Costante nella sua evoluzione è l’impronta che contraddistingue la ricerca e le creazioni del coreografo Fabrizio Favale. Un processo ciclico e coerente che ha origine nel 1999, anno di nascita della sua compagnia Le Supplici.
Parafrasando e prendendo in prestito alcuni tra i titoli delle sue opere emerge forte la sensazione di una connessione impalpabile tra Kauma (dal greco, stato di calma), Un ricamo fatto sul nulla,Orbita, Le stagioni invisibili – Ciclo coreografico infinito.
Quello di Favale – Premio della Critica nel 1996 come miglior ballerino italiano dell’anno e Medaglia del Presidente della Repubblica al talento coreografico italiano nel 2011 – è un approccio possibile alla coreografia dove si instaurano relazioni tra immaginari lontani.
L’antica Grecia è la casa d’origine, il luogo della memoria insito nel nome scelto per la compagnia, le cinquanta figlie di Danao, re di Libia e di Argo. Dal mito delle Danaidi Eschilo ha tratto ispirazione per Le Supplici, una tragedia che da millenni parla di temi attuali come l’esilio, la potenza e la prepotenza del patriarcato. L’odio tra i sessi e un messaggio universale: è necessario ribellarsi per preservare le idee, i valori, la virtù.
« Lasciammo la terra di Zeus | che con la Siria confina e fuggimmo esuli | non perchè condannate da pubblico voto | per colpa di sangue | ma perché ripudiamo uomini della nostra stirpe | e ripugniamo il connubio e l’empio progetto | dei figli di Egitto ».
Le Supplici, rifiutando la Legge di Afrodite, sono antesignane di una rivoluzione del corpo ante litteram. Capitane coraggiose, che ben conoscono i supplizi e le suppliche che il loro nome evoca e contiene:
« […]accogliete questa schiera di donne che supplicanoe mite sia per loro il respiro di questa terra»
Favale ha realizzato e realizza l’obiettivo di recuperare le atmosfere mitologiche e la grammatica del corpo, il primo e fondamentale filtro di lettura e comprensione del mondo. Un’indagine, la sua, che porta a scoprire in che modo cambia il movimento sviluppando la capacità di ascolto. Qualcosa che, muovendo dall’interno verso l’esterno, trasforma il fisico dei danzatori.
Come un disegno astratto, il corpo può essere mappa, fonte e medium. Ogni elemento che scaturisce dall’improvvisazione, mediante il ricordo, tende alla costruzione di un linguaggio non verbale. L’esperienza è funzionale per innestare qualcosa di nuovo e di ibrido. La memoria, invece, è necessaria per codificare un dizionario. Utile per la comunicazione, per catalogare e trasmettere agli altri i risultati di una ricerca infinita.
La ricerca coreografica, artistica, è un esercizio solitario o collettivo?
Penso possa essere l’uno o l’altro, o tutti e due contemporaneamente. Dipende forse dal lavoro che si intraprende. Io ad esempio lavoro molto in solitaria in fase di ideazione e studio. Dopo riporto le mie idee al gruppo e lascio che si modifichino in base alle diverse sensibilità dei danzatori.
Qual è il tuo rapporto con la solitudine?
Mi piace. Mi piacciono il silenzio e la contemplazione. Non amo la confusione e i posti affollati. Nonostante faccio un lavoro pubblico, quando sono in pubblico sono sempre a disagio e non vedo l’ora di andare via. Però mi piace anche sapere che c’è qualcuno al mio fianco che mi spalleggia.
La voglia di raccontare, attraverso il linguaggio del corpo, il processo intimo e misterioso che sta alla base dell’atto creativo, è venuta meno con l’invasione tecnologica?
