ma soprattutto è stato un confronto intellettuale molto valido e prezioso fin dall’inizio del lavoro.
Al tempo dei Ceausescu era molto forte il potere unidirezionale della televisione, un mezzo di comunicazione che è stato usato successivamente anche dal Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale. La propaganda e l’informazione oggi viaggiano in rete con una maggiore velocità e interazione. La storia dei Ceausescu potrebbe avere un’interpretazione diversa attraverso la Rete?
Elvira: È difficile trasportare questa vicenda nel nostro mondo attuale, perché era tutto molto diverso 30 anni fa. Se pensiamo all’esecuzione di Gheddafi, avvenuta a Sirte nel 2011, abbastanza recente quindi, notiamo che la scena dell’uccisione è stata ugualmente filmata e diffusa in tutto il mondo. La differenza sta nel controllo. Nella Romania del 1989 c’è stata sicuramente una veicolazione precisa. Non c’erano i social, come oggi, che avrebbero potuto trasmettere dei contenuti diversi, anche controversi. I media occidentali hanno ripreso quelle immagini e le hanno diffuse a tamburo battente. Due mondi completamente diversi anche nei mezzi di comunicazione. È vero che la televisione è un mezzo apparentemente democratico perché raggiunge tutti. Poi però c’è qualcuno che decide. Ora ci sono dubbi anche sui social e sul livello di libertà e di pluralità che possono avere.
Daniele: Sia il testo di Lescot, sia lo spettacolo, sono stati realizzati da persone che vivono nel loro tempo. La storia si svolge in un paese conosciuto relativamente, è vero. Molti spettatori sicuramente non erano ancora nati e questa storia la scoprono da noi. Il mondo prima dell’Ottantanove per chi non lo ha conosciuto è una cosa ora davvero sbiadita. Per chi lo ha attraversato resta un oggetto di rimozione, revisione o nostalgia. Credo che lo spettacolo parli inevitabilmente anche e soprattutto di questi nostri tempi bui. Nei discorsi politici del dittatore romeno, pur pieni del gergo tardo-marxista che nessun politico oggi userebbe più, trapelano gli stessi meccanismi retorici e quel populismo che tutti criticano adesso. Si avverte tuttavia in essi anche un rispetto ed una considerazione per la cultura che non ci sono più. Si parla di una classe politica che deve studiare, imparare, crescere per contribuire al miglioramento del paese. Questo non può che ricordarci – per contrasto – l’estinzione totale di qualunque carisma, del concetto di cultura oggi, al tempo dei Trump e dei Salvini, dove ogni intellettuale è un “intellettualone” ed ogni politico quando sente la parola “cultura” non può che “sciogliere la fondina della pistola”, per citare Goebbels.
Nel processo di scrittura e di messa in scena emergono una serie di verità oppure vale la domanda che poneva Andy Warhol: « A chi interessa la verità? » .
Elvira: Sostanzialmente non c’è una sola verità. Senza però essere relativisti al massimo ci sono alcune verità. Il percorso che facciamo noi, di solito, è quello di cercare di portare le questioni dalla semplicità alla complessità. Quello che noi crediamo essere vero, le versioni che vengono raccontate di fatti e di situazioni ha dietro comunque la decisione di una precisa rappresentazione. E quindi noi cerchiamo di mettere in luce questo processo di rimettere in discussione tutto ciò che è stato considerato naturale, o vero, o assodato e incontrovertibile.
Daniele: La storia in generale è sottovalutata, poco frequentata e tenuta da conto. In realtà è molto importante perché parla di come ognuno di noi è. Noi siamo tutti appiattiti sul presente, sul quotidiano. Ci dimentichiamo di una cosa successa tre giorni prima, sia a livello di comunicazione nel mondo, sia a livello di esperienza. Siamo sempre ricattati nel presente o angosciati dal futuro e di solito il passato si presenta come una sorta di nostalgia irrecuperabile. Qualcosa che di solito tende ad essere un misto di ricordi personali più o meno indelebili, adolescenziali se non infantili, e reminiscenze di oggetti mercificati, con cui abbiamo intessuto un rapporto personalistico. La consapevolezza che deriva da un accumulo di decenni, di secoli e millenni di conoscenze e progressi è qualcosa che ci aiuta ad interpretare l’attualità. È importante perché altrimenti si parlerebbe solo del fatto del giorno, ad inseguire il nuovo saggio del momento o la nuova serie della settimana. Il nostro immaginario è comunque colonizzato. E controllato. Non è possibile non avere Facebook o Instagram, non guardare le serie di Netflix. Queste cose ti raggiungono lo stesso indirettamente. In un modo forte e pervasivo che è totalitario. Ecco, forse questa è una delle spinte interiori più forti della nostra compagnia: se non si recupera il passato, nei materiali culturali prodotti e dalla conoscenza stessa di questo passato, i riferimenti saranno sempre pochi e l’universo concentrazionario in cui muoversi sarà sempre quello reazionario nel quale siamo cresciuti tutti.
