
Cosa può un teatro? Intervista a Francesca Corona

Cosa può un corpo? è il titolo di un libro del filosofo Gilles Deleuze che raccoglie un insieme di lezioni dedicate a Spinoza. È una domanda che sta ad indicare le possibilità impensate che si manifestano, senza preavviso, nelle pratiche. Lì dove si credeva che ci fosse un limite, l’accadere lo smentisce. Se, come ci ha raccontato Francesca Corona, «il teatro è l’arte politica per eccellenza perché al centro vi sono i corpi», ecco che appare motivato modificare l’interrogazione in «Cosa può un teatro?», come viene ripetuto più volte nell’intervista.
Con la fiducia che lo spazio teatrale possa farsi promotore di qualcosa che non è mai sondato fino in fondo — perché ogni volta diverso nell’unicità dell’incontro — cosa accade quando le porte sono chiuse al pubblico? Può essere reimmaginato un senso, seppur temporaneo e precario, oppure il teatro è destinato a un triste silenzio?
In quelle pagine del filosofo francese si trovava anche una definizione di artista, come colui che «muta i limiti in opportunità». Ed è questo in effetti lo spirito che ha mosso le attività del Teatro India, con Corona alla direzione, durante la pandemia. Attività che vengono approfondite in questa conversazione prendendo le mosse dall’ultima avviata, il ciclo di formazione retribuita Fondamenta, composto da sette corsi condotti da Giorgio Barberio Corsetti, Anna De Manincor (Zimmerfrei), Lucia Calamaro, Tanya Beyeler (El Conde de Torrefiel), Romeo Castellucci, Lisa Ferlazzo Natoli, Michele Di Stefano.
Un esperimento che guarda ai tempi eccezionali in cui ci troviamo, in un interstizio tra macro e micro politica. Perché lo sguardo di curatrice di Corona — a partire dal festival Short Theatre, che quest’anno accompagnerà nella transizione verso la nuova direzione artistica di Piersandra Di Matteo — si muove tra l’istituzione e l’underground mettendo al centro un fare comunitario, un brulicare di intensità.
Qual è lo spirito dietro l’esperimento di Fondamenta?
Fondamenta si inserisce in un’articolazione complessa di attività che da un anno a questa parte abbiamo messo in piedi al Teatro di Roma su quello che può un teatro in questo momento, ovvero quando viene sottratta una delle sue funzioni principali, accogliere il pubblico nei propri spazi. La riflessione mia e di Giorgio Barberio Corsetti è più in generale su ciò che può un’istituzione pubblica, pensando all’istituzione del futuro per renderla porosa, reattiva a ciò che c’è intorno, all’arte della città e al contesto specifico.
Un anno dopo il nostro arrivo si è innestata la pandemia, abbiamo attraversato tante possibilità come quella di fondare una radio, che nella situazione del lockdown dello scorso anno ha messo un acceleratore fortissimo sulla possibilità della ricerca. Abbiamo fatto dei passi anche per aiutare altri spazi, più fragili e indipendenti, che con le condizioni attuali non avevano gli strumenti per restare attivi. Ci siamo fatti piattaforma per altre realtà, mettendo a sistema quello che India faceva anche prima, ovvero ospitare compagnie in residenza anche che non fossero direttamente prodotte o co-prodotte dal teatro.
Fondamenta arriva dopo tutto questo, per mettere un altro tassello a questa riflessione fattiva. È una proposta relativa alla formazione, all’impiego e alla ridistribuzione delle risorse, per arrivare a un’idea di formazione continua. Se le residenze dialogavano con realtà già strutturate, Fondamenta entra in dialogo con gli interpreti. Ci sembrava il perfetto allenamento di corpi e menti per la sperata riapertura.
Pensi che Fondamenta potrebbe diventare qualcosa di più strutturato, da riproporre ciclicamente in diversi periodi dell’anno?
Probabilmente in una stagione normale non si sarebbero aperte le possibilità per proporre Fondamenta, è un progetto impegnativo da un punto di vista organizzativo, di occupazione degli spazi e di bilancio finanziario. Potrebbe essere una di quelle poche occasioni regalate dalla pandemia, che potrebbe trasformarsi in una buona pratica. Abbiamo imparato tante cose in questo periodo, sappiamo ora che il teatro può fare molto altro oltre a proporre spettacoli e speriamo di non perdere questa elasticità.
Il gruppo Presidi Culturali Permanenti è al lavoro sulla questione della formazione retribuita, sono in interlocuzione con le regioni e spero quindi che questo sia un caso-studio che possa rendere più solida la loro proposta. Si tratterebbe di riconoscere la formazione e la ricerca come veri momenti di lavoro, perché non necessariamente bisogna retribuire solo un prodotto finito come uno spettacolo.
Sono arrivate mille candidature per Fondamenta, evidenziano il momento difficile in cui ci troviamo.