Penso che la tecnologia sia un’estensione di linguaggio del nostro stesso corpo. Ma è un’estensione che si perde nel caos di altri miliardi di estensioni (tanti quanti sono i miliardi di persone sulla Terra), e quindi è come se fosse un canto stonato e corale, che non è raccolto da nessuno in particolare. Il processo intimo e misterioso di cui parli è un’altra cosa, perché una buona idea può venire sia in mezzo alla confusione sia nella propria intimità.
Un elemento presente in molte tue opere è il sogno. È la scintilla, la forza centrifuga che spinge l’uomo verso la scoperta, l’avventura, l’ingegno?
Per come lavoro direi di sì. L’esplorazione del paesaggio per me è anche sempre la questione dell’incertezza, perché quando guardo là fuori non so mai bene quello che sto vedendo e quello che sto sognando.
La Danza abbraccia l’immaterialità del sogno, della realtà virtuale, ma anche la materia, la concretezza. Sarebbe auspicabile che ci fossero fondi maggiori per implementare i centri di produzione e, forse, una trasformazione sul modello francese in teatri nazionali per la danza?
Totalmente d’accordo con te. Se l’Italia si dotasse di teatri nazionali per la danza sarebbe una cosa meravigliosa. Quale pensiero è più avanguardistico ed ecosostenibile dell’investimento su qualcosa di immateriale ed evanescente? Ma prima bisogna guardare bene in faccia il pensiero di fondo che ne blocca la realizzazione. È davvero difficile riuscire a capire che l’immaterialità del sogno di cui la danza si nutre, mescolandosi per qualche istante alla materia del corpo, abbia anche un valore economico. Il movimento stesso, qualcosa che si muove, come la danza, che la rende così effimera e sfuggente, che compare per il tempo che compare e poi non ne resta nulla, se non un ricordo, sembra essere un insormontabile deterrente per l’investimento economico. Forse è per questo che la danza ha sempre meno risorse delle altre arti. Allora forse il pensiero di fondo da smascherare potrebbe essere questo: perché devo investire in qualcosa che dopo un’ora non c’è più?
Il momento che stiamo attraversando ha influito sulla tua drammaturgia? Se sì, come?
Sono rimasto impressionato dall’arrivo degli animali. Una sera, guidando di notte in scooter su per le montagne del bolognese, ma in mezzo a un centro abitato, ho visto un tasso. Un tasso! Già da qualche anno mi sentivo attratto dai linguaggi di altre forme di vita. Quale occasione migliore di questa vicinanza con quelle meravigliose creature?
Uno dei tuoi ultimi lavori è Le stagioni invisibili – ciclo coreografico infinito. Come è nato e come si è evoluto questo progetto? Disegna nuovi orizzonti o percorsi praticabili per lo spettacolo dal vivo?
Nel mio percorso certamente sì. Per me è una continua esplorazione che ormai non ha quasi più nulla a che vedere con la creazione di coreografie per il teatro. È come se mi fossi messo lo zaino in spalla. Lo appoggerò solo quando farò ritorno a casa.
Umano, alieno/straniero, ultraterreno tendono a confondersi sempre di più o ad avere spazi separati all’interno della tua drammaturgia e della tua ricerca coreografica?
L’incontro con altri esseri ci mette in una condizione che per me è irresistibile. È il desiderio di stabilire una qualche comprensione reciproca, e lo sforzo che entrambi (io e il cane, io e lo straniero, io e l’alieno) dobbiamo fare per trovare un linguaggio intermedio che non è né il mio né il suo.
The wilderness – niente di tutto ciò è reale. Puoi raccontarci qualcosa su questo progetto?
È la descrizione di un paesaggio irreale che appare dentro un ambiente reale (il teatro). E questo paesaggio è vagamente psichedelico, optical. Le 11 danze che lo compongono a tratti mi ricordano dei frattali che sbocciano. O una macchina dagli ingranaggi che si allineano in sincronie casuali. Tuttavia, quello che sfugge da questo senso geometrico e ripetitivo che abbiamo costruito è un umore selvaggio che si percepisce come qualcosa di incontrollato che avanza e rigoglia dentro una cosa ordinata. Per me è la terra selvaggia, the wilderness.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
«Se cerchi l’inferno, chiedi agli artisti» la voce ferma è quella di Roberto Zappalà che racconta, si muove, osserva da uno dei quattro angoli della pedana centrale, essenziale e bianca, all’interno dell’Arena che sorge a pochi passi dal Gazometro di Roma.
