La relazione a distanza tra teatro e pubblico nella crisi pandemica

La relazione a distanza tra teatro e pubblico nella crisi pandemica

Ventiquattro febbraio 2020: chiudono i teatri, si pensa – spera – soltanto per poco. Appena due settimane e arriva invece, improvviso, il lockdown, e coloro che si muovono attorno e all’interno dell’organismo vivo del teatro assistono al venir meno non solo della possibilità di esibirsi concretamente davanti a un pubblico, ma anche della linfa vitale costituita dal legame con i singoli spettatori che, insieme, seduti l’uno accanto all’altro, formano la rete capillare di un altro corpo vivo e pulsante che si raddensa ogni volta in quell’incontro.

Ma finché esiste l’uomo il teatro non muore, nemmeno nella minaccia di esser privato del suo elemento essenziale, e per ogni lavoratrice o lavoratore che vi fa parte, dopo un primo  e comprensibile spaesamento, inizia un tempo di riflessione e presa di coscienza, di mobilitazione nella forzata immobilità: in quel tempo confuso e straordinario, tutto sembrava difficile persino da immaginare, ma vi era uno sguardo via via sempre più lucido sia sulle criticità sia sulle potenzialità finora rimaste nascoste.

A un anno e poco più da quel fatidico febbraio 2020, e in una prospettiva di graduale riapertura, è possibile volgere lo sguardo indietro e ripercorrere un tempo – di certo non ancora concluso – fatto di difficoltà, ma anche consapevolezze, esperimenti, resilienza, rivendicazioni, necessità e, nella fattispecie, di tentativi attuati per mantenere in vita il legame con il pubblico, partendo dal bisogno di perpetuare il teatro, ma arrivando forse a qualcosa che, pur mantenendo questi intenti, se ne è al contempo discostato.

Il nodo cruciale non è stato poi lo sterile dibattito tra i pochi, pochissimi, fautori e i tanti detrattori del teatro in streaming, che ha comunque avuto una funzione, uguale o differente che sia, per ogni spettatore che vi si è rapportato, quanto l’affiorare di un bisogno – il bisogno del teatro come incontro – che si è concretizzato ogni volta in varie forme. Una tra le strade intraprese è stata quella di alimentare il confronto e la relazione, o anche solo la conoscenza, sfruttando le risorse della rete e dei programmi di videoconferenza che hanno messo a contatto sia i professionisti tra loro sia con il pubblico, quest’ultimo invitato più meno implicitamente a prendere parte a un sistema di cui prima vedeva solo la punta dell’iceberg, pur essendo indispensabile elemento della comunicazione.

Il pubblico e l’aspetto creativo

Oltre a essere chiamato a partecipare alla  riflessione collettiva, è avvenuta una più decisa spinta di inglobamento quando alcune realtà hanno provato a coinvolgere il pubblico in attività finora rimaste nascoste, ovvero quelle che precedono la realizzazione di un’opera teatrale. Oltre alla messa in onda di video, spesso in diretta, attraverso cui i teatri hanno mostrato –  e continuano tuttora a mostrare – le prove di spettacoli momentaneamente sospesi, vi sono stati esperimenti interessanti come il ciclo di incontri ancora in corso Apriamo le stanze del progetto torinese  Fertili Terreni Teatro: tramite Zoom, gli artisti hanno condiviso i processi creativi alla base del proprio lavoro, favorendo un dialogo con un pubblico curioso, seppur impacciato dal mezzo che, pur ricreando un certo senso di vicinanza, è rimasto spesso una barriera ancora difficile da valicare.

Seguendo tale indirizzo di azione, pur senza un coinvolgimento in diretta, anche il Teatro Stabile di Torino ha sviluppato il progetto Camere nascoste – svelare il teatro a porte chiuse, con una serie di tre docufilm curati dal regista e videomaker Lucio Fiorentino che raccontano al pubblico cosa accade nelle scene e nei teatri ancora chiusi, ma dove le attività proseguono, assecondando l’esigenza di condividere le sensazioni, i pensieri e le emozioni che accompagnano la creazione.

