Ci vediamo all’alba – Meet Me at Dawn. L’enigma della vita fra l’amore e la separazione
Tra le tante versioni letterarie del mito, quelle di Virgilio nelle Georgiche e di Ovidio nelle Metamorfosi hanno narrato e tramandato, nel corso dei secoli, la dolorosa storia del musicista Orfeo innamorato della bellissima ninfa Euridice. Quando la sua amata morì per il morso di un serpente, il giovane uomo scese agli Inferi, superando prove e ostacoli, pur di raggiungere i due sovrani Ade e Persefone, gli unici che avrebbero potuto restituirgli il suo dolce amore.
Meet Me at Dawn, l’opera dell’autrice britannica Zinnie Harris, si ispira al dramma vissuto da Orfeo, il figlio della musa Calliope e del re Eagro. Non è l’unico riferimento letterario presente nel testo della Harris: è possibile scorgere un riferimento, intravedere nell’ombra il naufrago Ulisse, il quale patì la sorte del naufragio proprio come Robyn e Hellen, le due protagoniste. Due donne, alla ricerca della strada verso casa, che si ritrovano su una riva. Ansimano, cercano di asciugarsi. Una ha i conati e vomita acqua salata, l’altra è in preda all’euforia di una incontenibile scarica di adrenalina in tutto il suo corpo. Si ritrovano smarrite in un tempo e in un luogo indeterminati, una spiaggia sconosciuta che scopriranno non essere ciò che potrebbe inizialmente sembrare.
Il titolo in italiano, Ci vediamo all’alba, è fedele all’originale. È stato possibile farlo diventare un allestimento teatrale con la traduzione di Monica Capuani, la regia di Silvio Peroni, l’interpretazione di Francesca Ciocchetti e Sara Putignano e, infine, la produzione Khora Teatro, in coproduzione con Compagnia Mauri Sturno. Quattro sono state le repliche romane, dal 17 al 20 gennaio, lo spettacolo è stato messo in scena al Teatro Palladium.
Amore e morte, nel mezzo di un naufragio. Terzo ed ultimo riferimento letterario, la storia di Sebastian e Viola ne La dodicesima notte di William Shakespeare, concentrato nella battuta del duca Orsino: “Un viso, una voce, un abito. E due persone! Una macchina d’illusione. Creata dalla natura, che è e non è”.
Ci vediamo all’alba costringe a decelerare, ad essere paziente nello svolgimento della narrazione, ad aspettare. È un gioco in cui l’informazione non arriva subito, non è imminente. Sembra un indovinello posto all’inizio con due semplici domande. “Stai bene? Dove siamo?”. Un misterioso puzzle nello stile di Waiting for Godot. Le regole sono sconosciute nella prima parte. Eppure attraverso quei dialoghi serrati Beckettiani, la relazione tra Robyn e Helen diffonde attenzione. Quella che si manifesta in scena tra loro due, ma anche tra gli spettatori, incollati alle poltrone, e le due interpreti, Francesca Ciocchetti e Sara Putignano.
Le cose diventano più chiare successivamente. Robyn è Orfeo, Helen è la sua Euridice. La parte riflessiva contrapposta all’intemperanza. La riunione tra le due, negli sviluppi della drammaturgia, non è del tutto felice: vecchie recriminazioni e rimpianti. Mentre l’inizio dello spettacolo si concentrava su Robyn e Helen che cercavano di capire dove si trovavano e come tornare a casa per cena, Ci vediamo all’alba si sposta successivamente fino ad esplorare una nuova condizione. La distanza sembra espandersi oltre lo spazio e il tempo, contrapponendo il tradimento della morte con il privilegio della sopravvivenza. Le due donne incrociano i loro corpi: due persone avvolte nello stesso cardigan, sedute l’una nelle braccia dell’altra. Possono sembrare così vicine, eppure sono così distanti.
Quando l’amore è lontano e una persona viene a mancare, il dolore si inserisce nello spazio tra le ore e i minuti. E mena duro. Cosa faremmo se ci fosse concesso un giorno in più da passare con una persona amata perduta? La conoscenza della separazione impedirebbe di godere il ricordo di tutto il tempo trascorso insieme? Potrebbe esserci un reciproco accordo o sintonia tra i morti e i vivi?
Quello che propone Ci vediamo all’alba è la ricerca di un senso della psicologia del dolore. La regia di Peroni trasmette il cambio dell’ambientazione tra il reale e l’irreale, senza essere né l’uno né l’altro, creato dalla penna della Harris in quel processo di elaborazione del lutto dove tutte le contraddizioni della morte sembra che coesistano. È difficile dare un senso all’assenza di una persona amata semplicemente perché quel vuoto è imperscrutabile esattamente come l’amore, un eterno enigma che contiene in sé il micro e il macro, l’infinitamente grande e piccolo, la gioia e il dolore.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.