Racconti d’una nebbia che si espande nella notte tra gli uomini e i re

Racconti d’una nebbia che si espande nella notte tra gli uomini e i re

Lunga giornata verso la notte

Lunga giornata verso la notte

Cronache teatrali degli spettacoli Lunga giornata verso la notte, Who is The King e Ci vediamo all’alba

C’è della nebbia in scena e accompagna la notte all’alba. Assorbe e disperde la luce, ma non la sofferenza e le pene degli esseri umani. Sussurra inquietudine; essere vivi non sempre significa saper essere coniugi o genitori, figli o fratelli, compagni o separati, leader o proseliti. Il peso grave di quelle esistenze rimane in sospensione senza che possa ridursi di un’oncia, né acquisire la leggerezza di quella foschia o la forma di una nuvola bassa.

È una nebbia artificiale che invade la scena per mezzo della macchina per il fumo o riprodotta con le esalazioni delle sigarette. Altre volte viene evocata o descritta mediante i racconti dei protagonisti, come una presenza. È un piccolo dettaglio, il tratto in comune di spettacoli così diversi tra loro.

Lunga giornata verso la notte, scritto da Eugene O’ Neill nei primi anni ’40, è un dramma ambientato nell’agosto del 1912. Il testo presenta diversi aspetti autobiografici; l’autore ne aveva vietato la pubblicazione e la rappresentazione fino a 25 anni dalla sua morte e non esagerava quando lo descriveva come un “dramma di vecchio dolore, scritto in lacrime e sangue”. Lo spettacolo debuttò al Royal Dramatic Theatre di Stoccolma nel 1956, tre anni dopo la scomparsa di O’Neill.

Il ritratto dei Tyrone è quello di una famiglia irlandese-americana, così incline all’autodistruzione, con quattro interpreti: un padre, una madre e due figli maschi. Quattro anime non del tutto a pezzi, ma sicuramente logorate. Quattro persone/personaggi che si incontrano e si scontrano, si comportano in modi brutalmente contraddittori, nutrendosi, fino alla dipendenza di alcool, droghe e nostalgia. Ciò avviene in un interno borghese, una casa al mare nel Connecticut. Dove lo spazio centrale è definito da un ampio tappeto circolare, è un salone con bottiglie di whisky a vista.

Alle spalle, quattro camerini con gli specchi e le lampadine, disposti a semicerchio, le stanze della solitudine dei protagonisti. La nebbia entra dentro le camere di quella dimora residenziale. Spezzando una regola di equilibrio tra ciò che si trova all’interno e all’esterno di quella casa, uniforma gli oggetti e le persone. Fino quasi a confondere le forme, i colori, i tratti dei volti e, contemporaneamente il “mal de vivre”.

Arturo Cirillo è James Tyrone, un attore che ha vissuto ed è sopravvissuto a tante notti “on the road”, vagabondando in diversi teatri. Diventato sempre più ricco e sempre meno soddisfatto della propria carriera, ha sviluppato l’avarizia come una forma di ossessione e di controllo anche verso i suoi due figli che sono cresciuti pesantemente all’ombra, soffocati dalla presenza del loro padre. Milvia Marigliano è Mary, sua moglie. Un ruolo complesso, energicamente violento nell’esplorare i territori dell’autolesionismo, delle nevrosi, della dipendenza alla morfina, del suo lungo viaggio verso la follia. Difficile resistere alla tentazione di mandarle un abbraccio poiché Mary canalizza tutta quell’energia e la trasforma in empatia. A maggior ragione se si pensa che non sarebbe stato facile portare in scena il personaggio di una moglie e madre tossicodipendente, negli anni a cavallo tra la fine del 1940 e la metà del 1950. Non allineato con l’immagine del dopoguerra, di un’America felice, forte e feconda dove la parola d’ordine era “efficienza”.

Rosario Lisma interpreta James jr, il più grande dei figli di Mary e James Tyrone. Colui che doveva seguire le orme del genitore famoso, ma non ne è stato capace ed è finito schiacciato, vittima degli eccessi con alcool e prostitute, dei conflitti con il padre, della competizione esasperata con il fratello minore Edmund interpretato da Riccardo Buffonini. Autore di poesie, l’ultimo dei Tyrone, gracile e ammalato di tubercolosi.

Lunga giornata verso la notte

Lunga giornata verso la notte

Durante le fasi della scoperta si farà sempre più pressante lo spettro della morte e saranno proprio la malattia e l’ossessione per la poesia a scavarlo sempre di più, fino a renderlo un personaggio concavo. Il guscio di Mary, ove la donna ripone le sue preoccupazioni materne, nei momenti di sobrietà.

