da Redazione Theatron 2.0 | 8 Ott 2018 | News
Inaugurerà giovedì 11 Ottobre 2018 a Modena, La Torre nuovo spazio performativo all’interno del Centro Musica_71MusicHub, nato dal recupero architettonico di una nuova sezione del complesso industriale ex-Amiu di via Morandi 71, ristrutturata con finanziamento del Bando RiGenerAzioni Creative promosso da Anci e cofinanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della gioventù. Per l’occasione, l’edificio già sede del telecontrollo della distribuzione dell’energia elettrica a Modena, ospiterà Transmission Bands: quattro giorni di eventi all’insegna della contaminazione tra le arti, tra performance, musica e immagine, quattro produzioni che prendono spunto dal tema della trasformazione, del lavoro, e della trasmissione e distribuzione dell’opera d’arte, richiamandosi alla originaria funzione dell’edificio recuperato, a suo tempo attrezzato con trasformatori e fasce di trasmissione.

“EKStase – Indagine sulla durata” della compagnia Blaksoulz Dancecrew
Ad aprire la rassegna, Giovedì 11 Ottobre, sarà l’anteprima italiana di “Lost in Time”, nuovo progetto audio/video dell’artista messicano Murcof. La musica del compositore elettronico accompagna immagini video in cui si intrecciano due narrazioni parallele, quella di un cavaliere senza volto alla deriva in un paesaggio di ghiaccio e neve, perso nel tempo e nello spazio, mentre la seconda rimanda invece agli esiti di un ipotetico esperimento scientifico. Due protagonisti intrappolati in un loop temporale in cui la vita e la morte ruotano senza sosta, in cui la colonna sonora originale di Murcof si fonde con l’aria delle Variazioni Goldberg cantata da Les Petits Chanteurs du Mont-Royal. Lo spettacolo si terrà in due repliche consecutive, una alle ore 21 e una alle ore 22.30. Venerdì 12 Ottobre alle ore 21 la scena passa invece in mano alle arti performative con “EKStase – Indagine sulla durata”, spettacolo di danza e visual art della compagnia Blaksoulz Dancecrew a cura di Associazione Ore d’Aria, liberamente ispirato da “Canto alla durata” di P. Handke. Cos’è la durata? E’ un periodo di tempo? E’ qualcosa di misurabile? Una certezza? No, è una sensazione più veloce di un attimo, la più fugace di tutte le sensazioni, non prevedibile, non misurabile, come il momento in cui ci si mette in ascolto, il momento in cui ci si raccoglie in se stessi. Lo spettacolo, ideato da Elisa Balugani, è impreziosito dall’immagine curata da Marino Neri, dai visual di Bianca Serena Truzzi e dalle musiche di Enrico Pasini. Sabato 13 Ottobre alle ore 21.30 Transmission Bands ospiterà un’anteprima di NODE Festival 2018: giunto alla sua nona edizione, il festival di musica elettronica e contaminazioni si presenta alla città con una serata in cui saranno anticipate alcune delle linee guida del festival, previsto fra il 14 e il 17 Novembre 2018. La multidisciplinarietà e la contaminazione fra ambiti artistici differenti, già cifra distintiva di NODE, saranno ulteriormente valorizzate dall’interconnessione fra i tre artisti presenti, molteplici sfaccettature del mondo performativo contemporaneo, dissolvendo i confini fra musica, arte figurativa e installazioni multimediali. Così la performance di Deantoni Parks – batterista, compositore e producer americano attivo nelle avanguardie new wave e nella musica sperimentale – andrà a dialogare, in un intreccio fra linee, forme e percussività ritmica, con l’installazione site specific dello street artist milanese Jacopo Ceccarelli, in arte 2501, intitolata “M.U.R.O.” creata in collaborazione con Natartribe e Recipient.cc appositamente per NODE. Chiuderà la serata il dj set di Chevel, progetto del produttore trevigiano Dario Tronchin, fondatore del collettivo Enklav, una delle etichette discografiche più interessanti della scena elettronica italiana. Sarà l’immagine e la sua fusione con la musica, al centro della serata di chiusura di Trasmission Bans, Domenica 14 Ottobre alle ore 18, con la sonorizzazione “Soundtracks: Short Movies by Ioris Ivens”, realizzata in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino. I film di Joris Ivens selezionati per questo spettacolo appartengono alla prima fase del suo lavoro e al periodo in cui il cinema era ancora muto, cortometraggi che testimoniano non solo l’importanza del cineasta olandese come pioniere del documentario ma anche la sua piena adesione, negli anni Venti, all’esperienza delle avanguardie storiche. I musicisti scelti per sonorizzare questo lavoro, con una composizione originale realizzata appositamente in occasione di Transmission Bans saranno Stefano Pilia, Andrea Belfi e Julia Kent, tre artisti impegnati da anni nelle musica di ricerca e nello sviluppo di linguaggi musicali originali. Introduce la serata Stefano Boni del Museo Nazionale del Cinema di Torino.