Tali esperimenti, che potrebbero sembrare a prima vista appigli o palliativi, hanno di fatto determinato l’apertura di una feritoia attraverso cui osservare quel che era difficilmente accessibile, o neanche si prendeva in considerazione, a sale aperte.

Il teatro in ascolto

Urgente si è fatto inoltre il bisogno di esplorare nuove forme espressive.
Inevitabilmente accantonato l’elemento corporeo e il visivo della compresenza, demandati alla trasmissione su schermo, rimaneva aperta un’altra, salvifica, possibilità: sondare il territorio dell’immaginazione attraverso due elementi che invece potevano ancora sussistere: la voce e l’ascolto.

Questa strada, comunque, era stata presa in considerazione ancor prima delle restrizioni: il centro di ricerca e produzione teatrale Campisrago Residenza, in un tempo di poco precedente alla pandemia, aveva infatti già pensato a uno spettacolo rivolto principalmente all’infanzia, nato a partire dalla raccolta di Gianni Rodari Favole al telefono, che avrebbe potuto svilupparsi in due modi: in presenza, o a distanza attraverso, per l’appunto, il telefono; in fin dei conti, quello in cui lo scrittore aveva concepito la narrazione. Cause di forza maggiore hanno inevitabilmente portato allo scarto della prima possibilità, in favore di un incontro, poiché la parola “spettacolo” inizia ormai a perdere di senso venendo a mancare la componente visiva.

Qui arriva, dunque, il momento di chiedersi: il bisogno che in condizioni normali determina l’avvicinarsi del pubblico al teatro, e viceversa, è ancora lo stesso, o è diventato qualcosa di più profondo?

Escludendo il mero intrattenimento e l’intenzione del genitore di distrarre un bambino costretto a stare in casa, si è recuperato qui il senso d’intimità dell’ascolto, attraverso una parola che si fa cura per l’inquietudine, evasione, carezza. L’esperimento è stato portato anche all’interno della Terapia Intensiva di Reggio Emilia, su richiesta della dottoressa Chiara Trenti, che ha potuto assistere in prima persona al prodigio che si genera: «le parole non guariscono, ma curano. La  voce in ascolto dell’altro è un balsamo antico, costruisce visione, in un tempo tanto complesso per le relazioni». Tanto necessaria che le richieste sono pervenute da ben trecento comuni e da molte famiglie residenti all’estero.

Durante la seconda fase dell’epidemia, a novembre 2020, ha seguito quest’onda anche il progetto Consultazioni musicali al telefono, iniziato in Francia e proseguito in Italia col Teatro La Pergola di Firenze, che ha messo in contatto un musicista e un ascoltatore collegati telefonicamente previo appuntamento. Si tratta di un incontro tra due sconosciuti dove l’artista diviene una sorta di dottore che chiede al paziente dove si trova e come si sente in quel momento; al termine del dialogo, il primo esegue un brano musicale al telefono ispirato allo scambio avuto e, sul finale, rilascia una “prescrizione poetica”: una medicina ad hoc e priva di effetti collaterali che porta ad alleviare il sintomo della solitudine e supplisce al bisogno di meraviglia.

La necessità di tenere saldo il legame e la connessione con l’altro non avviene dunque solamente tra amici e persone care ma, in un nuovo senso di intimità, si ricerca e stabilisce positivamente tra persone sconosciute unite dal filo invisibile di un telefono lungo cui corre l’arte della cura o la cura dell’arte, che dir si voglia.