Lunga giornata verso la notte è andato in scena al Teatro Vascello di Roma, dall’8 al 13 gennaio e al Teatro Massimo di Cagliari dal 23 al 27. Il debutto, nella scorsa stagione, è avvenuto al Teatro Menotti di Milano dove il regista e attore protagonista Arturo Cirillo ha portato anche la Trilogia Americans di drammaturgia contemporanea. Una maratona teatrale che comprendeva Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee e Lunga Giornata Verso la Notte di Eugene O’ Neill, coadiuvato da Mario Scandale come assistente alla regia per la terza opera.

La nebbia del dolore è quella che aleggia sull’isola di Ci vediamo all’alba, l’opera di Zinnie Harris, Meet me at dawn, Con la regia di Silvio Peroni, lo spettacolo ha debuttato a Venezia il 12 gennaio, al teatrino Groggia per poi andare in scena a Roma, dal 17 al 20 gennaio al Teatro Palladium e, infine, il 26 gennaio al Teatro Ferrara Off. Merita un breve accenno alla foschia dove coesistono la realtà, l’immaginazione e la misteriosa terza donna che non si vedrà mai durante la rappresentazione. Uno spazio di approfondimento su Ci vediamo all’alba è stato dedicato in una nostra precedente pubblicazione.

Trovare la strada per crescere, vivere e sentirsi uomini e donne completi, il percorso che porta alla scoperta di sé stessi, ad allontanarsene talvolta, è ciò che hanno in comune tutti i personaggi, anche quelli che in apparenza potrebbero sembrare distanti da noi, nel tempo e nell’animo. Shakespeare, per esempio è tra gli autori classici, il più autorevole nel raccontare l’umanità e lo spessore (o l’inconsistenza) dei suoi personaggi. Siano essi uomini di potere o sudditi, virtuosi o vigliacchi, innamorati o disperati.

Ci vediamo all’alba – Meet Me at Dawn.

Ci vediamo all’alba – Meet Me at Dawn

Who is the king è un interessante esperimento di scrittura teatrale seriale che mette insieme circa cento anni di storia inglese, a cavallo tra XIV e XV secolo, otto drammi storici composti da William Shakepeare, una sequenza di re che si succedono, a partire da Riccardo II, e si combattono.

L’idea di Lino Musella e di Paolo Mazzarelli è quella di realizzare quattro spettacoli di circa tre ore ciascuno riprendendo il formato delle serie tv. Oltre a essere due dei dieci attori protagonisti in scena, Musella/Mazzarelli hanno curato la regia e la drammaturgia del lavoro che è stato prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano con Marche Teatro e La Pirandelliana.

Il debutto di questa operazione è avvenuto al Napoli Teatro Festival, i primi due episodi narrano le vicende di Riccardo II, gli splendori, i contrasti, la sua deposizione da sovrano e la finale segregazione nella torre. Dopo due settimane di programmazione al Teatro Franco Parenti, Who is the king ha fatto tappa nella Capitale, dal 18 al 7 gennaio, ospitato dal Teatro Vascello.

Who is the king Ph Salvatore Pastore

Who is the king Ph Salvatore Pastore

Molteplici aspetti caratterizzano la forza di questo lavoro che è una sintesi di tanti anni di attività, ricerca e scrittura. Anzitutto l’universalità del linguaggio shakespeariano, difficile non iniziare da questo. Il collegamento tra passato e presente.

Unito a questo aspetto, c’è la grande capacità di aver affrontato e superato brillantemente la prova di riscrittura dei testi, operando una sintesi rimanendo fedeli all’originale, mescolando linguaggi, stili e generi. Proprio come faceva Shakespeare il quale raccontava degli uomini e della loro umanità mediante i tradimenti e le congiure che gli uni perpetravano contro gli altri, le rivalità, l’ambizione e la vanità. Il grande drammaturgo inglese ci ricorda ancora oggi che il potere è il grande nemico dell’uomo, la sua maledizione.

Un altro elemento presente è l’intreccio tra Teatro e vita nell’affrontare la grandezza, la fragilità, la nudità di sovrani e di eredi al trono, cortigiani e consiglieri, ribelli e madri vestite a lutto che invocano giustizia e lanciano oscuri presagi. Massimo e Marco Foschi interpretano i ruoli di padre e di figlio in scena e lo sono anche nella vita.