> EVENTO FACEBOOK FESTIVAL TRASMISSION BANDS
Il festival Trasmission Bands si inserisce all’interno della settimana di promozione della cultura in Emilia-Romagna, culmine della campagna “EnERgie Diffuse. Emilia-Romagna un patrimonio di culture e umanità”, iniziativa che celebra l’Anno Europe del Patrimonio Culturale 2018, con l’obiettivo di sensibilizzare in merito all’importanza sociale ed economica del patrimonio culturale e celebrare la ricchezza e la diversità culturali dell’Europa. Il sistema culturale regionale è caratterizzato da un immenso patrimonio di beni materiali e immateriali, culture e conoscenze che la campagna vuole far conoscere a visitatori e cittadini, per fare della cultura e del patrimonio culturale e creativo strumenti di coesione sociale, integrazione, sviluppo economico e rigenerazione urbana.
Transmission Bands è un progetto promosso dall’Assessorato Politiche Giovanili del Comune di Modena, all’interno del Progetto 71MusicHub, a valere sull’avviso pubblico “Giovani RiGenerAzioni Creative” finanziato da ANCI con il contributo della Regione Emilia-Romagna, in occasione della settimana Energie Diffuse promossa da Regione Emilia-Romagna. Con la collaborazione di: Associazione Lemniscata, Associazione Ore d’Aria, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Centro Musica – Progetto Soundtracks
• Tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito su invito, previa prenotazione.
• Per informazioni: centro.musica@comune.modena.it || www.musicplus.it
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Roberto Stagliano | 17 Set 2018 | Interviste
Non si finisce mai di lavorare, quando finisce un Festival è già iniziata la preparazione per la sua successiva edizione in un processo continuo di scouting, di relazioni con gli artisti e di scene da conoscere per scoprire tutto quello che accade e si muove intorno ad esse. L’appuntamento per l’intervista con Massimo Carosi, direttore artistico di Danza Urbana – Festival Internazionale di danza nei paesaggi urbani che si è svolto a Bologna dal 4 al 9 settembre, è vicino ai portici di Porta Ravegnana, accanto alla statua di san Petronio che si trova sotto le due Torri. La piazza pullula di persone e di energie vitali sprigionate in quello spazio pubblico che il Festival intende promuovere e valorizzare come spazio artistico. L’intervista precede in ordine cronologico la performance Yes, I’m a witch nata all’interno del Progetto MigrArti, dal Laboratorio interculturale al femminile condotto da Francesca Penzo e Said Ait Elmoumen. Nello spazio del chiostro del convento di San Martino invece verrà segnata l’ora magica con in sottofondo il Requiem di Mozart e lo stridio dei pipistrelli, con il meccanismo, le sfide e le simulazioni sceniche di How to destroy your dance del Collettivo CineticO di Francesca Pennini.
Il racconto che fa Massimo Carosi è ricco e coinvolgente; si potrebbe sintetizzare con poche parole-chiave: incontro, partecipazione, liberazione, rete, identità culturale, umanità. Al termine dell’intervista, Massimo Carosi condivide il ricordo dell’artista marsigliese Sabine Réthoré che realizza delle mappe del Mediterraneo ruotandole. Guardando il Mediterraneo capovolto si vede la Tunisia sulla Sinistra e l’Italia sulla destra e ci si rende conto di quanto siano vicine la sponda Sud e quella Nord. Maggiore è la distanza via terra, minore quella del mare. Cambiando la prospettiva, la geografia smette di essere un dato assoluto della politica, si mostra per quel che è: un sistema relativo di misure che cambia ineluttabilmente nel corso dei millenni. Forse il senso della politica, quello più autentico e intrinsecamente umano è davvero quello di ridurre le distanze geografiche. Proprio perché il Mediterraneo è ricco di storia e di storie, di vita, di umanità e di sguardi, da qualsiasi punto di vista lo si intende osservare, raggiungere e attraversare.