«Se non trovi gli artisti sei già all’inferno». Zappalà è il coreografo e il direttore artistico della omonima compagnia di danza, fondata nel 1989 a Catania. La città che con la sua Piana circonda il vulcano Etna, insieme con i monti Nebrodi e il Mar Ionio.
A lui l’onore di inaugurare la quinta edizione di Fuori Programma, il Festival internazionale di Danza Contemporanea, prodotto da European Dance Alliance/Valentina Marini Management con il contributo di Roma Capitale, in collaborazione con il Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biblioteca Quarticciolo e V Municipio. Il debutto è avvenuto il 28 luglio, al Teatro indiadi Roma, nell’ora che volge al tramonto, con lo spettacolo Lava Bubbles.
Zappalà rievoca le suggestioni di un’eruzione magmatica che può essere interpretata come un fenomeno naturale, un mistero antico, un viaggio simbolico all’interno di tanti sguardi. Occhi che accolgono le contaminazioni, i contenuti.
I pensieri rapidi, impalpabili come le bolle. Sfere fragili che si dissolvono, come cenere e lapilli, così è la vita degli uomini. Un soffio che, in una frazione di tempo, riproduce la quotidianità e poi finisce. La vita, la morte sono rispettivamente la ripetizione o la cessazione di quel respiro. Un anelito che incorpora il materiale e l’immateriale, nell’evoluzione di ogni storia, di ogni corpo.
Due percussionisti al centro della scena creano una rete sonora, suonando live per tutta la durata dello spettacolo, diventando parte integrante della performance. Uno alla volta, le danzatrici e i danzatori entrano nello spazio scenico, provenienti da direzioni diverse, rispettando la sacralità del luogo. Ognuno di loro sembra ripetere il rituale nipponico di accedere e camminare a piedi nudi sulla superficie di un tempio, di una casa o di un tatami.
Nove performer, protagonisti con i loro corpi differenti per struttura, morfologia e caratteristiche cromatiche. Sono Maud de la Purification, Filippo Domini, Marco Mantovani, Sonia Mingo, Adriano Popolo Rubbio, Fernando Roldan Ferrer, Valeria Zampardi, Joel Walsham ed Erik Zarcon. Il linguaggio scenico, i codici della danza, il lavoro sul corpo sono elementi di indagine, come un trattato di antropologia sociale. Persone che entrano in relazione tra di loro, con i luoghi, e diventano contenitore e contenuto.
La coreografia di Lava Bubbles è concepita in funzione di uno sguardo circolare, il movimento dei danzatori non asseconda un punto di vista frontale. Il moltiplicarsi degli sguardi possibili è la logica e la forza dello spettacolo. La visuale sconfinata favorisce un incremento delle possibilità drammaturgiche. Le unioni, le rotture, i conflitti del genere umano. Le oscillazioni e l’imponderabilità della vita.
L’imprevisto è la parola chiave che caratterizza la seconda serata di Fuori Programma. Il secondo appuntamento, affidato alla scrittura coreografica di Fabrizio Favale, si trasforma in una inedita e originale versione solista di “Lute”.
“Lute” – Daniele Bianco. Ph Piero Tauro
La creazione per due danzatori deLe Supplici, per improvvisi motivi di salute di Vincenzo Cappuccio, diventa il solo act di Daniele Bianco. A lui l’onore e l’onere di proporre al pubblico di Fuori Programma la geometria delle sequenze coreografiche, un po’ di quel sogno scintillante, di quelle storie fantastiche che caratterizzano la drammaturgia, l’estetica e la visione artistica di Fabrizio Favale.
