La Recherche, Alla ricerca del tempo perduto: Il Marcel di Proust secondo Duccio Camerini

La Recherche, Alla ricerca del tempo perduto: Il Marcel di Proust secondo Duccio Camerini

È stato presentato all’Off/Off Theatre di Roma, dal 12 al 14 aprile, l’adattamento teatrale dell’intera opera di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto, À la recherche du temps perdu, una co-produzione del Teatro Potlach e della Casa dei Racconti. Duccio Camerini, regista e attore poliedrico di cinema e teatro, ha interpretato da solo tutti i personaggi e le fasi evolutive dell’autore francese. Marcel il bambino fragile e malaticcio, dipendente dalla madre e dalla nonna. L’adolescente suscettibile alle prese con i fallimenti dei suoi primi amori. L’uomo e la sua aspirazione di diventare scrittore, scoraggiato dal mondo esterno, alterato dall’ amore ossessivo per Albertine, sconvolto al punto da renderla prigioniera nel suo appartamento.

Duccio Camerini

Duccio Camerini

Duccio Camerini è riuscito nella non facile impresa di condensare in poco più di un’ora i sette volumi che compongono l’opera di Proust: La strada di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, La fuggitiva, Il tempo ritrovato. Non è stato facile selezionare i momenti fondamentali trasformandoli in un unicum, una drammaturgia di alto livello che conservasse lo spirito del libro, anzi dei sette libri di Proust. Basti pensare che a teatro ci sono stati allestimenti a puntate, trilogie, estrapolazioni, letture o mise en éspace.

Con le trasposizioni cinematografiche è successa una cosa più o meno simile; adattamenti del primo, del quinto o dell’ultimo volume e due celebri rinunce per diversi motivi. Il primo fu quello di Luchino Visconti il quale, volendo creare un film sulla Recherche, scrisse il testo con Suso Cecchi D’Amico la quale dichiarò in un’intervista che si trattava di una sceneggiatura di 363 pagine per oltre tre ore di proiezione”. Problemi di finanziamenti prima e di salute del regista dopo, ne impedirono la realizzazione.

Archiviato il progetto di Visconti, fu la volta di Joseph Losey, il quale chiese a Harold Pinter di scrivere la sceneggiatura. Ancora una volta, la mancanza di capitali impedì il film sulla Recherche.  Suso Cecchi D’Amico definì quello di Pinter untesto d’autore. Le due sceneggiature si chiudono con la frase “Je m’endors” – Mi addormento, pronunciata dal Narratore.

Lo sforzo di Camerini è quindi encomiabile, sia per quanto concerne la scrittura sia per la prova d’attore. Più di un’ora di monologo incalzante passando da un personaggio all’altro, da quelli maschili a quelli femminili, che si rincorrono in successione. La regia di Pino Di Buduo asseconda questo ritmo narrativo grazie alla scelta di una scenografia digitale, curata da Stefano Di Buduo, che riproduce pitture ottocentesche e immagini monocromatiche o a più motivi. La loro sfida era quella di rendere raggiungibile, attraverso il teatro, una delle più complesse opere della letteratura del Novecento. Duccio Camerini lo sostiene, tra le tante altre cose, nell’intervista che segue.

Qual è la sua personale considerazione su questa operazione proustiana?

Il mio principale obiettivo era quello di avvicinare una materia letteraria a più personeProust è uno dei giganti della letteratura di tutti i tempi eppure non è noto abbastanza, al contrario di altri grandi. Per esempio penso a Dostoevskij, il quale è più conosciuto per due considerazioni almeno. La prima è tecnica: ha scritto dei romanzi più brevi.

Il giocatore è un bellissimo libro ed è relativamente contenuto, come anche I fratelli Karamazov che straborda un po’. I demoni, per quanto sia un libro articolato, è più corto di un libro di Proust scritto in 3-4000 pagine.

La seconda considerazione è che mentre Dostoevskij si è ritagliato una vicinanza sperimentale con l’arte e la filosofia del 900, Proust è stato sempre confinato a quella Belle Époque, a quel mondo fatuo, a quella mondanità che lui sa descrivere benissimo.

Molto spesso si pensa a Proust come a un autore borghese. Una cosa è dire che quella è la sua provenienza, un’altra è che il tema della sua opera sia solo la borghesia.

Egli parte dalle sue origini perché era un borghese, figlio di un addetto del Ministero degli Esteri. Lui riesce però a creare un’architettura mentale, che poi diventerà letteraria, assolutamente straordinaria, ancora in profondo contatto con i nostri tempi.