“La danza urbana abita luoghi precisi della città sottraendosi ad una idea astratta dello spazio” …chi o cosa raggiunge e, nel contempo, cosa realizza?
Quando la danza esce dai teatri in qualche modo si mette in relazione con un contesto: il luogo, le architetture, ma anche i cittadini che vivono e abitano quel luogo, la valenza di quello spazio, la sua storia, la sua dimensione anche di flusso di vita che lo attraversa. La danza, quindi, uscendo dai teatri esce da una dimensione di spazio astratto, di concezione dello spazio prospettico astratto, focalizzato. Si entra in una dimensione di ambiente-paesaggio nel quale lo spettatore che ne fruisce è parte stessa di quell’ambiente, di quel paesaggio, di quel contesto. La danza diventa sempre più legata alla dimensione della relazione e sempre meno a quella della rappresentazione. Quando immaginiamo la dimensione, pensiamo all’edificio teatrale che tutti conosciamo e che ha origine nel Rinascimento, quando nasce la prospettiva, nella pittura e nell’architettura. Quando la dimensione prospettica arriva anche nelle arti sceniche, l’edificio teatrale diventa il marchingegno della rappresentazione perché la prospettiva è l’invenzione di una costruzione di uno spazio astratto per poter rappresentare mimeticamente la realtà. È una dimensione geometrica quindi, un punto di vista privilegiato, un fuoco, una linea di fuga verso il quale lo sguardo si focalizza e questo viene riportato anche nel teatro all’italiana.
Il palco del principe è il punto privilegiato dove è possibile vedere una rappresentazione, fantastica o reale, della società. In questa dimensione pensiamo anche ai primi teatri, il Teatro Olimpico di Vicenza per esempio, dove c’è proprio uno scorcio prospettico. La macchina teatrale è la macchina della rappresentazione della realtà e questa funzione le arti dello spettacolo l’hanno svolta a lungo in maniera molto efficace. Oggi i media, la televisione, la rete, le nuove tecnologie sono un potentissimo sistema della rappresentazione molto forte e le arti dello spettacolo hanno perso questa funzione, ma mantengono l’elemento fondamentale che è la compresenza tra l’artista, il performer, il danzatore, l’attore e lo spettatore, il cittadino. E questa compresenza è un elemento che gli altri media, gli altri dispositivi non hanno. La dinamica della relazione concreta diventa un elemento molto forte nelle arti: uscire dal teatro è uscire da un dispositivo architettonico spaziale immaginato soprattutto per la rappresentazione. Ciò non toglie che molti artisti che lavorano per uscire da questo dispositivo della rappresentazione non possano ritornare in teatro, giocando come in un qualsiasi altro luogo, abitando quel teatro come un luogo e come più come “la scena”.
Si sta “andando fuori”, le arti performative sono rivolte sempre di più verso l’esterno?
