da Redazione Theatron 2.0 | 22 Feb 2023 | Bandi, News, Opportunità
Riparte il cammino del Premio Riccione per il Teatro, giunto quest’anno alla 57.a edizione. Assegnato ogni due anni all’autore di un’opera teatrale in lingua italiana o in dialetto, il concorso è aperto a tutte le forme della scrittura per la scena, comprese traduzioni, trasposizioni e adattamenti capaci di distinguersi per autonomia creativa. È possibile iscriversi fino a venerdì 21 aprile 2023, inviando uno o più testi e la scheda di partecipazione, disponibile insieme al bando di concorso sul sito www.riccioneteatro.it
Organizzato da Riccione Teatro con il sostegno del Ministero della Cultura, della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Riccione, e con la collaborazione di ATER Fondazione, il concorso assegna tre riconoscimenti: il 57° Premio Riccione per il Teatro (5.000 euro) al vincitore assoluto; il 15° Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” (3.000 euro) al miglior testo di un autore under 30 (nato dal 1° gennaio 1993 in poi); la menzione speciale “Franco Quadri” (1.000 euro) all’opera che meglio coniuga scrittura teatrale e ricerca letteraria. Tutti i finalisti avranno un’altra opportunità al termine del concorso, quando saranno chiamati a presentare un progetto per l’allestimento del loro testo: in palio due premi di produzione da 15.000 euro (sezione principale) e da 10.000 euro (sezione under 30), ideati per favorire la rappresentazione di nuove opere.
Come presidente di giura è confermata la drammaturga Lucia Calamaro, già alla guida della scorsa edizione del Premio Riccione e dal 2021 direttrice della scuola di drammaturgia Scritture, promossa da Riccione Teatro insieme ad altre importanti istituzioni del teatro italiano. Al suo fianco in giuria sono confermati Graziano Graziani, critico teatrale e conduttore del programma di Radio 3 Fahrenheit, e Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Tre i nuovi giurati: la giornalista e scrittrice Concita De Gregorio, editorialista del quotidiano «la Repubblica» e conduttrice del programma di La7 In Onda, Lino Guanciale, attore noto per i ruoli al cinema e in tv e per i tanti successi teatrali (Premio Ubu e Premio ANCT 2018 come miglior attore, Premio Flaiano 2015 come rivelazione dello spettacolo italiano, Premio Gassman 2003) e Walter Zambaldi, direttore del Teatro Stabile di Bolzano.
Un’altra importante novità riguarda il percorso di premiazione. La proclamazione dei vincitori avrà luogo a Riccione nelweekend del 14-15 ottobre 2023, all’interno di una vera e propria festa del teatro che prevede due giorni di performance, incontri, convegni e anche l’assegnazione del Premio speciale per l’innovazione drammaturgica, attribuito fuori concorso a una personalità capace di aprire nuove prospettive al mondo del teatro. L’appuntamento riccionese, a cura di Simone Bruscia, sarà inoltre preceduto da un’inedita anteprima romana: alcuni estratti delle opere finaliste verranno infatti letti il 12 ottobre al Romaeuropa Festival, all’interno della rassegna Situazione Drammatica.
Quella che si celebra quest’anno è un’edizione storica del Premio Riccione, perché coincide con il centenario della nascita di Italo Calvino, uno dei primi vincitori del concorso. Era il 16 agosto 1947, l’Italia cercava di rilanciarsi dopo la guerra puntando anche sulla cultura, e in una serata memorabile Sibilla Aleramo, Mario Luzi, Guido Piovene e Cesare Zavattini – che componevano la giuria insieme a Corrado Alvaro, Romano Bilenchi ed Elio Vittorini – proclamavano i primi vincitori del Premio Riccione al cospetto del presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini. Al tempo il concorso prevedeva anche una sezione letteraria e ad aggiudicarsela, ex aequo con Fabrizio Onofri, fu il giovanissimo Calvino, premiato per Il sentiero dei nidi di ragno, opera prima al tempo inedita. Da allora, scomparsa la sezione letteraria, sono stati premiati a Riccione testi teatrali di Tullio Pinelli, Dacia Maraini, Pier Vittorio Tondelli e persino di un giovanissimo Enzo Biagi. Più di recente, si sono affermati esponenti importantissimi della nuova drammaturgia italiana, da Fausto Paravidino a Davide Enia, da Letizia Russo a Stefano Massini, da Mimmo Borrelli al compianto Vitaliano Trevisan. L’ultima edizione, nel 2021, ha visto i successi di tre giovani drammaturghi: Pier Lorenzo Pisano ha conquistato il Premio Riccione con Carbonio (ora in scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano), Nicolò Sordo ha vinto il Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” con OK boomer. Anch’io sono uno stronzo, mentre la menzione speciale “Franco Quadri” è stata assegnata a Christian Di Furia per Flusso.