Le ossessioni di Proust, i caratteri dei personaggi nella narrazione dello spettacolo contribuiscono a evidenziare il legame con la nostra epoca, con il nostro tempo presente?

Assolutamente sì: il legame c’è nella forma delle ambiguità, nella ferocia sociale. La società è sempre vista da Proust con una superiorità, una bonomia, una irrisione in un modo in cui lui è straordinario a esprimere.

Lui sa molto bene che quella è un’arena dei leoni, dove molti sono caduti e tante persone cadono, quindi non è un gioco. Prendendo in giro, probabilmente esorcizza e non si fa bloccare dal terrore che invece limita molti nel rapporto con la collettività. Ecco mi sembra che la nostra società, quella del 2019, così violenta, così profondamente ingiusta, così sciatta e ambigua – mi vengono alla mente questi aggettivi come primi – presenti solo differenze esterne con quella di Proust. Gli uomini non portano più la tuba, le principesse non vanno più in carrozza, ma al di là di questo io non vedo altre difformità.

Io non so se la ragione per cui Proust sia così in contatto con noi oggi derivi dal fatto che sia uno scrittore straordinario – per me ovviamente è così – oppure perché la nostra epoca è ferma ai primi del ‘900. Non sono in grado io di dirlo ma lo diranno i posteri.

La violenza e la sua rappresentazione sono il mezzo o il fine di questa esplorazione?

La violenza, il dolore, la tragedia dell’io sono dei passaggi. Il personaggio di Marcel attraversandoli crede di soccombere. In realtà questi percorsi risulteranno salvifici. Sono delle forche caudine da cui lui pensava di non uscirne vivo.

Proust pensava che l’arte fosse l’unica possibilità, l’unica chiave per poter vivere una vita piena, perché altrimenti si è costretti a vivere un’esistenza piena di compromessi e di violenze subite. Mettendosi in quell’imbuto arriverà ad una salvazione nel finale e questo è così anche nel mio spettacolo. Tengo a dire che la Recherche è un grandissimo supermercato di sensi, di storie e di personaggi. Era impossibile poter mettere in scena quello che viene proposto nelle quasi 4000 pagine dell’opera. Si è scelto il binario dell’amore, del rapporto malato tra il protagonista e una donna, Albertine, che gli sconvolgerà la vita. Non c’è dubbio che questa sia l’ossatura di buona parte della Recherche. Con molto dispiacere ho dovuto rinunciare a qualcosa, ma era chiaro che la strada che bisognava compiere fosse questa.

Cosa significa, in termini di difficoltà, la prova di attore nell’affrontare 24 personaggi? Quali sono state le opportunità di questa sfida?

Sul palcoscenico ci sono io, la rete metallica di un letto vecchio, un foglio di carta e le pareti di una stanza della tortura, in cui si trova questo personaggio. Superfici che si animano a seconda dei suoi stati d’animo, dei suoi pensieri, ci sono delle immagini che scorrono su di esse.  

Questi 24 personaggi sono anzitutto ricordati da questo uomo di mezza età, che ormai ripensa alla sua vita, come è stata prima, ripensa alla sua infanzia, alla sua adolescenza al primo amore. I personaggi sono messi in scena attraverso l’interpretazione e la deformazione della memoria, questo è il senso del lavoro che è stato fatto. Certo c’era la voglia, dato che mi trovo in un teatro a raccontare una storia, di differenziarli bene, di rendere chiara l’alternativa dell’uno e dell’altro. Tutti visti però attraverso Marcel.

Il concetto dell’io in questo spettacolo è molto importante. C’è un punto bellissimo quando a lui succede una cosa particolare, Albertine scappa dalla casa dove lui ha provato in tutti i modi a tenerla sentimentalmente prigioniera e lui dice: «È necessario informare tutti gli esseri dentro di me, tutti gli innumerevoli io che mi formano, perché alcuni di loro qui dentro ancora non sanno che Albertine se n’è andata.»

In questo tipo di letteratura Proust è vicinissimo a Joyce, un altro gigante che nel ‘900 lo abbiamo sentito molto vicino perché ha cambiato la cultura letteraria. Sicuramente molto più libero da certe origini benestanti, figlio di una famiglia profondamente cattolica, suo padre era un doganiere e un attivista del partito autonomista irlandese. Insisto ancora sul fatto che Proust viene sempre visto come un figlio della borghesia che parla di problemi borghesi, ma non è assolutamente così

Come, dove e quando è iniziata questa operazione?