Sì e queste mille candidature provengono solo dalla regione Lazio, perché risiedere qui era l’unico requisito richiesto. Volevamo illuminare un potenziale localizzato, quali sono le vite, le esperienze e i desideri di chi è intorno a noi. La selezione è stata un’avventura magnifica, non me lo aspettavo. Leggere queste mille lettere motivazionali è stato straordinario, ad un anno esatto dalla chiusura dei teatri. Erano lettere sulle quali pesava tutta la situazione, è stato una specie di carotaggio su come stiamo. Ne esce una condizione disastrata, dal punto di vista strutturale.
La pandemia si è riversata su una categoria che già prima era profondamente affaticata, più o meno consapevolmente. C’è isolamento e una grande mancanza di relazione, oltre che di lavoro, dunque vari livelli di problematicità. Ma ho trovato anche una grande consapevolezza, precisione, capacità di presa di parola. I percorsi di formazione si stanno svolgendo ed è bellissimo vedere il teatro attraversato da queste persone. C’è una grande fibrillazione e motivazione, anche per noi.
La pandemia non ha interrotto i percorsi di creatività al Teatro India e in alcuni casi ne ha fatti nascere di nuovi. Sei soddisfatta di quello che sta accadendo da quando sei arrivata?
Sono molto felice di quello che è successo in questi due anni. Il lockdown lo scorso anno è arrivato nel momento in cui tutto stava prendendo forma. Abbiamo iniziato il percorso a settembre 2019 con quella che ormai mi sembra una storica e mitica festa per i vent’anni di India. Il teatro è stato aperto per venti ore consecutive ed è stato attraversato da più di quattromila persone. C’erano attività in tutte le sale, musica, proiezioni, spettacoli, quella celebrazione è stata una promessa che si riconnetteva alla fondazione di India da parte di Mario Martone, riaccendeva un legame con quello spirito. Pian piano il nostro progetto è emerso, con gli artisti residenti e la scuola serale, che abbiamo inaugurato il 17 febbraio. Una scuola gratuita aperta alla cittadinanza con i corsi di danza, ascolto e canto.
Tutto stava sbocciando quando è arrivata la pandemia e ha interrotto questo programma poliritmico, che vedeva le attività per la cittadinanza dialogare con una stagione teatrale strutturata, con le proposte più estemporanee delle compagnie residenti e con quanto si svolgeva all’Argentina. Era un’idea estremamente concreta di coabitazione, con l’imprevedibilità data dalla presenza dei corpi. Ridisegnare questa complessità è impossibile, quindi c’è stata sicuramente l’interruzione di un flusso. Ma piano piano ha preso vita un registro diverso che prevede l’alternanza e la somma di un’attività dopo l’altra.
Sono soddisfatta di quello che abbiamo creato, in un rapporto sempre più stretto con la direzione di Giorgio Barberio Corsetti e le attività degli altri teatri. Inoltre abbiamo passato una magnifica estate a India, dove è successo di tutto: il recupero degli spettacoli, i concerti, l’arena cinematografica all’aperto. Per poi programmare una stagione che si è interrotta nuovamente e spalancare allora le porte alle compagnie per le residenze. Sono sicura che quando riapriremo sarà ancora più polifonico, perché si aggiungeranno tutte le cose che sono successe e che prima non avevamo immaginato.
Quest’anno passerai il testimone della direzione artistica di Short Theatre a Piersandra Di Matteo, in un’edizione collaborativa. Da cosa è maturata questa decisione?
Già da tempo io e Fabrizio Arcuri stavamo maturando l’idea della conclusione di un ciclo. Abbiamo riflettuto molto su come dovesse avvenire questo avvicendamento ma poi il nome di Piersandra Di Matteo emergeva continuamente. Porterà uno sguardo alleato ma, allo stesso tempo, un vero cambio di direzione. Il 2021 è un anno di passaggio per tutto il sistema teatrale italiano, il Ministero inizierà eccezionalmente il triennio nel 2022 e la progettazione ne è necessariamente influenzata. È un anno trasformativo in cui ci si continua ad allenare prima di risbocciare completamente, spero, durante il prossimo.
Condurremo quindi questa trasformazione insieme, all’inizio non me lo ero immaginato ma è molto prezioso, corrisponde all’etica che vogliamo affermare da quindici anni con questo festival: non si tratta di voltare le spalle al passato ma di lasciarlo guardando negli occhi chi sta arrivando, prendersi cura di questo passaggio nel totale rispetto dello spazio della nuova direttrice artistica.
Hai lavorato molto in Francia ed è un contesto che conosci bene. Ti colpisce qualcosa del movimento di occupazione dei teatri?
In qualche modo me lo aspettavo, lo sentivo arrivare dai discorsi della comunità artistica francese e anche di chi dirige i teatri. Sono occupazioni in complicità con i direttori e le direttrici, per fare delle richieste al ministero e al governo. È molto interessante il fatto di cercare di essere un laboratorio intersezionale in cui il teatro è la piazza. Ci sono delle rivendicazioni di settore ma queste coabitano con riflessioni sul sistema intero, dando visibilità anche alle lotte di altre categorie.

Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.