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da Edoardo Borzi | 8 Ott 2022 | Interviste
Intervistiamo il drammaturgo Pier Lorenzo Pisano: nato a Napoli, studia a Venezia, laureandosi in Conservazione dei Beni Culturali. Intraprende un percorso attoriale specializzandosi presso la Guildhall School Of Music and Drama (Londra). Comincia a lavorare come attore e assistente alla regia per cinema e teatro, e come montatore in vari progetti tra cui il documentario Torn – Strappati, vincitore di un Nastro d’Argento e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Completa la sua formazione diplomandosi come regista cinematografico presso il Centro Sperimentale di Roma (scuola nazionale di cinema). Il suo cortometraggio di esordio Così in terra, è stato selezionato in concorso al Festival di Cannes 2018. Parallelamente si dedica alla scrittura ottenendo riscontri nei maggiori premi italiani di drammaturgia e sceneggiatura, tra cui il Premio Hystrio 2016 con Fratelli, il Premio Riccione-Tondelli nel 2017 con Per il tuo bene e il Premio Solinas 2018.
Per il tuo bene ha debuttato in Italia a gennaio presso il teatro delle Passioni di Modena e presso l’Arena del sole di Bologna con la regia dell’autore. È stato rappresentato, in traduzione francese, presso il Théâtre Ouvert (Parigi). La versione francese è stata inoltre presentata in apertura del Festival di Avignone 2018, nel programma “Forum des Nouvelles Écritures Dramatiques Européennes”.
Qual è stato il primo incontro con il teatro?
Da piccolo non stavo mai fermo, i miei mi spedivano ai corsi di teatro per stancarmi. Ricordo la prima volta che sono stato dietro le quinte: ho scoperto tutto quel mondo nascosto, enorme e polveroso che sono i camerini, i corridoi…un labirinto da esplorare. Più che per il corso in sé, andavo lì per il fascino di quel posto. Ho fatto anche qualche laboratorio al liceo, cose ignobili, ma molto divertenti. L’incontro con il vero teatro però è stato a Venezia. C’è questo teatrino minuscolo, l’Avogaria, che da fuori non sembra nemmeno un teatro; è un palazzo normale con una piccola porta che dà su un campo. Poi quando entri scopri un palco con file di sedie, tutto in miniatura. Ho iniziato lì, come attore.
L’incontro con la drammaturgia è stato successivo. Ho sempre scritto molto, anche se non per il teatro. La prima volta forse avevo buttato giù un piccolo testo per un bando, non ricordo bene, e poi ho continuato. Sceglievo dei bandi e scrivevo. Non inviavo i testi; mi servivo delle scadenze per portare a termine la scrittura, come una sorta di allenamento.
Quali sono state le esperienze più proficue e importanti per la tua formazione di attore?
L’esperienza attoriale più significativa l’ho avuta a Firenze. Ho seguito un seminario di un mese con Anatolij Vasiliev, sperimentando il suo metodo degli étude. Semplificando tantissimo: si lavora sulle situazioni emotive e sulle strutture di potere, sostituendo le immagini del testo con immagini personali. Il risultato è che quando provi la scena rivivi davvero il percorso del personaggio, ed ogni volta che la ripeti, succede di nuovo. Non c’è recitazione. Alla fine, quando ritorni al testo vero e proprio, la scena funziona perchè ormai la dinamica si è sedimentata.
Per quanto riguarda l’ambito drammaturgico ?
Ho un bellissimo ricordo dell’incontro con Michele Santeramo, a San Miniato. Ha un metodo creativo molto personale, ed è generoso. Ti dice: io faccio così, tu prendi quello che vuoi. Ricordo una frase che sintetizza molte cose, forse è sua o è rubata a sua volta: “Tutte le battute sono Scusa o Vaffanculo. Il resto è chiacchiericcio”. Ho scritto un dialogo di Fratelli che prende questo suggerimento alla lettera. Anche l’incontro con Mark Ravenhill è stato importante, perché mi ha spostato il fuoco ancora di più sulla famiglia, che era il tema di cui lui si interessava in quel periodo. C’è stato uno scambio molto forte con gli altri ragazzi del laboratorio, che venivano da ogni parte del mondo. Ogni famiglia ha delle regole diverse, eppure si dà per scontato che le proprie regole valgano per tutti. Ma una famiglia di Taiwan non funziona come una famiglia napoletana, anche se saltano fuori punti di contatto incredibili.
Perché hai scelto la famiglia come tema d’indagine sia in “Fratelli” sia in “Per il tuo bene”?
Mi ha sempre affascinato. Ogni grande narrazione è una storia di famiglia. Prendi tutta la mitologia greca, egiziana, indiana…Anche il cristianesimo: la storia di un figlio e di un padre lontano. Persino Star Wars non è nient’altro che questo: tre generazioni, di padre in figlio. È qualcosa da cui siamo irresistibilmente attratti. Ti racconto questa cosa: tempo fa ho avuto una discussione con mio padre e abbiamo litigato. Sul momento non mi era importato molto, ma quando sono tornato a casa mi sono accorto che mi tremavano le mani. È questa la forza della famiglia. Sono rapporti che ti spostano, che hanno un potere enorme su di te, che tu lo voglia o meno.
In questo senso come si pone la tua esperienza di vita rispetto all’ideazione drammaturgica di “Fratelli” e “Per il tuo bene” ?
Quando scrivo, scrivo di cose che mi bruciano. Butto giù la prima stesura in pochissimo tempo, come un flusso, perché sono temi, contesti e personaggi che mi toccano molto. Non è una scrittura autobiografica, non c’è la mia vita dentro, in nessuno dei testi ci sono cose che mi sono successe davvero. Ma sono dinamiche che conosco. E c’è sicuramente il mio punto di vista. Poi, comunque, rileggendomi capisco molte cose su di me. Capisco perché i personaggi dicono certe cose. Il testo mi fa un po’ da specchio.
