«Brevi interviste con uomini schifosi», Musella e Mazzarelli alla prova di David Foster Wallace
Sul finire del secolo scorso – una manciata di anni dopo aver concluso l’immenso Infinite Jest –, David Foster Wallace si faceva attraversare dalle «voci di un’America stravolta» per allestire una galleria di ritratti mostruosi: Brevi interviste con uomini schifosi (1999) è una raccolta di racconti in cui, con sguardo lucidissimo e ironia corrosiva, lo scrittore statunitense costringe l’uomo contemporaneo – bianco e occidentale – a un processo di feroce autocritica.
È da queste disturbanti ed esilaranti pagine che prende le mosse l’omonima pièce di cui Daniel Veronese – figura di riferimento del teatro argentino nel periodo successivo alla dittatura – firma regia e drammaturgia: già approdato in Cile e in Argentina, lo spettacolo debutterà nella sua versione italiana il primo febbraio al Teatro San Ferdinando di Napoli, prodotto dal Teatro di Napoli-Teatro Nazionale.
A interpretare questo faccia a faccia tra “uomini schifosi” saranno Lino Musella e Paolo Mazzarelli, forti di una lunga esperienza di compagnia insieme: con loro abbiamo parlato del significato di un lavoro completamente “al maschile” sull’opera di Foster Wallace, che ancora oggi si offre come uno specchio perturbante attraverso il quale comprendersi.
Cosa significa confrontarsi con un testo come Brevi interviste con uomini schifosi a più di vent’anni dalla sua uscita, e trasportare la scena dagli Stati Uniti all’Italia?
Lino Musella: David Foster Wallace è un autore molto amato anche in Italia perché riesce a parlare a tutti: nei suoi testi si concentra sull’uomo contemporaneo, sulle nevrosi della nostra contemporaneità. Credo che in fondo questa contemporaneità sia la deriva dell’Occidente, e per questo non credo ci sia molta differenza tra l’uomo americano che lui racconta e quello che viviamo ancora oggi in Italia.
Rispetto al discorso sul genere, al problema delle molestie e del mobbing, negli Stati Uniti sono sempre stati un po’ più avanti con i tempi: probabilmente in Italia stiamo affrontando soltanto adesso questioni che Foster Wallace già trattava in questo libro più di vent’anni fa. Avevo già messo in scena Brevi interviste con uomini schifosi nel 2008 (anno della scomparsa dell’autore, ndr) e ho l’impressione che allora fosse quasi troppo presto per uno spettacolo del genere, che l’argomento apparisse ancora troppo “progressista”. Negli ultimi anni in Italia e in Europa queste tematiche sono diventate molto più centrali.
Paolo Mazzarelli: Se un libro come Infinite Jest è inserito in maniera indelebile nel contesto americano, non credo valga lo stesso per questo testo. Nello spettacolo che metteremo in scena c’è il filtro della regia e della drammaturgia di Veronese – restituita in scena dall’interpretazione di due attori italiani –, ma mi sembra che l’opera stessa, di per sé, abbia un respiro universale.
Probabilmente il contesto americano è fondamentale per comprendere l’anima e la produzione di Foster Wallace, il suo genio artistico e la disperazione che lo ha portato a ciò a cui lo ha portato, e cioè al suicidio. Ma credo che nel caso particolare di Brevi interviste con uomini schifosi, da grande indagatore dell’animo umano, sia riuscito a osservare in profondità i vizi, le perversioni e le meschinità specialmente del comportamento maschile. E scrivendo questi ritratti, ci ha offerto degli specchi per riconoscere quelli che sono anche i nostri demoni, le nostre colpe e le nostre responsabilità in quanto maschi. In senso universale e culturale.
Brevi interviste con uomini schifosi
Ph. Marco Ghidelli
Nel testo di Foster Wallace le brevi interviste sono in realtà dei monologhi, dal momento che lo spazio della domanda viene lasciato vuoto, ed è il lettore a dover ricostruire la voce che interroga. Drammaturgicamente e scenicamente, come avete lavorato a questa ricostruzione?