Forse l’immagine più bella che rimarrà impressa nella memoria degli spettatori sono le simmetrie tra cielo e terra, la corrispondenza tra il volo dei gabbiani nel cielo e le traiettorie disegnate a terra, sulla superficie della pedana, da Daniele Bianco.
Chiude la terza serata del FestivalLastSpace, opera concepita e coreografata da Marco Di Nardo per Frantics Dance Company. Arriva a Roma da Berlino, con la sua crew composta da Juan Tirado, Carlos Aller e, per la musica dal vivo, da Andrea Buttafuoco-Molotoy. L’obiettivo è quello di incorporare urban dance, tecniche di improvvisazione e danza contemporanea.
Un macro progetto strutturato come una trilogia. Il primo capitolo,Last, ha debuttato nel 2017 nell’ambito del Festival berlinese Tanztage che si è svolto negli spazi del teatro indipendente Sophiensaele. Last Space, il secondo capitolo, è stato creato a Chania, la città gioiello dell’isola di Creta, in Grecia, in collaborazione con il Chania Dance Festival.
Dalla versione indoor è nata una variante open space che ha vinto il secondo premio all’International Coreographic Competition di Hannover, svoltosi dall’1 al 6 giugno 2020. La transizione dal chiuso dei teatri agli spazi esterni ha determinato l’adattamento della performance allo stile della strada e dell’ambiente urbano.
Last Space – Frantics Dance Company. Ph Piero Tauro
A Fuori Programma, lo spazio scenico è centrale e, in assenza di pedana o di un palcoscenico, la performance assume il carattere di un’esperienza vissuta in comune. Proprio perché il piano di riferimento è lo stesso, così come il livello di coinvolgimento emotivo. Last Space è sudore, polvere, materia, movimenti sincronici nello spazio, suoni elettronici, emozioni, empatia.
Aggregando sonorità e movimenti si realizza la fusione alchemica tra musica e danza. Per ogni battito al minuto, un impulso del corpo. Onde sonore, passi di danza, intere sequenze si propagano nello spazio dell’Arena. La dinamica delle azioni dei performer investe la situazione calma, statica degli spettatori.
Marco Di Nardo, Juan Tirado e Carlos Aller spingono al massimo l’intensità del momento, la percezione soggettiva del tempo. Raggiungono il climax spezzando la monotonia della ripetizione. Sfiniti, con i vestiti logori e macchiati dagli sforzi della fatica, ma sorridenti e visibilmente soddisfatti. Conclude la prima parte del Festival, il live set Musique d’ameublement, la musica elettronica di Andrea Buttafuoco incontra il violoncello di Carmine Iuvone e la tromba di Domenico Rizzuto.
A Valentina Marini, direttrice artistica di Fuori Programma, abbiamo rivolto una breve intervista che conclude il racconto sul Festival.
C’è una riflessione che vuoi condividere come ricordo conclusivo della tre giorni?
Sicuramente un senso di grande pienezza, di appagamento e soddisfazione. Il fatto di aver organizzato le attività all’esterno ha dato un altro colore al Festival, grazie anche al tempo favorevole e alla bellissima location. Il sostegno del pubblico è stato determinante. La cosa che mi ha colpito è proprio l’ondata di spettatori, una “gentile bassa marea”.
Un’onda di persone, piacevolmente affascinate, che si sono lasciate coinvolgere,con una partecipazione veramente spontanea. L’ambiente all’aperto favorisce una condivisione di piacere in una dimensione di naturalezza. Quello che rimane alla fine, a livello di sensazioni, contrasta e bilancia in positivo tutti gli sforzi immensi fatti prima, durante la preparazione del Festival.
Due poli opposti: l’ipotesi di rimandare di un anno la quinta edizione del Festival, a causa dell’emergenza sanitaria, e la gioia del miracolo, l’inaspettata opportunità. Come hai affrontato tutto questo?