Quale sono le affinità e quali le divergenze fra questi che possiamo considerare finora i tuoi testi più importanti?
Diciamo così: Fratelli è un testo drammatico e un tentativo di capire come sopravvivere al dolore – se si può. Per il tuo bene è un testo drammatico e un tentativo di capire come sopravvivere alla famiglia – se si può uscirne. Sono due angolazioni diverse, a partire dal tipo di scrittura. Fratelli si costituisce quasi interamente di monologhi, flussi di coscienza molto dilatati. Ogni monologo ha moltissime immagini con le quali i personaggi costruiscono il mondo della storia. Per il tuo bene è più tradizionale, ci sono luoghi definiti e la scrittura alterna i dialoghi a un tipo particolare di monologhi brevi, quasi delle dichiarazioni.
Poi, in Fratelli c’è un tempo diverso: il racconto si riavvolge all’indietro attraverso salti temporali, con un meccanismo di disvelamento sia della trama sia emotivo, anche se il flusso resta nel complesso abbastanza chiaro. E c’è un tipo di rapporto tra i fratelli molto stretto, in un certo senso involuto, post-apocalittico: sono chiusi nel loro microcosmo, e sentono il peso infinito di un’assenza.
In Per il tuo bene il tempo è lineare, ci sono più personaggi, e c’è un discorso che oltre a parlare di famiglia, approfondisce come la famiglia vede gli estranei e come ci si rapporta. Fratelli è più specifico; Per il tuo bene è più esaustivo. Fratelli è già esploso. Per il tuo bene è in punta di piedi, è tutto in bilico, potrebbe succedere qualunque cosa da un momento all’altro, ma non ancora.
Oltre a scrivere di teatro, ti occupi anche di cinema: come cambia il tuo modus operandi quando scrivi una sceneggiatura?
Banalmente, la differenza più grande è che la sceneggiatura racconta per immagini, mentre il teatro è scrittura di scena pura, con le dovute eccezioni. Poi, la sceneggiatura non è un prodotto finito, è uno strumento di lavoro concreto, che per questo richiede un’impaginazione molto precisa, ad esempio per effettuare lo spoglio. C’è anche una questione culturale: il testo teatrale può diventare qualcosa di sacro e intoccabile, e sono tutti gli altri a doverci girare intorno. La sceneggiatura invece continua a cambiare -per le mani del regista cinematografico o degli attori stessi- fino al giorno in cui non si gira la scena. Il vantaggio di scrivere per entrambi i media è che puoi provare ad unire il meglio dei due mondi. La forte scrittura di scena del teatro, dialoghi in cui anche se non si dice nulla emergono i rapporti e il conflitto, e il rigore descrittivo della sceneggiatura, che ti impedisce di essere troppo didascalico. Scrivere una bella sceneggiatura, comunque, in quanto testo da lavoro, non è sempre indicativo del risultato finale, richiede un regista bravo. Invece, nel caso della trasposizione cinematografica di un testo teatrale, ci sono mille esempi positivi: mi vengono in mente Killer Joe, o Carnage. Se la regia è buona, il testo fa un ulteriore salto, altrimenti mantiene comunque la sua efficace scrittura di scena.
Quali sono le sensazioni dopo aver ricevuto un premio prestigioso come il Premio Tondelli? Che ricordi hai della serata di premiazione e dell’incontro con alcuni fra i più importanti nomi del teatro italiano contemporaneo?
Pensare di essere nella stessa, ristretta lista, con gli altri autori che hanno ricevuto questo premio è incredibile. Sul palco Fausto Paravidino ed Emma Dante hanno letto l’inizio del testo. Dopo ho avuto occasione di parlare e confrontarmi con i giurati, tutte persone che stimo molto e di cui seguo il lavoro nei vari ambiti. È stato emozionante, e un bellissimo regalo.
da Edoardo Borzi | 25 Set 2022 | News
Sabato 23 settembre, in piazzale Ceccarini, si è celebrata la 54ª edizione del Premio Riccione per il Teatro, manifestazione che pochi giorni fa ha ricevuto la medaglia del Presidente della Repubblica. Nato nel 1947, il più longevo concorso italiano di drammaturgia ha festeggiato i suoi primi 70 anni con una serata-evento presentata da Graziano Graziani (Radio 3) e dall’attrice Silvia D’Amico. Alla serata, culminata con la premiazione dei vincitori del concorso, ha partecipato anche la giuria, presieduta da Fausto Paravidino e composta dallo stesso Graziani e da Giuseppe Battiston, Arturo Cirillo, Emma Dante, Federica Fracassi, Claudio Longhi, Renata Molinari, Laurent Muhleisen e Christian Raimo.