P.M.: La proposta del regista è stata quella di selezionare – intervenendo anche creativamente – otto quadri tra i ventitré raccolti nel libro: ha scelto di affidarli a due attori uomini, che però si scambiano i personaggi di uomo e donna di scena in scena. Rispetto al testo originale, Veronese inventa un personaggio femminile che non è soltanto un’ascoltatrice silenziosa, ma diventa una sorta di “spalla” e di sparring partner: con piccoli e brevi interventi permette infatti alla scena di proseguire in forma di dialogo.
Quindi Lino e io interpretiamo quattro maschi schifosi a testa e quattro donne-sparring partner. Questa è la struttura dello spettacolo e non c’è nient’altro: non abbiamo né costumi, né scenografie, né musiche, né cambi, né alcun tipo di caratterizzazione – baffi, occhiali, sigarette. Nel cercare di restituire questi ritratti, disponiamo semplicemente dei nostri corpi e dei materiali letterari.
L.M.: La drammaturgia di Veronese è una forma di trasposizione teatrale – non di adattamento –, quindi si è permesso di rimaneggiare il materiale originale per renderlo scenicamente. Chiaramente, in un romanzo si vive soltanto nelle battute che si leggono: il solo vedere in scena una presenza muta che subisce questi discorsi crea una dinamica teatrale molto forte. L’altro non è soltanto una “spalla”, ma è anche colei alla quale questo pezzo viene dedicato e che infine lo subisce.
Soltanto praticando questo dispositivo scenico, Paolo e io ci stiamo accorgendo di quanto sia efficace. Un aspetto molto bello di questo lavoro consiste non soltanto nell’affondare nelle nevrosi di questi uomini orribili, ma anche nell’esplorare l’altra zona – quella femminile – e nell’esperire questa violenza, anche se non si tratta quasi mai di una violenza fisica. È un elemento drammatico che ci permette, in quanto uomini occidentali, di ascoltarci “dall’altra parte”, e di comprendere in maniera molto maggiore quelli che sono i rapporti di forza.
Come è stato lavorare completamente “al maschile” sulle tematiche del testo? Ha coinciso con una sorta di processo di “autocoscienza”?
L.M.: Sì, assolutamente. E l’autocoscienza si attiva proprio in questo senso speculare: mettendosi in scena come maschio orribile, in queste piccole metafore – che sono dei ritratti e dei riassunti –, e ponendosi in ascolto di questo stesso materiale, passando al “lato” femminile. Ci si rende conto di alcune cose soltanto quando le si pratica: cercando nelle nevrosi del personaggio anche le proprie, emergono tutti quei pregiudizi di cui siamo ancora vittime nella nostra cultura, e con cui il maschio occidentale deve continuamente confrontarsi. Credo che sia un lavoro rivolto a uno sguardo già consapevole, a un pubblico teatrale che probabilmente è convinto di possedere già un pensiero progressista su queste tematiche. Ma spesso è dove si dà per assodata questa coscienza che ci sono ancora molti preconcetti da dover disarcionare.
P. M.: Sì, in qualche modo direi di sì. È chiaro che il testo di Foster Wallace è già un punto di partenza fortemente ironico, ma anche fortemente autocritico nei confronti delle schifosità maschili. Per volontà del regista, in scena teniamo sempre il copione: è un gioco teatrale – che forse potrebbe avvicinarsi allo psicodramma – che porta a interpretare dei ruoli e a scambiarseli, e che quindi conduce all’autoanalisi, all’autocoscienza e all’autocritica.
Detto ciò, credo e spero che lo spettacolo faccia anche molto ridere, perché ovviamente sia in Foster Wallace che in Veronese, e anche in me e Lino, c’è una ricerca e un piacere di note umoristiche. Nel descrivere questi uomini, Foster Wallace inietta nel loro modo di parlare e di pensare la sua infinita intelligenza: alla fine, questi uomini sono estremamente intelligenti nel loro essere mostruosi, ed è questo contrasto a rendere l’intero materiale allo stesso tempo perturbante e umoristico.