Io sono stata sicuramente una tra quelli che non hanno sostenuto la ripartenza per come è stata normata e gestita. Le restrizioni erano e sono tante e tali da rendere quasi impossibile lo svolgimento delle normali attività. I sentimenti sono stati molteplici e contrastanti, a ciò si sono aggiunti i ritardi nelle conferme, da parte degli enti pubblici, circa la loro eventuale partecipazione a copertura della manifestazione.
Tutto ciò si è tradotto in stress, fatica, incertezza. Abbiamo riformulato i programmi due volte perché tutto quello che avevamo immaginato e pensato, non era realizzabile per motivi differenti. Questo ha generato spesso un senso di frustrazione.
Tra l’impossibilità iniziale, lo sblocco parziale delle attività e il “via libera”, c’è stato un disagio profondo e una piccolissima percentuale di grande soddisfazione dovuta alla gioia di condividere con gli artisti alcuni momenti particolari e, soprattutto, quella ondata di partecipazione di un pubblico che ha sempre più voglia di ritornare a fruire di attività culturali. Abbiamo lavorato in una condizione di affanno, con una sovrapposizione di problematiche, di contraddizioni di fare e disfare che in misura proporzionale prevalgono per quantità e durata temporale.
Tre serate, tre idee di danza, tre coreografi con i loro danzatori. Quale pensiero ha guidato la programmazione? C’è una suggestione che ha stimolato la linea di questa edizione, una convergenza di pensieri e persone?
Ci sono sempre delle convergenze. Il primo disegno del Festival è stato cestinato per questioni legate alla mobilità internazionale o al contatto sulla scena. Riscrivere un programma non è facile perché bisogna tener conto di questioni come il budget, il distanziamento, la territorialità che quest’anno è stato uno dei criteri di valutazione più dirompenti. Non si poteva immaginare di far muovere artisti o gruppi da molto lontano.
Il ventaglio di scelte era limitato a una serie di proposte che rispondevano maggiormente ai requisiti. In più si è aggiunta quest’anno, la necessità di immaginare la programmazione all’esterno. Originariamente il Festival aveva luogo negli spazi al chiuso. Questa dimensione all’aperto del Teatro India, non era qualcosa che avevo previsto e per come la vedo io la programmazione è legata ai luoghi che vengono attraversati. Se cambia lo spazio, cambiano anche le suggestioni e l’immaginario dello spettacolo in quel luogo.
Il fil rouge è stato ribaltare completamente l’idea di programmazione che avevo ipotizzato inizialmente, lavorando in una sorta di fusione con l’ambiente naturale, in una dimensione di prevalente naturalezza. Da qui la decisione di lavorare al tramonto con una programmazione che fosse meno artificiale possibile dal punto di vista dei supporti esterni. Una grandissima pedana, spoglia, dove i corpi dei danzatori potessero fondersi con l’esterno e dove la luce naturale fosse giustificata dalla drammaturgia. Questo è stato per me il criterio di scelta, soprattutto per armonizzare gli spettacoli con l’ambiente circostante.
Cosa è possibile anticipare della seconda parte del Festival?
La seconda parte sosterrà ancor di più il tema della dimensione all’aperto e della fusione con l’ambiente esterno, naturale. Diversamente dalla sezione di luglio dove è stata prevalente la fissità, l’immobilità all’interno dell’Arena del Teatro India, in autunno attraverseremo in diverse direzioni e in diverse aree, il parco Alessandrino e il quartiere Quarticciolo.
Sarà un contesto diverso e itinerante, anche in questo caso in fasce orarie che sono colorate e abbellite dal tramonto. Saranno dei percorsi artistici, un altro modo di vedere lo spettacolo dal vivo. Sono dei formati che rispettano i parametri organizzativi e che valorizzeranno il territorio e le periferie. Si lavorerà senza il palcoscenico, sfruttando i set naturali.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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