Assegnato con cadenza biennale all’autore di un testo teatrale (in italiano o in dialetto) ancora non rappresentato, il Premio Riccione per il Teatro (5000 euro) è andato quest’anno a Vitaliano Trevisan per Il delirio del particolare. Ein Kammerspiel. Nato a Sandrigo (Vicenza) nel 1960, Trevisan è uno dei più affermati scrittori e drammaturghi italiani e ha già ricevuto una menzione speciale al Premio Riccione nel 2015. Per il teatro ha curato l’adattamento di Giulietta di Federico Fellini e ha scritto, tra gli altri, Il lavoro rende liberi e Solo RH, portati in scena rispettivamente da Toni Servillo e Roberto Herlitzka; di recente ha inoltre adattato Il giocatore di Dostoevskij. Al cinema ha lavorato come attore e sceneggiatore in diversi film, tra cui Primo amore di Matteo Garrone.
Trevisan ha superato gli altri finalisti Carlotta Corradi (Nel bosco), Francesca Garolla (Tu es libre) e Fabio Massimo Franceschelli (Damn and Jammed). Tutti i finalisti restano comunque in gara per un premio di produzione da 15.000 euro, assegnato per favorire la rappresentazione dell’opera presentata in concorso. Franceschelli ha inoltre conquistato la menzione speciale “Franco Quadri” (1000 euro), riservata al testo che meglio coniuga scrittura teatrale e ricerca letteraria. Nato a Roma nel 1963, Franceschelli si alterna tra saggistica e drammaturgia, critica e narrativa. È autore di commedie, monologhi e drammi rappresentati in Italia e all’estero, ed è redattore della rivista di drammaturgia contemporanea Perlascena.
Come accade da molti anni, il concorso – organizzato da Riccione Teatro e dal Comune di Riccione con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e di Hera – riserva un riconoscimento a sé agli autori under 30, il prestigioso Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” (3000 euro). In questa categoria è risultato vincitore Pier Lorenzo Pisano con Per il tuo bene, storia di una famiglia che cerca di superare con leggerezza un momento difficile. Anche questa, come ogni famiglia, ha le sue regole. E si basano tutte sul ricatto d’amore. Nato a Napoli nel 1991, laureato in conservazione dei beni culturali a Venezia, Pisano ha studiato come attore, perfezionandosi alla Guildhall School of Music and Drama di Londra, e ha approfondito il suo interesse per la scrittura teatrale con Michele Santeramo, Stefano Massini e Mark Ravenhill. Ha già ottenuto i primi riscontri come drammaturgo e sceneggiatore (Hystrio e Solinas, tra gli altri) e ha lavorato anche come assistente alla regia e montatore cinematografico. Di recente si è diplomato al corso triennale di regia del Centro sperimentale di cinematografia.
In finale, Pisano ha superato Christian Di Furia (Un pallido puntino azzurro), Riccardo Favaro (Nastro 2), Tatjana Motta (Nessuno ti darà del ladro). I finalisti partecipano anche in questo caso all’assegnazione di un premio di produzione (10.000 euro).
Quest’anno è stato inoltre introdotto un Premio speciale per l’innovazione drammaturgica, assegnato fuori concorso a una personalità capace di aprire nuove prospettive al mondo del teatro. Il premio è andato a Chiara Lagani, attrice e drammaturga ravennate, fondatrice della compagnia Fanny & Alexander. A decidere il vincitore, che sarà protagonista di una personale al prossimo Riccione TTV Festival, è stato un comitato scientifico formato dai critici di quattro riviste: Lorenzo Donati (Altre Velocità), Francesca Pierri e Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica), Francesca Serrazanetti (Stratagemmi), Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin).
da Edoardo Borzi | 4 Apr 2022 | Interviste
Filippo Gili, diplomatosi come attore presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, dopo aver lavorato negli anni ’90 in diverse messe in scena di Luca Ronconi si rivela uno dei più prolifici e versatili artisti del panorama nazionale come regista e autore di numerose opere teatrali e cinematografiche. Ha diretto i lungometraggi Casa di Bambola, Prima di andar via, L’ultimo raggio di luce firmando le regie teatrali di Porte chiuse da Sartre, Spettri da Ibsen, Oreste da Euripide scritto a quattro mani con Marco Bellocchio, Tre sorelle da Cechov e l’Amleto con Daniele Pecci. Nel gennaio 2016 è andata in scena, con la regia di Francesco Frangipane, la sua Trilogia di mezzanotte, nonché, con la sua regia, l’Antigone di Sofocle al Teatro dell’Orologio e Zio Vanja al Teatro Argot nell’ambito del progetto Sistema Cechov sempre realizzati con Uffici Teatrali, la compagnia di cui è cofondatore. Lo abbiamo incontrato a pochi giorni dall’inizio delle rappresentazioni di Aspettando Godot per discutere delle condizioni storiche e delle espressioni artistiche proprie della nostra contemporaneità da cui prendono vita le creazioni sceniche di cui Filippo Gili è stato e sarà ancora artefice.

A cosa è ascrivibile il grande interesse artistico che, alla luce del tuo percorso di attore, di regista e di autore, hai rivolto in maggior parte al repertorio del teatro classico? Quanto è stata determinante la passione letteraria verso i testi classici nel favorire la tua produzione registica e drammaturgica?