Ultimo ingrediente importante e significativo è l’intuizione, l’idea di avere suddiviso la scena in due grandi zone: Stage è il mondo di corte e degli ufficiali, quello curiale; Backstage è la società di uomini, è la vita sotterranea e clandestina che pullula di riottosi, di groupies e ribelli refrattari all’obbedienza. Bevono e fumano in scena lasciano una leggera nube, una nebbiolina che porta lontano pensieri e messaggi e che sospende, per brevi istanti, le leggi della fisica. Non c’è spazio, non c’è tempo, vita e morte si sovrappongono, il re e l’uomo sono nudi entrambi.

Trilogia Americans: intervista ad Arturo Cirillo

Trilogia Americans: intervista ad Arturo Cirillo

Arturo Cirillo, attore e regista napoletano, il 24 e il 25 novembre porta in scena al Teatro Menotti di Milano una maratona dedicata alla drammaturgia americana del secolo scorso.

TRILOGIA AMERICANS è il titolo scelto per racchiudere le tre pièce Lo zoo di vetro (1944) di Tennessee Williams, Lunga giornata verso la notte (1942) di Eugene O’ Neill e Chi ha paura di Virgina Woolf? (1962) di Edward Albee.

Per l’occasione, il regista Arturo Cirillo è stato raggiunto ed intervistato da Theatron 2.0:

Cosa ti ha spinto a lavorare sulla drammaturgia americana di metà ‘900? Qual è stata la tua curiosità iniziale e da quale pièce sei partito?

Sono partito da Lo zoo di vetro, libro che mi è stato suggerito da Milva Marigliano, in scena con me in tutta la trilogia. Volevamo fare un progetto insieme e, dopo vari tentativi piuttosto fallimentari di farmi appassionare a testi di drammaturgia contemporanea, mi consiglia Lo zoo di vetro, testo che avevo letto molti anni prima. Fino a quel momento non avevo mai immaginato nella mia vita teatrale di poter affrontare autori americani perché li ho sempre considerati legati a un teatro troppo naturalistico rispetto al quale avevo la sensazione di essere troppo distante. Però Lo zoo di vetro mi è subito parso bello e mi ha commosso. Ho affrontato la pièce rispettando un codice di tipo naturalistico da un punto di vista recitativo mentre poi la messa in scena è stata pensata a sottrazione: cito, ad esempio, il film “Dogville” disegnando la perimetria della casa per terra. Non ho voluto ricostruire uno spaccato sociale americano anche perché non ne so nulla e non ci sono mai stato. Mi viene in mente il saggio “Dall’altra parte dell’America” che Andrea Porcheddu ha curato e che tratta di questa trilogia dove dice “Cirillo è un po’ come Salgari, riesce a parlare dell’America non essendoci mai stato” quindi, se c’era una persona poco adatta ad affrontare la drammaturgia americana forse quella ero proprio io! Questo primo spettacolo è andato molto bene, lo abbiamo portato in tournée e abbiamo deciso di farne un secondo. La scelta del testo si è rivelata ancora più complicata e più lunga della prima ma alla fine abbiamo deciso di mettere in scena Chi ha paura di Virginia Woolf?. Ma non c’è due senza tre e, con Lunga giornata verso la notte, abbiamo terminato la trilogia.

Mi incuriosisce la tua formazione, nasci danzatore, poi attore e infine diventi regista.

Arrivo alla regia attraverso il corso per attore all’Accademia Silvio D’Amico di Roma: ho fatto per dieci anni l’attore e poi sono approdato alla regia con canali narrativi. Sì, in effetti ho avuto un percorso curioso, ho cominciato con la danza perché avevo la scoliosi e mi ero stancato di fare piscina ortopedica. All’epoca una mia amica seguiva un corso di danza classica russa e mi sono iscritto anch’io. Non ho mai pensato di fare seriamente la carriera del ballerino, però il fatto di avere calcato i palcoscenici danzando mi ha certamente aiutato.

Tutti e tre gli spettacoli sono già andati in scena e hanno affrontato la tournée. Come ha reagito il pubblico italiano rispetto a una drammaturgia che oggi non è più molto conosciuta?