Certo, questo in generale è un po’ così per tutte le arti. È un processo che ha una matrice storica molto forte che nasce dalle avanguardie del primo Novecento, ha attraversato tutto il ventesimo secolo e che oggi è ancora più forte ed evidente. Non è più un elemento dell’avanguardia, ma è un elemento costitutivo della scena artistica. Parlare di arte pubblica oggi è quasi un’ovvietà, nel senso che è una cosa diffusa e comune, tant’è che è diventata quasi una consuetudine allestire esposizioni e mostre in luoghi insoliti, in spazi non deputati. Per la danza ancora il percorso è più lungo, non tanto dal punto di vista della creazione artistica e della scena. C’è questa consuetudine di molte compagnie di danza di avere delle produzioni, delle creazioni pensate per spazi non convenzionali e i festival in Italia normalmente hanno una programmazione dove inseriscono almeno una o due proposte che escono dai teatri. Noi abbiamo iniziato 22 anni fa e siamo stati i primi che si sono dedicati specificatamente a questo. All’epoca eravamo in grande solitudine. Oggi invece ci sentiamo parte di un processo molto più forte, molto più ampio. Cerchiamo di portare avanti anche un orientamento delle politiche culturali affinché possano riconoscere questo ambito della scena. Ho detto in diverse occasioni che la danza urbana non è un genere proprio perché le possibili declinazioni che noi abbiamo di essa in relazione ai luoghi della città, in relazione alla città, alla cittadinanza in tutte le sue sfaccettature, sono infinite e coinvolgono poetiche ed estetiche molto diverse. È un ambito e nel suo interno si muovono tante poetiche, tante estetiche che però non trovano ancora riconoscimento nelle politiche culturali dello Stato italiano.
Il FUS, Fondo Unico dello Spettacolo per esempio non riconosce alla danza un’eccezione all’obbligo di “sbigliettamento” rispetto al teatro o alla musica. Per comprendere meglio, farò un esempio: i festival teatrali che fanno una programmazione di teatro in strada possono fare domanda per un finanziamento da parte del Fondo del Ministero, lo può fare la musica quando organizza per esempio concerti nelle chiese. La danza no, al massimo viene concesso un 10% di spettacoli gratuiti in uno spazio pubblico e questo vuol dire che al momento le politiche culturali governative sono ancora orientate in una dimensione di forte alimentazione della possibilità di portare la danza nei luoghi pubblici. Prescindendo dalle politiche culturali in atto, è chiaro che avere questo riconoscimento sia non solo una necessità degli artisti ma penso anche delle amministrazioni stesse delle città che hanno il bisogno e la necessità di costruire una relazione diversa con la città, con i luoghi.
Quest’anno abbiamo portato al festival una serie di spettacoli e anche tre video. Uno è un documentario sulla Tunisia dal 2015-2016, un altro è un video danza di due artiste iraniane, l’ultimo dei tre è invece un video danza bellissimo dedicato ad un progetto che ha attraversato 20 paesi del mondo sulla danza nello spazio pubblico. Ci testimoniano che la danza nello spazio pubblico ha una sua potenza rispetto agli strumenti della democrazia. Potrebbe sembrare un po’ eccessivo come concetto, perciò farò un esempio molto concreto: le due artiste iraniane Maryam Bagheri Nesami e Mitra Ziaee Kia hanno presentato il video So-city of Spectacle che dura 6 minuti dove loro danzano nello spazio pubblico di Teheran. Per noi italiani potrebbe sembrare una cosa assolutamente normale, ma se pensiamo che la danza è un’arte vietata in Iran e se noi pensiamo che il corpo, l’esposizione del corpo femminile nello spazio pubblico in quel paese è fortemente proibito e condannato, capiamo quanto sia rivoluzionaria quella performance, quello spettacolo, in quel contesto. Il video Le Amoreux des banc public ci racconta di come gli artisti tunisini per difendere il lavoro della democrazia, per promuoverlo, nel periodo post-rivoluzionario della primavera tunisina, abbiano sentito l’esigenza di mettersi in relazione con la comunità e di lavorare nello spazio pubblico. Racconta anche di come non solo nelle grandi città come Tunisi, ma nelle zone montane e rurali al confine con l’Algeria molti giovani per la disperazione tendono a emigrare oppure ad affiliarsi a gruppi armati.
Di come e quanto la danza, portata in quelle comunità, dove non ci sono teatri, dove non ci sono luoghi di rappresentazione e dove si usa solo lo spazio pubblico, possa creare una possibilità di riscatto, una possibilità per avere una visione del futuro meno pessimista. Confrontando queste realtà con la nostra possiamo considerare meglio che cos’è oggi lo spazio pubblico, qual è la cultura dello spazio pubblico oggi in Italia. Il diritto di fruire liberamente degli spazi, di avere una cultura dello spazio pubblico, di avere la libertà di sentire quegli spazi come propri da parte della comunità, è venuto meno o è stato ridotto notevolmente. La danza nello spazio pubblico diventa così una rinegoziazione continua. Per riuscire a realizzare il festival noi affrontiamo prima un lungo lavoro che dura mesi a livello di permessi e di autorizzazioni da richiedere e ottenere; è uno sforzo immane che occupa la stragrande maggioranza del tempo di lavoro per l’organizzazione e la realizzazione del Festival. Tuttavia il pubblico, i cittadini sentono il bisogno di riaffermare il diritto alla città, il diritto a vivere liberamente lo spazio pubblico e, quindi, in questo senso la danza nello spazio pubblico è un presidio di democrazia perché è una occupazione creativa di corpi di uno spazio.