Non lo so, per me è stato un percorso piuttosto composito. Non lego la mia attività di drammaturgo alla mia predilezione verso il teatro classico. Più come regista mi interessa il teatro classico, per classico intendo dire fino a pochi anni fa, Beckett ha scritto nel ’48 “Aspettando Godot”. Sono attratto dagli universali, dagli archetipi, il teatro classico ne è zeppo: da Eschilo fino a Beckett li abbiamo tutti. Ho proprio la sensazione di ritrovarmi sempre al centro dei problemi umani al di là della contemporaneità. La nostra contemporaneità si caratterizza di elementi e su temi che possono essere specifici di questa età, non nego a queste caratteristiche il loro valore ma certo quello che penso e sento è che rispetto alle problematiche fondamentali dell’uomo le parole più importanti sono già state dette, parecchio tempo fa, rispetto alla condizione dell’uomo, alla condizione della famiglia, dell’individuo. Quindi io sono – non so il perché – fatalmente attratto da questi senza una ragione che vada al di là di un sentimento armonico che mi fa vibrare di più. Se parliamo di crisi familiare per esempio ci sono dei testi anche contemporanei che ne sviluppano una straordinaria analisi però sono più attratto da quello che è stato capace di dirne e di implementarne Ibsen. Così vale per tanti altri temi legati alla questione postmoderna, sono attratto da Sartre o da Beckett piuttosto che da altri contemporanei. La mia attività di drammaturgo non so quanto c’entri direttamente con questo. Io scrivo spesso opere che trattano condizioni psicologiche piuttosto fondamentali. Anche qua vale lo stesso discorso: sono opere svincolate da una identificazione storica legata alla propria contemporaneità. Sono contemporanee perché l’ambientazione è sempre contemporanea però ci troviamo di fronte a temi che possono fare il filo con certi complessi antichi. Mi riferisco al complesso di Elettra, il complesso di Edipo oppure in “Prima di andar via” c’è la condizione dell’uomo che decide di suicidarsi ma per farlo lo comunica la sera stessa alla famiglia così identificando la questione dell’addio fra vivi. L’addio fra vivi è un patrimonio umano che è stato perduto, per colpa o grazie al fatto che il progresso e la tecnocrazia della contemporaneità nel Novecento hanno consentito il superamento di questo tipo di condizione però è una condizione che ha caratterizzato per millenni l’uomo.
Secondo questa prospettiva la drammaturgia coeva si sta spingendo sempre di più verso una dimensione sceno-centrica con il rischio che la figura del drammaturgo di professione come è stata per tanto tempo scompaia definitivamente. Cosa ne pensi a riguardo?
È una scommessa di cui non conosco la capacità di uscirne vittoriosi. Io so che ciò che rimane da sempre sono i problemi fondamentali. Le maschere o la cosmesi del realismo storico-ambientale ovvero le questioni che sembrerebbero più contemporanee di altre, sono sempre state in qualche modo alla fine al vaglio della lunghezza e del tempo che scorre, sempre soppiantate dall’eterno galleggiamento delle strutture di base. Ritengo che sicuramente oggi esista una drammaturgia che resisterà al tempo, io credo che in ogni epoca ci sia stata la drammaturgia contemporanea che poteva sembrare estremamente efficace ma di cui, al dunque dei 50 o dei 60 anni, si sono perse un po’ le tracce. Invece sono rimaste le tracce di quelle varie fasi di diverse contemporaneità che però sono state in grado di far risuonare delle corde, che, all’interno di un’ambientazione legata a una identificazione contemporanea, avessero la qualità di far risuonare dei timbri che riguardassero l’uomo nella questione fondamentale del suo essere. Chiaramente c’è la questione dell’essere del Novecento che è una questione differente rispetto a quella dell’Ottocento. A mio avviso nel tempo non rimarrà una tipologia di drammaturgia ma riusciranno a rimanere sempre quei culmini all’interno delle varie situazioni drammatiche che saranno stati capaci, nell’odore del tempo vivente, di proporre dei gusti più legati alle questioni eterne.
In questo scenario si inserisce perfettamente Aspettando Godot che esprime in maniera universale la sostanza irrudicibile dell’essere. Quali sono i parametri filosofici e artistici che hai perseguito per l’analisi e la rappresentazione di questo capolavoro?