Accanto a ritratti più “mostruosi”, nel testo di Foster Wallace troviamo descrizioni acutissime di tratti nevrotici o depressivi. Sono davvero così “schifosi” gli uomini che interpretate? Quali costruzioni culturali incarnano?
L.M.: Penso che quello che c’è di veramente “schifoso” siano alcuni fondamenti culturali. La scrittura di Foster Wallace è complessa perché contraddittoria: alla fine – personaggi di più, personaggi di meno – sono comunque degli esseri umani. In scena noi siamo anche portati a doverli “difendere”, perché altrimenti sarebbero soltanto grotteschi, e in realtà cerchiamo di avvicinarci sempre di più a questi personaggi, di renderli tridimensionali. Cerchiamo di comprendere quali sono le loro caratteristiche umane, i lati più deboli e vulnerabili che li portano a essere quelli che sono. Credo però che siano sempre bruttezze della nostra cultura a portare a conseguenze simili, e che quindi la critica, piuttosto che all’uomo singolo, vada rivolta a una certa idea del maschile, al potere di un certo tipo di carnefice sulla vittima.
P.M.: Dobbiamo ancora debuttare, quindi è ancora difficile capire in che modo arriverà lo spettacolo. Man mano che siamo entrati nel lavoro durante queste settimane di prove – inizialmente come lettori, poi come attori –, questi otto ritratti hanno iniziato a cambiare forma, come se, oltre a un carattere fortemente psicanalitico, avessero anche un carattere fortemente psichedelico (ride). All’inizio sembravano caricature, molto lontane da noi, per farsi poi sempre più vicine e diventare degli specchi.
Un paio di personaggi sono fortemente grotteschi, altri sono caratterizzati da nevrosi, devianze psichiche, o dal semplice egoismo e dall’incapacità di ascoltare l’altro. Sono “schifosi” soprattutto nel loro rapporto con il femminile: sono uomini che soffrono molto, ma di questo dolore fanno l’uso peggiore, scaricandolo e riversandolo sulla donna, e quindi scegliendo sempre la strada sbagliata a livello relazionale. Sono delle figure complesse, e in questo senso, è un bel viaggio da affrontare in quanto attori.
Quale pensate sia il ruolo riservato al pubblico nell’interpretazione della dinamica e della dialettica che metterete in scena?
L.M.: Dobbiamo ancora andare in scena, ma suppongo che il pubblico sia chiamato a completare questo discorso. È un lavoro molto teatrale e molto divertente – perché l’ironia di Foster Wallace è davvero molto tagliente e densa –, ma è anche un lavoro in cui c’è molto pensiero. Non è un lavoro che propone una tesi, ma piuttosto delle riflessioni: allo spettatore o alla spettatrice è richiesto di sovrapporre una sua opinione a quello che sta vedendo. Il regista racconta spesso che ci sono state delle donne – in Argentina o in Cile –, che si sono riconosciute maggiormente nella parte degli uomini, che in quella delle donne. In questi frammenti di storie c’è una dinamica tra vittima e carnefice che ognuno può interpretare in base alla propria esperienza.
P.M.: Devo dire che sono molto curioso. Negli scorsi giorni abbiamo fatto una prima prova aperta con una ventina di persone presenti, e mi sembra ci sia stata una risposta positiva dal punto di vista del piacere dell’ascolto e del divertimento. Chiedendo un riscontro alle spettatrici femminili, ci hanno risposto: “sì, effettivamente riconosciamo questi uomini, è vero, sono così” (ride). Sarebbe bello se questo spettacolo – nei limiti di quanto possa fare uno spettacolo teatrale –, potesse portare anche gli spettatori maschili a un piccolo tentativo di autocritica.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.