Questa è la ventiduesima edizione, 22 anni di direzione artistica. Se potessi scegliere e descrivere tra i ricordi, quali sarebbero le principali emozioni vissute? L’emergenza artistica, lo spirito con cui è nato questo Festival è cambiato e si è rafforzato con l’evoluzione della società ?
Il Festival è nato 22 anni fa grazie ad un gruppo di universitari; io avevo 23 anni nella prima edizione. Nacque con tutto l’entusiasmo, con la nostra esuberanza di giovani studenti. Avevamo creato un circolo universitario di studi sulla danza e partecipammo all’Università al primo corso di Storia della danza che nacque qui nel ‘93 a Bologna. Nel ’97 ci fu la prima edizione del Festival e lo spirito era quello della sperimentazione. C’era anche la volontà di portare il linguaggio contemporaneo della danza ad un grande pubblico perché ritenevamo e riteniamo che i linguaggi della danza e i linguaggi contemporanei della danza possono avere un pubblico molto più ampio di quello che abitualmente va al teatro.
Si tratta di creare quella connessione, quel link che purtroppo è mancato. Adesso il panorama è cambiato perché la danza nel frattempo ha avuto un incremento di pubblico molto forte in questi ultimi quindici anni. Il pubblico della danza contemporanea è quello più giovane tra quelli delle arti e dello spettacolo dal vivo. Questo è intanto un dato molto interessante, ci dice che il pubblico della danza è quello più propenso alla mobilità, almeno in base ad alcune ricerche condotte dall’Osservatorio regionale dello spettacolo qui a Bologna ma credo che sia un dato comune in generale e in Italia. È cambiata anche l’attenzione, un tempo la danza era ciò che si riusciva a percepire, erano i Momix, Carla Fracci o il balletto e poco altro per la massa, per il cittadino comune. Poi è arrivato anche l’hip hop, la break dance, la televisione con i talent, ma anche i linguaggi e l’arte contemporanea. Da quello spirito di sperimentazione, di volontà di promozione dei linguaggi della danza è nata la consapevolezza del valore civile e civico che la danza assume in uno spazio pubblico.
Questo perché l’immaginazione, il proiettarsi verso il futuro si nutre anche della capacità di sviluppare una dimensione creativa, di vedere i luoghi del quotidiano immersi in una dimensione artistica, a volte ludica, altre volte puramente culturale. Attraverso i corpi dei danzatori che stimolano e si offrono agli spettatori nello spazio pubblico, cambia la percezione fisica dei luoghi, rimane impressa nelle memorie delle persone. Posso testimoniare che, portando degli spettacoli in date e contesti diversi, in ventidue anni quei luoghi sono cambiati fisicamente perché è cambiato l’interesse e l’attenzione delle persone. Si è iniziato ad abitare quei luoghi in maniera diversa, le amministrazioni hanno dovuto prenderne atto e si è cominciato a porre anche un’attenzione, una cura diverse rispetto a quei luoghi, luoghi dismessi o spesso periferici per esempio. Pur essendo effimera la danza urbana in realtà riesce ad incidere completamente nei contesti in cui opera.