Elvira: Il passato è come è stato raccontato, come entra dentro ognuno di noi. Parla di come e perché tu pensi delle cose oggi, di come e perché tu vedi il mondo in un certo modo oggi, delle domande che ti poni. In Acqua di Colonia tutto questo è evidente, parliamo di quel colonialismo che ritroviamo installato nel nostro pensiero inconsapevolmente anche senza essere razzisti o altro. C’è perché siamo stati nutriti ed immersi in una cultura che è sia razzista sia colonialista, che vede l’altro in una certa maniera. Dei riferimenti abitano comunque dentro ognuno di noi. Con Acqua di Colonia scaviamo nel materiale storico e culturale che forma il nostro vissuto, che ci compone. Oltre la retorica del “siamo tutti buoni”, il pensiero razzista alberga in noi. Il pubblico lo riconosce, si rispecchia ogni volta che lo evidenziamo attraverso i meccanismi ironici dello spettacolo.
Daniele: In fondo il teatro si porta dietro questo dialogo con il passato, che è sempre anche un dialogo con la morte. Se non era la storia, avrebbe potuto essere il repertorio, la storia della drammaturgia. In teatro c’è sempre un qui ed ora che è sempre tale, con tutti i problemi ed il mondo che c’è intorno. Ci vedi adesso e non ci vedrai tra 50 anni perché gli attori muoiono. Ci vedrai in qualche ripresa video, ma non è la stessa cosa. Noi non abbiamo potuto vedere gli spettacoli teatrali che faceva Totò, qualcosa è stato incastrato nelle trame di qualche film. Abbiamo la versione deformata di lui cinquantenne che faceva gli sketch, ma non lo abbiamo visto da giovane farli al teatro, in uno spettacolo di varietà. Non avremo mai idea di cosa poteva essere vedere dal vivo Petrolini a inizio ‘900; di Isabella Andreini nel ‘500 e degli attori della commedia dell’arte abbiamo solo i racconti e le descrizioni. C’è qualcosa di inesorabilmente perduto nel teatro. Quando non si parla di storia, si parla di morte, della paura della morte, di stare a metà tra la vita e la morte. Aldo morto parla di Aldo Moro ma anche di ricordi personali, di parenti morti o della morte in genere. Noi la prendiamo di petto indirettamente ma è qualcosa che ha a che fare proprio con questo concetto. Un film rimane, si può rivedere 15 volte ed è lo spettatore a cambiare nel frattempo. Gli spettacoli teatrali invece deperiscono e muoiono nel tempo come le persone che li fanno.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Il colonialismo italiano. Una storia rimossa e negata, che dura 60 anni, inizia già nell’Ottocento, ma che nell’immaginario comune si riduce ai cinque anni dell’Impero fascista. Cose sporche sotto il tappetino, tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente? Eppure ci è rimasta addosso come carta moschicida, in frasi fatte, luoghi comuni, nel nostro stesso sguardo. Vista dall’Italia, l’Africa è tutta uguale, astratta e misteriosa come la immaginavano nell’Ottocento; Somalia, Libia, Eritrea, Etiopia sono nomi, non paesi reali, e comunque “noi” con “loro” non c’entriamo niente; gli africani stessi sono tutti uguali. E i profughi, i migranti che oggi ci troviamo intorno, sull’autobus, per strada, anche loro sono astratti, immagini, corpi, identità la cui esistenza è irreale: non riusciamo a giustificarli nel nostro presente. Come un vecchio incubo che ritorna, incomprensibile, che ci piomba addosso come un macigno.
consulenza Igiaba Scego | voce del bambino Unicef Sandro Lombardi
uno spettacolo di Frosini/Timpano | produzione Associazione Culturale Gli Scarti, Kataklisma teatro | con il contributo produttivo di Romaeuropa Festival, Teatro della Tosse, Accademia degli Artefatti | con il sostegno di Armunia Festival Inequilibrio | si ringrazia Teatro di Roma, C.R.A.F.T. Centro Ricerca Arte Formazione Teatro
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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