Io credo che farò un seminario tra aprile e maggio e lo intitolerò Beckett ovvero tutt’altro che assurdo. I motivi mi che mi hanno spinto a lavorare su Beckett sono tanti: uno, un po’ più spicciolo però estremamente accattivante per me, è quello di accarezzare la possibilità di creare un presupposto di lavoro artigianale che si svincoli dal “beckettismo” e dal “beckettiano” quindi riuscendo a trovare degli orizzonti che sono piccoli passi ma che driblino questa specie di coazione a ripetere un po’ stilistica, molto legata a certi grandi autori, per esempio per Cechov c’è il “cechoviano” o per Beckett il “beckettiano”. Per me è sempre stato una piccola sfida il fatto di decechovizzare Cechov o debeckettizzare Beckett cioè uscire fuori da quei gangli coartanti dello stilismo strutturalistico, saggistico e scenicistico con cui hanno etichettato questi grandissimi autori. Per me Beckett non è beckettiano, Aspettando Godot non è affatto una situazione assurda o quanto meno è assurda nella misura in cui la si veda da lontano ma per chi la vive da dentro non è assurda. Aspettando Godot in particolare è uno studio sul linguaggio, uno studio sulla conversazione, sul posto moderno conversativo, sul postmoderno discorsivo, sul postmoderno riflessivo ma in ogni istante in cui viene affrontato questo studio estremamente realistico non è affatto consapevole di essere assurdo. Questo è sempre l’errore che fa la regia o fa l’attorialità nell’istante in cui interpreta un autore: è come se già imitasse il senso globale dell’autore stesso mentre il senso globale non va imitato, va ricostruito con la capacità di un mosaicista di lavorare tassello per tassello e alla fine poi vedere l’immagine. Mi sono avvicinato a Beckett innanzitutto perché è un genio assoluto e ha una capacità di inquadrare la questione fondamentale dell’essere ossia, messi sotto ipnosi, Vladimiro ed Estragone non vorrebbero mai incontrare Godot così come è chiaro il fatto che tutto si incentra intorno alla questione del domani. Il domani è l’invenzione più atroce e più perversa del contemporaneo positivista legato alla concezione post baconiana del progresso che in qualche modo disinnesca la capacità dell’immediatezza sul vivere oggi, l’hic et nunc, il now non esiste più. La tecnocrazia di cui in qualche modo il ‘900 è divenuto Sistema è legata alla connessione dell’aggiornamento del 2.0, del 3.0 e quindi alla religione del domani ma il domani è come un cane che si morde la coda, è l’uomo che cerca di afferrare la propria ombra. Il domani non esiste perché il domani, per definizione, sarà un oggi diverso che tende a un nuovo domani. Questo Beckett lo racconta benissimo ma questo domani che è la nostra religione in realtà è una cosa di cui psicologicamente Vladimiro ed Estragone sono meravigliosi portatori, qualcosa di cui non hanno nessuna voglia di liberarsi. La psiche non vuole liberarsi, non vuole l’inveramento del domani perché la psiche è reazionaria per statuto che si identificata in una modalità conservativa. Ciò che fonda questo testo non è Godot ma è il gerundio “Aspettando”: la vita è aspettando e se da questa attesa dovesse liberarsi la vita andrebbe totalmente in tilt.
Chi o cosa si cela sotto le spoglie irreali di Godot per Filippo Gili?
Io dovrei disturbare il mio inconscio e dirti chi è Godot – aggiungendo altresì che tutto voglio tranne che vederlo. Questa è la risposta seria per quanto mi riguarda, perché Godot non fa niente – come dice perfettamente il testo – e non fare niente in chiave parmenidea vuol dire non essere niente. In questo senso non essendo niente è evidente che Godot sia il concetto del domani cioè la protensione verso il domani. Il domani non esiste è un concetto che sarà sempre sfuggente, è una furbizia del post-moderno che giustifica la propria inadempienza all’immediatezza attraverso la divinizzazione. Dio è il domani, se togliessimo il concetto di domani a Dio, Dio non esisterebbe più. La morale di Josaphat sta alla fine dei tempi, e la fine dei tempi è il domani di tutti i domani ma Dio non c’è – per quanto mi riguarda. Quindi è un patto chiaro questo qua sui miei desideri che siano il nulla ma facciano finta di essere tutto.
Se in Godot si reincarna idealmente l’attesa umana del domani, cosa ti aspetti per il tuo domani come uomo di teatro?
Io spero di non avere Godot e credo di non avercelo: spero di imparare sempre di più della vita e dalla vita vivendo momento per momento, giorno per giorno, situazione per situazione. Poi è chiaro che il mio domani è ancora legato a un neo-romanticismo sulla questione della rivelazione della possibilità di fare questo lavoro in maniera più serena, più libera, più ricca con maggiori chance di libertà ideativa, creativa e realizzativa. Però in realtà il mio vero Godot è la possibilità di vivere con serenità la vita e di viverla cercando di soffrire il meno possibile e di essere all’altezza di ciò che siamo. Questo è il mio Godot.
Come è stato il periodo di lavoro insieme a Luca Ronconi? Cos’hai imparato dal Maestro?