E qualcosa di simile, ma con un mezzo interamente digitale, è accaduto per la stagione 2020/21 dell’Unione Reno Galliera di Agorà, curata da Elena Di Gioia.
La parola soffiata – rassegna di letture sonore tenutasi da ottobre a febbraio in diretta Zoom – è stata una sorta di videochiamata al buio in cui l’attore o l’attrice hanno recitato, in diretta dalle sale consiliari degli otto comuni dell’Unione, un monologo poetico e introspettivo, senza avere però la possibilità di interagire col pubblico, che ha dato il suo feedback solo al termine dello spettacolo attraverso la chat.

Ciò che normalmente avviene entrando in un teatro, ovvero l’impatto col pubblico in sala, diventa qui un numero, quello degli utenti che stanno condividendo la stessa esperienza; e cliccarvi sopra per leggere i loro nomi è l’unica possibilità  per venire incontro al bisogno di familiarizzare con queste presenze. Le reazioni sono affidate alle emoji, alla parola “applausi” scritta, nel labile tentativo di esserci nell’invisibilità, nel mostrare la gratitudine e l’apprezzamento che il mezzo consente dopo essersi calati in uno spazio astratto e indefinito, dove non è possibile vedersi, ma al contempo si avverte un senso di comunanza. Qui il cerchio si allarga e la lettura non è più esclusiva come in una chiamata uno a uno o uno a pochi, ma sembra in effetti che lo sia, al chiuso di una stanza e forse a occhi chiusi, mentre si viene trasportati dal flusso benefico delle parole.

Gli esperimenti di teatro-delivery

In questo “spazio altro” è stato possibile assistere a una modificazione del rapporto artista-spettatore, laddove il secondo ha probabilmente avuto una maggiore percezione del bisogno del primo, che nonostante la distanza e il mezzo che si frappone, diviene paradossalmente più vicino, forse persino più umano; come se mittente e destinatario si trovassero in una posizione di maggiore equilibrio, per il bisogno che si fa più evidente e che bilancia e accomuna: trovare, farsi trovare; dare e ricevere.

Ed è questo anche il caso delle esperienze di teatro-delivery che hanno preso sempre più piede durante l’anno trascorso, in cui il teatro cessa di essere un luogo statico da raggiungere e diviene l’elemento mobile, che accorre per colmare i vuoti delle strade, dei cortili, delle case e, infine, degli animi.

In realtà, già dal 2009, Ippolito Chiarello – attore e fondatore delle USCA, le Unità Speciali di Continuità Artistica – porta avanti spettacoli itineranti con il suo progetto di Barbonaggio teatrale, pensato per mettere l’arte ancor più a servizio della comunità e del territorio, rinsaldandone il legame. Con l’arrivo della pandemia e la chiusura pressoché permanente dei teatri, questa modalità è parsa la strada d’elezione per mantenere il rapporto in presenza col pubblico, ed è stata fatta propria da molti artisti che hanno risposto al richiamo da diverse città d’Italia, da nord a sud; chi spostandosi in bicicletta, chi a bordo di una vespa come la compagnia Carullo-Minasi a Messina. Il format è simile a quello di una vera e propria consegna: si chiama, si ordina una performance dal menu, e si attende l’arrivo dell’artista, che porta sotto casa un pezzo di teatro, una serenata o una poesia.
Il progetto si è inoltre dilatato ulteriormente con il festival itinerante USCire A primavera, corso in bicicletta lungo tutta la penisola a fine marzo di quest’anno.

Le tante telefonate giunte hanno certamente decretato il successo di queste iniziative – un po’ per la loro peculiarità, un po’ per sostenere emotivamente se stessi e gli artisti in un momento così critico per il settore – e si sono sviluppate anche in forme ibride:  dalle Favole al citofono, sempre ispirate alla celebre raccolta di Rodari, portate in ascolto a domicilio dal Teatro Dei Venti di Modena, fino all’idea sperimentale di Coprifuoco, nata dalla collaborazione tra Kepler-452 e Agorà, e proseguita poi nella serie Consegne; forse più di tutti, l’emblema di questo nuovo modo di mantenere viva la relazione con lo spettatore.