Personalmente vedo tre momenti Importanti per me. Il primo è l’inizio, l’esordio con l’entusiasmo giovanile, il desiderio di sperimentare e di aprire al grande pubblico la danza, trovando tutti i modi possibili per farlo. Noi fummo i primi ad organizzare in Italia un contest di hip hop. Per dieci anni abbiamo organizzato il B Boy Event; arrivavano 2-3000 giovani da tutta Italia per partecipare a questo evento che era una Jam e un contest, organizzavamo delle rassegne di video danza legate sempre al tema del rapporto tra danza e città alimentato anche da un forte legame con la fotografia, con la volontà di lavorare sulla scena emergente. Siamo cresciuti con una generazione di artisti di quegli anni, parliamo della seconda metà degli anni 90, e anche loro vivevano in una dimensione diversa il rapporto con i luoghi e con lo spazio: il palcoscenico era diventato un luogo come altri da abitare. C’è un secondo e un successivo momento, tra i miei ricordi personali, la crisi della città di Bologna. Era diventato difficile far capire ciò che noi facevamo perché la città si era un po’ rinchiusa in se stessa, soprattutto le istituzioni. La città-laboratorio della sinistra non esisteva più, non c’era una proiezione verso il futuro e in questo ripiegamento, in questa crisi che la città ha vissuto, abbiamo realizzato che era diventato ancor di più necessario spingere verso l’attenzione ai giovani e alle scene emergenti, mantenendo quella radicalità che avevamo in qualche modo sviluppato, andare ancora di più alla radice per essere sempre più radicati nelle nostre intenzioni. Infine ci sono questi anni dove rileviamo che l’ambito della danza è cresciuto, c’è una maggiore attenzione, un maggiore interesse, un riconoscimento di questo ambito. La nostra realtà, tuttavia, deve ancora lavorare per far passare alcuni messaggi necessari.

E dell’edizione in corso, quali sono stati finora i suoi highlights?
È stata un’edizione dedicata al Mediterraneo, inteso come patrimonio immateriale e fondamentale, da difendere. Il Mediterraneo rappresenta anche quel luogo geografico dove sono nate tante civiltà; quel mare metteva in connessione popoli e culture, permetteva la circolazione e lo scambio delle merci, i commerci, Il diffondersi delle conoscenze, attraverso quei viaggi. Permetteva alle persone di incontrarsi. Questa attitudine secondo me è un valore che dobbiamo preservare e che dobbiamo riconoscere come parte del nostro patrimonio, del nostro bagaglio. Noi siamo innanzitutto mediterranei, oltre le civiltà che si sono susseguite. In questa ventiduesima edizione abbiamo potuto far conoscere e incontrare artisti dalla Siria, dal Marocco, dalla Tunisia, dalla Grecia, dalla Spagna, dall’Italia e dall’Iran.
È stato un momento molto bello anche il dietro le quinte, i momenti di incontro e di parola, aperti al pubblico, oltre che tutti gli spettacoli. Direi che sono stati tutti dei momenti molto potenti, forti e ho rilevato grande interesse e attenzione del pubblico. Il tema del Mediterraneo, il rapporto tra spazio pubblico e democrazia, le esperienze che questi artisti del Mediterraneo hanno portato dentro il festival, tutto questo non lo abbiamo imposto. Molto semplicemente lo abbiamo raccolto andando a conoscere e ad osservare le scene di tutti quei paesi. Dal pubblico di Bologna è emersa molto forte l’istanza di trovare un riscontro diretto che ci ha confortato molto perché vuol dire che abbiamo risposto in qualche modo anche ad un bisogno, ad una necessità di riflessione, di visione e di immaginazione di quello stesso pubblico.
Immagino che questo ha determinato il Focus Young Mediterranean and Middle East Choreographers…
Esatto, è il secondo anno che sviluppiamo un Focus sui giovani coreografi del Mediterraneo e del Medio Oriente, in connessione con altri festival italiani, quattordici strutture in tutto. È nato 3 anni fa con l’occasione di un viaggio, mio e di altri quattro operatori a Beirut per la piattaforma della danza della sponda sud del Mediterraneo. Lì abbiamo trovato e conosciuto una scena con delle istanze e con un livello di qualità molto forti. Una capacità e un’urgenza di lavorare sui linguaggi in maniera assolutamente contemporanea, partendo dalla loro matrice culturale e senza alcuna remora rispetto alla tradizione. Ci ha fatto capire quanto è importante conoscere quella scena con le sue necessità che portano a confrontarci con quegli artisti; tramite loro capiamo molto anche di noi. Tramite la creazione delle performer iraniane capiamo il valore dello spazio pubblico e del corpo nello spazio pubblico attraverso il loro gesto rivoluzionario pubblico. Ci mostrano quanto sia incisiva e forte l’idea del corpo nello spazio pubblico quando è un corpo creativo.