Sì, è vero, non sono autori così conosciuti e rappresentati oggi in Italia ma hanno avuto un enorme successo intorno agli anni ’50, ’60, basti pensare che Lo zoo di vetro nel 1946 fu messo in scena da Luchino Visconti, poi sono andati un po’ nel dimenticatoio. Il pubblico ha reagito in maniera molto differente rispetto ai tre spettacoli. Per Lo zoo di vetro tutti si aspettavano un testo fortemente datato e, invece, si sono trovati davanti a qualcosa per niente americano e sono rimasti tutti molto commossi da questa storia dalle tematiche universali. Tutta la trilogia, in fondo, è un guardare all’America attraverso una distanza e non una vicinanza, attraverso un tradimento e non una fedeltà. Chi ha paura di Virginia Woolff? è un testo molto diverso rispetto agli altri due, è stato scritto 30 anni dopo e studiato dagli psicoanalisti per i temi che tratta. La chiave vincente per questo spettacolo è stata di averlo reso estremamente cattivo, caustico, sarcastico e, soprattutto, di averlo contaminato con la colonna sonora del film “Birdman” di Inarritu che lo ha reso rock contemporaneo. Lunga giornata verso la notte è, infine, il più tosto dei tre testi. Con questo testo io stesso ho avuto un rapporto meno conflittuale quindi sono stato portato a rimanere più fedele al testo originale. È strano come sia stato magnificamente accolto nel centro sud e come, invece, molto meno nel nord dove l’hanno trovato troppo datato. Al centro sud, non so se per un motivo sociologico o per un maggior coinvolgimento per le tematiche familiari, è piaciuto enormemente. È dei tre lo spettacolo che più divide il pubblico.

Il tema che lega i tre spettacoli è sicuramente quello della famiglia non vista però in chiave rassicurante ma come una famiglia che si sgretola, che vive nel ricordo del passato, cinica e, a volte ,disperata. C’è spazio per la salvezza o per un futuro positivo?

Secondo me dei tre testi quello che paradossalmente ha più una visione di salvezza è Chi ha paura di Virginia Woolf? Anche se è piuttosto caustico e dominato da persone incattivite e arrabbiate col mondo, è un testo che alla fine sorprende perché ha un finale – o, per lo meno, per come lo abbiamo affrontato noi – che lascia spiragli positivi: i due protagonisti, nel momento in cui ammettono e riconoscono di avere inventato una storia fasulla, si ritrovano, davanti ad un’alba alcolica, solidali e accettano di vivere l’uno con l’altra. È una coppia che prende atto della situazione in cui si trova e questo porta il testo a un finale molto struggente. Le altre due pièce sono molto meno positive o salvifiche perché Lo zoo di vetro descrive una fuga del protagonista che scappa da se stesso e dal suo passato che però continuerà a tormentarlo. Lunga giornata verso la notte è, invece, dei tre quello in cui la famosa catarsi aristotelica proprio non avviene: lo spettacolo finisce e si ha la sensazione che tutto riprenda come prima, anzi, sembra che la situazione possa addirittura peggiorare.

L’ultima domanda riguarda il senso del tempo all’interno dei tre spettacoli. Nella trilogia sono anche protagoniste la malinconia, la nostalgia, sentimenti quindi molto legati al passato, ai ricordi e dunque al tempo. In che modo sfrutti o non sfrutti il fattore tempo?

Lo zoo di vetro è decisamente tra i tre lo spettacolo che ha un rapporto più forte col tempo. Il monologo finale del narratore Tom dice “Il tempo è la distanza più grande tra due luoghi” oppure, parlando rispetto al fatto che il padre era scappato di casa dice “Ho cercato di trovare le orme di mio padre, trovare nel cammino quello che nello spazio era perduto”. Anche nelle battute della madre è presente, ad esempio dice “il presente rischia di diventare un eterno rimpianto”. Con gli attori sono partito dicendo loro che il tempo è la nostalgia e il ricordo. Lo zoo di vetro ha un tempo stranissimo, viene tutto ricordato. Per la messa in scena mi sono ispirato a un film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, in cui alcuni attori stanno provando delle parti e finiscono per interpretare i personaggi di Zio Vanya, rimanendo sempre attori. Così per Lo zoo di vetro: gli attori in scena si ricordano sempre di essere attori, non escono mai in quinta e compiono una serie di processi anti-immaginifici. Ho cercato di fare lo stesso anche con gli altri due spettacoli, partendo sempre da un conflitto, uno scontro, una contraddizione tra il tempo della rappresentazione e il tempo di cui si parla e, in questo senso, posso parlare di approccio meta-teatrale. Tutte e tre sono pièce che hanno a che fare col passato che non si riesce a dimenticare e che determina tantissimo il presente e anche il futuro ma sono anche tre spettacoli i cui personaggi non dimenticano di essere anche attori mentre sono in scena.

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