Quello che andato modificandosi, in quest’ultimo caso, è inevitabilmente ciò di cui si diventa spettatori: se a teatro si è consapevoli di assistere a una finzione che prende sovente spunto nella realtà, adesso lo scarto diviene minimo, se non si annulla del tutto. Si è spettatori, attraverso uno schermo, delle città deserte altrimenti invisibili; e l’attore, ormai sempre meno attore, è un rider che documenta, che colma la solitudine del suo viaggio in bicicletta instaurando un dialogo con il destinatario della consegna, a cui pone domande più intime per conoscerlo meglio; e improvvisa di volta in volta, si ferma, esita, forse smette a un certo punto la propria parte. La relazione è nuova e atipica, si fa ascolto reciproco, e si concretizza alla fine in un incontro dal vivo, a distanza, dove il confine tra teatro e vita diventa impercettibile, e anzi l’uno si sovrappone in trasparenza all’altra.

In conclusione 

Tornando a oggi e aprendo un qualsiasi quotidiano o sito d’informazione, si inizia a vedere qualche barlume di speranza per il ritorno a un teatro in presenza, l’unico che possa davvero definirsi tale, sebbene i numerosi tentativi appena passati in rassegna siano chiari segnali di un rapporto e di un bisogno che resiste, e che anzi si fa più forte, nella distanza.

E sebbene il momento sia di estrema difficoltà, è impossibile non notare che qualcosa di positivo è indubbiamente scaturito, e da lì si potrebbe in futuro attingere per arricchire ciò che finora è significato fare teatro: tenere insieme persone geograficamente distanti, fare rete tra i professionisti, portare il teatro fuori dal teatro, coltivare una relazione esclusiva e confidenziale con lo spettatore, farlo partecipe del percorso di creazione; tutti elementi che potrebbero sopravvivere come controcanto nel legame tra pubblico e teatro e, a un livello ancor più profondo, tra individuo e individuo.

Stanze aperte agli spettatori. Viaggio nel teatro di figura con la compagnia MaMiMò

Stanze aperte agli spettatori. Viaggio nel teatro di figura con la compagnia MaMiMò

“La necessità aguzza l’ingegno”, ricorda l’antico proverbio latino. Una constatazione che si affaccia spontanea, quando si osserva come lo spettacolo dal vivo stia reagendo alle attuali circostanze, con idee e formati innovativi per sopperire al vuoto lasciato dalla chiusura dei teatri e dalla sospensione di qualsivoglia performance dal vivo.

Come sempre, ultimamente, è il digitale a consentire nuove opportunità d’incontro, come quella raccolta da Fertili Terreni Teatro – progetto torinese di Acti Teatri indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà e Il Mulino di Amleto – che ha organizzato Apriamo le Stanze, connessioni teatrali, il ciclo di appuntamenti (ogni giovedì alle 19:00, a partire dal 26 novembre, su Zoom) in cui gli artisti apriranno virtualmente le stanze della loro mente e dei laboratori fisici agli spettatori. 

Il primo della serie, dal titolo L’uso della fiaba nella ricerca dell’identità attraverso il teatro di figura, ha introdotto il pubblico negli spazi creativi del teatro di figura con la compagnia MaMiMò e il loro spettacolo d’ombre La meccanica del cuore (La mécanique du cœur, 2007), tratto dal romanzo francese di Mathias Malzeiu.

È Marco Maccieri – direttore artistico del centro teatrale insieme ad Angela Ruozzi (che si è occupata di condurre e moderare l’evento) – a parlare di come è nata questa idea, ma gli spettatori ne vengono a conoscenza solo dopo aver assistito al trailer: una visione contemporanea e condivisa che ha permesso di venire a contatto con la performance un po’ a scatola chiusa, senza sapere ancora nulla al riguardo.