Normalmente ce ne accorgiamo solo quando per esempio a Sant’Arcangelo piuttosto che a Terni scoppia una polemica rispetto ad un corpo esposto nello spazio pubblico o un artista crea scandalo, la tematica è importante al di là di questi momenti. Judith Butler per esempio ha inciso tanto con l’idea del corpo politico e di corpo nello spazio pubblico. Nell’altro video che abbiamo presentato, Dancing Around the world-Documentary di Nejla Yaktin, viene descritto un viaggio attraverso Sud America, Europa, Asia e Australia per portare la danza in mezzo alle persone. Il lavoro fatto è stato quello di cogliere come ogni singola presenza modifica lo spazio, il luogo. Immaginate una piazza vuota e una piazza con una persona. Quella persona con la sua identità, da sola o con cento persone, cambia quel luogo. Ogni singolo corpo incide nel luogo, nel paesaggio, nell’ambiente con la sua identità, con la sua presenza e, quindi, c’è una dimensione politica in tutto questo. Ecco perché il titolo del mio editoriale al festival di quest’anno è Mediterraneo: la danza come atto politico, proprio perché lavorando con i corpi nello spazio pubblico, si va anche su un piano politico inteso come affrontare delle questioni profonde della polis, non come militanza politica.
Questo è l’unico progetto o ci sono anche altre collaborazioni in corso?
Il Festival lavora come sistema, in network, con tante realtà e ci sono altri progetti di rete per esempio il progetto Danza Urbana XL con Glitch Project che nasce all’interno del network Anticorpi XL che è un network di 37 operatori italiani della danza per la giovane danza d’autore. All’interno di questo network convergono 16 Festival da Interplay di Torino a Oriente-Occidente; noi di Bologna coordiniamo questa azione che crea una mobilità per gli autori, per gli artisti italiani che vogliono sperimentarsi nello spazio Urbano. È anche in rete con noi e abbiamo una forte connessione con Masdanza- International Contemporary Dance Festival of the Canary Islands, un concorso coreografico nelle isole Canarie che si svolge a Maspalomas di estrema qualità e di grandissimo livello aperto alla scena internazionale. Per noi è una finestra sulla scena del mondo. Grazie a Masdanza, abbiamo portato al Festival artisti da Taiwan, dalla Cina, dalla Spagna e dalla Grecia. È il nono anno che collaboriamo con Masdanza, riuscendo così a far conoscere artisti anche da Macauda, dalla Costa d’Avorio, scene e luoghi poco conosciuti, e noi apriamo una finestra per cogliere ciò che emerge in giro per il mondo.
> SITO WEB FESTIVAL DANZA URBANA
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
da Andrea Zardi | 5 Gen 2018 | Uncategorized
Probabilmente il sottoscritto potrebbe essere influenzato dai comuni natali degli artisti a cui ci stiamo per accostare, ma la provenienza geografica è solo uno degli aspetti determinanti di personalità e creazioni diverse.
A Piacenza, nella quinta edizione della rassegna InSincronia al teatro Trieste34, è andata in scena la compagnia DNA diretta dalla bolognese Elisa Pagani: un pubblico ristretto ma fedelissimo al teatro piacentino, che ha potuto assistere al duetto di Andrea Palumbo e Silvia Rossi ne “La pancia della balena” e ad un estratto dalla produzione “L’amore ha i tempi del playmobil”, con l’aggiunta di Chiara Montalbani.
Nella prima pièce i due corpi sono sporcati da una polvere che rende tutta la partitura priva di momenti di stillness dichiarata, filtrata da un pulviscolo chiaro, come due organismi che si separano, si fondono, si autodichiarano dentro un ambiente chiuso e oscuro – quasi uterino – e procedono verso un naufragio che non viene concepito come disastro ma come ciclo di rinnovamento continuo. Risulta immediato il pensiero di un ciclo di morte e rinascita che ben si sposa con la dinamica instancabile che caratterizza tutto il linguaggio di Pagani, in particolare nella parte di Palumbo che viene contaminata da elementi di street dance. Il viaggio all’interno della pancia della balena ricorda molto un naufragio omerico, un nòstos odissiaco sulle note di Gino Paoli.