Come attore poco perché a mio modo di vedere Ronconi era un regista che rovinava gli attori perché aveva un atteggiamento rivelazionale e meraviglioso. Era un grandissimo lettore dei testi e oltretutto un grandissimo attore realista. Poi non si sa per quale motivo, a un certo punto delle prove, durante il passaggio dal tavolino alla messinscena si creava una specie di effetto matrix che corrompeva chimicamente il bel lavoro fatto nella visione codificata di un atteggiamento recitativo cosiddetto ronconiano che tale non era – per me Ronconi non era ronconiano. Però Ronconi ha scelto il ronconiano in una specie di sua isteria identificativa nata da una voglia di rompere la tradizione della compagnia dei giovani, da quegli anni ’60 pesantissimi dove lui è stato un genio assoluto avendo già rotto con la tradizione; è come se si fosse portato un po’ troppo appresso fino alla morte la sua capacità di essere un giovane ribelle. Il suo “Aspettando Godot” cioè il ribellismo anti-realismo andava contro la sua stessa natura, una natura estremamente realista quando recitava e quindi anche quando leggeva il testo. Invece di portarlo a una deriva in qualche modo decodificata è rimasto una specie di anti-codice del codice teatrale filo-drammatico che ha creato lui in un altro mostro codificato. Ronconi con gli attori lavorava in maniera coartante, non favoriva la identificazione della natura espressiva dal punto di vista individuale con questa sorta di dogma dell’odio verso l’interiorità – che posso condividere perché l’interiorità è quasi sempre poca cosa. Però l’interiorità è una cosa e la natura espressiva è un’altra: io non potrei mai vedere a teatro un attore perché si esprime attraverso delle scelte espressivamente diverse dalle sua, va convogliato infatti come dico sempre agli attori: “per me questo mestiere è bello perché è un viaggio all’interno di sé stessi”. Che significa? Significa che io se ho cinquant’anni e sono una brava attrice e ho la mia vita e faccio Ecuba nelle Troiane il mio viaggio è quello di capire che cosa accadrebbe a me in quelle condizioni. Il viaggio non è la scoperta di ciò che si è ma di ciò che non si sa di essere, secondo me. Dato che tutti quanti noi abbiamo per nostra sfortuna una grande quota contemporanea legata a ciò che siamo adesso ma è impossibile che in noi non vi sia una quota archetipica sempre più distrutta dalla nostra contemporaneità – per me un attore deve essere messo in condizione di far risuonare la corda verso la questione archetipica. Il che vuol dire che se ti dice male ti ritrovi a Rigopiano con l’albergo crollato o stai a Norcia o ad Amatrice e ti cade la casa addosso e ti muore un figlio e lì tocchi l’archetipo. Se non ti dice male provi a fare questo mestiere nei panni di una che ha davanti Troia distrutta e ti ci devi mettere: il che non significa che Ecuba diventa te né che tu diventi Ecuba, significa che fai quel viaggio all’interno di ciò che non sai di te simulando e immaginando in chiave aristotelica, quali archetipi comportamentali scattano a fronte di certi archetipi situazionali.

Il teatro degli archetipi racconta delle cose che non sono più raccontabili oggi perché per fortuna o per sfortuna nostra la guerra non c’è più, i grandi drammi non esistono cioè quelle grandi cose che caratterizzano drammaticamente l’uomo sono mediate dal punto di vista giornalistico, quindi non sono più reali. Con Ronconi questo non accadeva, accadeva che lui non ti metteva in condizione di fare questi viaggi e ti imponeva il suo sguardo creando un marionettismo formalistico dal basso verso l’altro, con grandi attori marionetta e piccoli attori marionetta che in qualche modo portavano avanti un progetto piuttosto infantile ed egotico nel senso di rappresentare sé stessi. Per me è stato un amore Ronconi, mi ha insegnato tanto ma come regista e anche inconsapevolmente perché quando lavoravo con lui non pensavo che avrei fatto il regista. Molte delle questioni sull’apparato scenico le ho apprese da lui però me ne sono molto discostato nel corso dei tempi sempre di più, negli ultimi anni massivamente, rispetto alla questione della rappresentazione. Per me ciò che si vede in scena deve essere espressivamente concreto – si potrebbe aprire una forma di concretismo cioè che passabile o meno dal punto di vista uditivo – io non lo affronto diversamente da come affronterei il cinema. Non ne faccio una questione formale, però penso che quando gli attori dicono le battute devono essere concreti; poi la scommessa – qua ho imparato da Ronconi totalmente – sta nel fatto che il database delle battute non è il teatro ma la vita. Il teatro spesso è autoreferenziale, il teatro fa il teatro quindi non puoi rubare al teatro l’archivio dati delle varie intonazioni o dei vari modi che si associano a certi comportamenti ma alla vita: la vita è una maestra superiore al teatro, il teatro incoscienziosamente ha sintetizzato la vita in una serie di variabili tremendamente inferiori per numero. Ecco, rubare alla chimica della vita applicando un criterio di lettura il più possibile intelligente e profondo per trovare alla fine intonazioni, modalità, volumi, timbri o tonalità espressi da un attore che non li abbia mai utilizzati prima ma che siano i suoi. Non li ha mai utilizzati perché non è mai stato messo in condizione di doverli utilizzare però la voce è la sua, la timbrica è la sua, l’espressività è la sua, il naso, la bocca e il corpo sono i suoi.
Come hai affrontato il passaggio registico dal teatro al cinema? C’è una possibilità di ulteriore allargamento degli orizzonti teatrali in ambito cinematografico?