Maccieri racconta dunque a grandi linee della suggestione che ha colto durante un viaggio in treno, accompagnato dalla lettura di questo breve romanzo. Una favola, sostanzialmente, una storia molto semplice nella trama, pop e popolare (a cui il loro teatro aspira per poter essere accessibile a tutti), che proprio per queste caratteristiche ha colpito nel segno, costituendo un punto di partenza per riflessioni profonde attorno al tema dell’identità.

Alla scoperta della storia e dei laboratori creativi

È il 1874 e, nella notte più fredda del mondo, in una casetta sulla più alta collina di Edimburgo, il piccolo protagonista Jack nasce con un cuore completamente ghiacciato; sarà la levatrice un po’ strega Madeleine ad applicare a quel cuore difettoso un congegno, per salvarlo: un orologio a cucù, la cui meccanica perfetta potrebbe però essere danneggiata rovinosamente dalle emozioni, in particolare da quelle scatenate dall’amore. 

Ma è impossibile per Jack, come per qualsiasi altro essere umano, tenersi al riparo da un sentimento a tal punto potente, cosicché, all’età di dieci anni, il suo cuore inizia ticchettare fin troppo forte per la cantante andalusa Acacia, contesa col suo rivale Joe; una passione che lo condurrà in giro per l’Europa in compagnia di Georges Méliès, un consigliere personale d’eccezione. La sua figura di regista e in particolare di illusionista, modello archetipo della storia del cinema, in aggiunta alle atmosfere dark e burtoniane presenti nell’opera, si riconnette perfettamente al genere peculiare dello spettacolo. 

MaMiMò
Ph Nicolò Degl’Incerti Tocci

«Le ombre sono infatti illusioni e allusioni» – spiega Fabrizio Montecchi, direttore artistico insieme a Nicoletta Garioni del Teatro Gioco Vita di Piacenza, il centro di produzione specializzato in teatro d’ombre che si inserisce come aiuto fondamentale nel tradurre visivamente l’idea, ancora solo astratta, dei MaMiMò. La collaborazione diviene qui un incastro esatto, laddove Fabrizio, pur possedendo gli strumenti, dopo aver letto il medesimo romanzo, non aveva sentito quel clic necessario che lo spronasse a farne uno spettacolo.

Viene esplorata, dunque, con la guida degli artisti, la dimensione pratica del lavoro, svolto a partire dallo studio sul corpo, sul ritmo e sulle posizioni, e in obbedienza ai tempi limitati dell’ombra, aspetti difficilmente comprensibili al pubblico, che si è quasi sempre limitato a osservarli dalla platea. Qui, invece, è stata data la possibilità di addentrarsi fin dentro il laboratorio dell’Officina delle Ombre, accompagnati da Nicoletta Garioni.

È stata lei a occuparsi infatti della costruzione delle sagome, per rendere apparentemente immateriali oggetti fatti di cartone e policarbonato, traducendoli in personaggi e stati emotivi, attraverso la ricerca di una certa grafia nello stile: «come tradurre, dunque, le pulsazioni di un cuore meccanico?» – è una tra le tante domande che ha dovuto porsi durante il processo di creazione.

Per rendere tutto più comprensibile, Nicoletta mostra allora i suoi disegni, illustrando il suo immaginario sorto attorno ai personaggi: i grandi occhi di Acacia tutta dipinta di nero, il cuore incastonato dentro il marchingegno, un grande intrico di vene e arterie come rami o radici di una foresta, e il personaggio di Madeleine, immaginato come quello di una matrona e dunque, infine, di una montagna.

Dentro il teatro e l’atto performativo

Dopo essere entrati in connessione con questa fase creativa, è il momento di approfondire l’atto performativo, con l’attore dei MaMiMò, Fabio Banfo, che recita il monologo finale affidato a Méliès. La sala del Teatro del Piccolo Orologio di Reggio Emilia, che la compagnia ha in gestione da anni, vista da una prospettiva inconsueta, con l’attore di spalle alla platea e gli spettatori a guardarla frontalmente, potrebbe fare uno strano effetto, con le sedie rosse e vuote sullo sfondo.