Nell’estratto in cui principalmente danzano Silvia Rossi e Chiara Montalbani il tema è il nucleo basilare della società: un ambiente familiare animato dal rapporto di due donne che, al contempo, sono nonne, nipoti, madri, sorelle. Il contrasto maggiore in questa parte è nella natura stessa delle due danzatrici: se la Rossi disegna nello spazio una danza grafica ed estremamente razionale, Chiara Montalbani travolge questa linearità con una furia irrefrenabile. Apprezzabile la decisione di non tagliare di netto la pièce ma di valorizzare l’entrata di Palumbo che preannuncia la continuazione di questo racconto.
La compagnia DNA dichiara la propria fede nella coreografia e nella capacità del corpo di parlare solamente attraverso una danza di notevole ingaggio fisico, in tempi in cui “La paura di Vaslav Nijinsky”, per citare le parole di Silvia Poletti, sembra causare una dispersione dei riferimenti e del coraggio di una danza tecnicamente complessa.
Alla chiusura della X edizione del festival Exister di Milano, al teatro Fontana è andato in scena “Von“, firmato dalla compagnia Stalker/Daniele Albanese di provenienza parmense. Occorre anticipare che risulta molto difficile scrivere del lavoro di Daniele se non si conosce la dimensione artistica e quasi onirica di questo coreografo e occorre talvolta esperirla in prima persona. Questo spettacolo è cresciuto in maniera nomade attraverso residenze diverse in contesti altrettanto vari (iniziato con una residenza presso Piemonte dal Vivo e con l’appoggio di Anticorpi XL), sia in Italia che a Bruxelles.
Von in tedesco è il corrispondente della preposizione “da” o “di”: provenienza, frammentarietà, spazio non definito, parola, relazione, movimento. In questa creazione le parole, i frammenti di esse, sono una chiave di lettura importante per capire i rapporti di continuità. Si apre con un buio totale rotto solamente da un bagnato luminoso in cui un corpo cammina per lo spazio: è necessario un po’ di tempo per capire il sapiente gioco di connessione fra movimento e uso delle luci che crea un effetto di frammentazione della dinamica. La liquidità del movimento è rotta in una serie di fotogrammi creati con la luca stroboscopica e con una connessione molto precisa fra tappeto sonoro e luminoso.
In questo lavoro Albanese riversa quelle che sono i punti principali del suo immaginario coreografico: una dinamica fatta di piccoli movimenti molto interni, la trasformazione del corpo che è metamorfosi da una struttura ad un’altra, “mostri” che si emergono dai corpi senza esagerazione. La scena è aperta e chiusa dallo stesso Daniele ma per tutto lo spettacolo danzano Giulio Petrucci e Marta Ciappina. A vedere questo lavoro nel suo primo studio un anno prima (a Torino, Lavanderia a Vapore) questi due artisti dimostrano di aver assorbito il lavoro di Albanese in maniera impeccabile e in tutta la sua lunghezza lo spettacolo dimostra di essere figlio di una lunga riflessione e di un processo drammaturgico consistente. Giulio e Marta non entrano quasi mai in contatto ma l’interazione fra di loro è potentissima, la loro danza corre sul filo rischioso dell’incomprensibilità, pericolo scampato da un’intesa che rende i passaggi da una dinamica all’altra estremamente naturali.

Il riferimento di questo lavoro è sicuramente contenuto nella Logica della sensazione di Deleuze, trattando della pittura di Bacon, nel descrivere il tentativo di rappresentare la sensazione in un passaggio fisico da uno stato all’altro, ma la più forte delle definizioni possibili è quella di una danza “futuristica”. Von si muove sui binari della frammentazione della dinamica, di una precisa volontà di rappresentare un corpo nei suoi passaggi in velocità come facevano Balla e Boccioni.
“Bisogna superare le possibilità muscolari, e tendere nella danza a quell’ideale corpo moltiplicato dal motore che noi abbiamo sognato da molto tempo” (Manifesto della danza futurista, F. T. Marinetti – 1917)