Il mio sogno è di fare grandi film delle grandi opere teatrali. Non ci sono i mezzi in questo paese e in questo momento per poterlo fare. Sono sempre stato una vela al vento, forse ancora infantile sotto certi aspetti. Quindi sempre un po’ bovaristicamente teso a sfuggire al complesso di responsabilità e quindi passare dal fare l’attore al fare al regista, dal fare il drammaturgo al fare lo sceneggiatore, non so se è una cosa molto sana e di maturità piuttosto che una sorta di indicatore di intenzionalità di mantenere viva la vita all’interno di cambiamenti che in qualche modo deresponsabilizzano paradossalmente rispetto all’esito di una scelta. Io per sfuggire agli esiti della scelta ho sempre cambiato, mi sono creato un mondo di competenza su vari aspetti ma non avendo mai focalizzato niente sono andato avanti più in là, questo per certi aspetti è meglio per altri è peggio. Io non mi sento un teatrante, mi sento una persona con la passione per l’indagine sulla vita e quindi quando mi sono ritrovato la possibilità di fare altro ho scelto altro per curiosità o perché in altro trovo altre possibilità di poter esprimere i risultati di certe ricerche. Se dovessi celebrare al livello di senso e di significato non saprei dire, mi sono trovato per caso a scrivere una drammaturgia o a dirigere – forse non per caso ma apparentemente per caso. Una condizione psicologicamente fondamentale è stata quella di non fare i conti con gli esiti di ciascuna scelta; la cosiddetta viltà della vita cioè la paura di sbagliare, di fallire, di rivelarmi come attore. A un certo punto c’è quella specie di macro-inganno che tutti corriamo, banalmente: “Ce l’ho fatta o non ce l’ho fatta? Non mi pongo il problema, mi faccio un altro viaggio”. Io vorrei avere più possibilità economiche per poter fare gli spettacoli, non ho ancora quel registro di riconoscibilità che mi consente di fare quello che mi pare, dal punto di vista artistico sono contento di ciò che sono. Mi rendo conto che il mio indicatore non è sulla questione del fallimento, quest’ultima non te la giochi mai dal punto di vista artistico, è sempre una questione sociale. Il rapporto con gli amici, il rapporto con i parenti, il rapporto con la persona che ami. Non è un problema artistico, mi sono sempre sentito all’altezza della situazione; è un problema di realizzazione sociale, è quello che ti fa fuggire. Il mio metro è basato sugli spettacoli che faccio, da quel punto di vista sono molto contento di quello che faccio, degli attori con cui lavoro, delle situazioni che creo, sono felice di questo e vorrei farlo un po’ di più. Anche se probabilmente negli anni precedenti abbiamo fatto tante cose, l’indicatore artistico è la mia centratura. Dal quel punto di vista mi sento molto equilibrato.
da Edoardo Borzi | 10 Feb 2022 | Drammaturgie
Figlie d’Egitto ovvero Le Supplici di Sofia Bolognini, autrice e regista teatrale classe 1992, vincitore del premio Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea 2016 con la seguente motivazione:
“Un testo compatto, organicamente strutturato, appoggiato su modelli drammaturgici focalizzati sul gender, che riesce, seppur attraverso una struttura formale e ritmica per così dire classica, a reinterpretare il mito senza perdere la forza originaria dei grandi tragici e a proporre temi contemporanei quali il conflitto tra Oriente e Occidente, il corpo della donna come luogo di guerra e sopraffazione e il confronto/scontro tra due tipi contrapposti di potere. Un’opera nella quale l’antico favolistico e l’allusiva contemporaneità mediatica si amalgamano quasi sempre con equilibrio. Un testo che ben si adatta ad essere rappresentato nel teatro greco di Segesta senza stravolgerne il forte impianto scenografico naturale, puntando sulla parola, sul lavoro degli attori e le relazioni archetipali tra i personaggi.”
Nota di Sofia Bolognini, autrice del testo:
Figlie d’Egitto ovvero Le Supplici vuole esserne una sintesi, un rimescolamento, una ricostruzione per frammenti, una reinterpretazione poetica. Rispetto alla tragedia classica, l’ordine degli eventi è stato invertito: le supplici sbarcano sulla spiaggia di Argo dopo aver ucciso i propri mariti, non prima. Esse dunque scappano dalla pena di morte, non dalle nozze. Il linguaggio è un tessuto di sperimentazioni e innesti. L’impianto generale procede per scansioni ritmiche solenni rispettando la sonorità classica. Alcune citazioni particolarmente efficaci dell’opera antica sono state inserite organicamente nel testo, opportunamente segnalate da asterisco. Non mancano innesti moderni, volutamente isolati e stridenti, pensati per disarcionare di colpo l’orecchio dello spettatore. Un’indagine sul conflitto tra Oriente e Occidente, sintentizzati nelle figure del Principe d’Egitto e del Sovrano di Argo. Figure archetipiche, protagoniste di uno scontro sleale e fratricida. Argo è industriale, democratica, senza déi. Egitto è brutale, integralista, tirannico. Con la stessa violenza combattono per il dominio economico sul mondo: i giagimenti di petrolio, che compaiono anacronicamente nella piece assieme a cacciabombardieri e smartphone, confondendo epoche storiche, rimescolando gli eventi. Uno studio sul conflitto di genere, sintetizzato in chiave filosofica. Il rifiuto delle nozze e l’uccisione dei propri mariti significano l’impossibilità del riconoscimento all’interno di una cultura maschilista e imperialista, fondata sul possesso e sull’oggettivazione del mondo (in questo caso, del corpo femminile). Il maltrattamento delle donne che nel testo subiscono le peggiori umiliazioni tanto in Egitto quanto in Grecia, è stigmatizzata in una denuncia filosofica che oltrepassa i confini di genere. Di contro al capitalismo dell’Io e alla lotta per la supremazia, si auspica il ritorno ad una visione più mite del mondo, basata sul rispetto reciproco, la coappartenenza e la cura, della madre verso il figlio, della terra verso gli uomini. Ovunque esiliate e respinte, le Supplici non sono più donne, ma ideali. Non portano frasche d’ulivo, ma una nuova visione del mondo. La Corifea diviene simbolo archetipico della Concordia tra gli uomini, fertile grembo che partorirà l’ultimo Dio. Come una sorta di Madonna pagana attraversa le terre cercando il luogo adatto per dare alla luce suo figlio. Senza riuscirvi.