Il breve monologo dà lo spunto a Banfo per raccontare meglio la figura del celebre regista, che si colloca a metà strada tra teatro d’ombra e cinema; cruciale, diventa inoltre la relazione tra l’arte e la vita e la ferita che si evince nel testo, dove i consigli di Méliès a Jack diventano alla fine consigli dati a sé stesso, toccando un senso di paura che accomuna in egual modo esseri umani e quasi-umani.

In teatro, è presente  anche Cecilia Di Donato, attrice della compagnia, che rivela invece ciò che avviene al di qua del telo, tanto differente nelle dinamiche rispetto a ciò che si vede al di là. «A volte lo spettatore ha la sensazione che la mia ombra si trovi appena dietro, e invece io sono lontanissima!» – esclama. È lei, inoltre, a mostrare le sagome pensate da Nicoletta, i movimenti affidati alle sue mani, svelando qualche trucco del mestiere e raccontando quanto il lavoro sia stato un momento – a tratti anche faticoso fisicamente – di formazione, attraverso il quale ha imparato a “respirare con l’ombra”

Uno studio che, ricordano, è stato approfondito materialmente dai residenti in Emilia-Romagna durante il corso di formazione in tecniche e i linguaggi del teatro di figura: Animateria del Teatro Gioco Vita che, per la sua seconda edizione 2020, si è svolto in modalità mista: a gennaio, in presenza, per concludersi in primavera, inevitabilmente, a distanza.

A tal proposito, l’ultima cosa che gli artisti regalano al pubblico sul finire di questo incontro virtuale è un momento inedito, una chicca tirata fuori durante il periodo del lockdown; li si ri-invita, infatti, a guardare un breve sketch, dove il testo, rimaneggiato in senso ironico, restituisce i personaggi di Jack e Acacia ai tempi del Covid, ossessionati dall’ansia del contatto e da questo nuovo, bizzarro modo di approcciarsi all’altro. Anche un modo per stemperare con la leggerezza il difficile momento che il teatro sta attraversando.

Aprire le stanze per dialogare, superare il pregiudizio ed esplorare nuovi mondi

Trascorsi i sessanta minuti prefissati, gli artisti, che hanno ospitato la piccola folla invisibile per un tempo ben speso, si congedano, ma non prima di chiedere se qualcuno ha le classiche, eventuali, domande. Era infatti anche, soprattutto, questo il senso dell’incontro.

I dialoghi, ormai sempre meno rari col pubblico, offrono infatti la grande opportunità di conoscere aspetti dello spettacolo dal vivo mai indagati prima, ancor meno, probabilmente, se si tratta di teatro di figura e d’ombra, genere che – ci ricorda Fabrizio Montecchi – è ancora ammantato da un nebuloso pregiudizio: così popolare nel Settecento e Ottocento, poi decaduto, e oggi collocato in quella che può essere definita la “preistoria del cinema”. 

Incontri come questo dovrebbero servire allora a scavalcare il preconcetto, che si accompagna spesso all’idea che questi siano soltanto spettacoli per bambini. Niente di più sbagliato. E pare quasi incredibile, quando si è costretti a chiudere per troppo tempo la porta di casa dietro di sé e passarci dentro tutto questo tempo, di poterne invece aprire altre, impensate, che danno su mondi fantastici, finora rimasti nascosti.

Prossimi appuntamenti in programma:

CANDY-Do – Compagnia ContrastoGiovedì 3 dicembre ore 19:00 
 FAHRENHEIT – Compagnia Il Mulino di AmletoGiovedì 10 dicembre ore 19:00
INSIDE PERSPECTIVE/DIREZIONE PUBBLICO – Sciara ProgettiGiovedì 17 dicembre ore 19:00