Verso i miei 30 anni, avevo 28-29 anni e ho cominciato a leggere il primo volume di Proust. Mi ricordo che ero a Trieste. Guarda caso è una città che ritorna nella Recherche e mi sono immediatamente agganciato a questo mondo e a questo modo di scrivere. Da lettore ne ero succube totalmente. Ho impiegato tanti anni a leggerlo, ho finito 4 anni fa. Perché sono tanti libri, ma anche perché quando leggo una cosa mi piace andare lento e spero che non finisca mai. Mi è successo così per i libri di Gabriel Garcia Marquez.

Proust mi ha accompagnato in questo lungo periodo, ci sono voluti una ventina d’anni con i miei ritmi. Ogni tanto facevo finta di essermi dimenticato a che punto ero arrivato e ritornavo indietro. Mi è ricapitato recentemente tra le mani il testo La prigioniera, uno degli ultimi libri della Recherche, uno di quei libri pubblicati postumi che lui non ha potuto rivedere fino in fondo, senza aggiungere altro ancora, così come aveva fatto con i precedenti.

Gli ultimi libri sono più smilzi poiché lui era già morto. Tutte le volte che Proust correggeva le bozze le farciva, di ancora più annotazioni, personaggi, ancora più filosofia e idee: era il suo modo di essere. Mi è capitato questo libro dove il tassello centrale è il rapporto tra Albertine e Marcel e da lì è venuta fuori l’idea di provare a vedere il racconto dal punto di vista di Marcel con tutti questi personaggi che lo vengono a visitare nella sua memoria.

Questa operazione è stata articolata con tre anteprime che noi abbiamo fatto per rappresentare il progetto presentando agli operatori culturali. Adesso vediamo che cosa succede, mi sembra che sia andato bene e siamo molto contenti di queste tre giornate all’Off-Off, sono state forti. Abbiamo sentito molto interesse e anche molto calore dal pubblico e devo dire che questa cosa ovviamente ci conforta. È ancora una grandissima sfida però mi sembra che ci stiamo avvicinando a vincerla.

Karamazov della Compagnia Vico Quarto Mazzini. Intervista a Michele Altamura, Gabriele Paolocà e Francesco d’Amore

Karamazov della Compagnia Vico Quarto Mazzini. Intervista a Michele Altamura, Gabriele Paolocà e Francesco d’Amore

Lo spettacolo “Karamazov” della Compagnia VicoQuartoMazzini è andato in scena in prima nazionale il 27 e 28 dicembre al Teatro Petruzzelli all’interno della stagione teatrale del Comune di Bari – Teatro Pubblico Pugliese 2017/2018.

Liberamente ispirato all’opera di Dostojevski, “Karamazov” è uno spettacolo su come ognuno di noi può fare della propria colpa un tormento o un ornamento, dei propri ricordi uno scudo o una lancia, e della propria famiglia un nido o una gabbia. Quattro tra i migliori attori della scena teatrale e televisiva pugliese per la prima volta si sono trovati insieme sulla scena diretti da due giovani registi Michele Altamura e Gabriele Paolocà. La drammaturgia è di Francesco d’Amore (Compagnia Maniaci d’Amore).

Riportiamo di seguito un’intervista con Michele Altamura, Gabriele Paolocà e Francesco d’Amore a partire dallo spettacolo “Karamazov” visto al Petruzzelli il 27 dicembre.

 

D: A chi è venuta la folle idea di trasportare i fratelli Karamazov a Bari?

Gabriele e Michele: A noi due!

Michele: Era una cosa che avevamo in testa da tempo. Da sempre, un po’ per gioco, sognavamo di prendere un grande titolo, una grande riscrittura, e di affrontarla con attori che di solito fanno tutt’altro genere, per cercare una lingua comune e un modo per stare tutti insieme e fare un grande evento. Poi, quando abbiamo cominciato a parlarne con altri, qualcuno ha detto: “È bellissima quest’idea!” e le cose sono andate avanti.

Gabriele: Sì, sempre sul percorso, che ci appartiene ormai da due o tre anni, di riscrittura dei grandi classici. Abbiamo affrontato Shakespeare, Pirandello, Ibsen… Il nostro motto è alzare sempre la posta e quale modo migliore di Dostoevskij per alzare la posta? I fratelli Karamazov è un testo che ci ha sempre spaventato e allo stesso tempo stimolato, perché è quel tipo di arte che ti porta a pensare: “Okay, io quando sarò grande spero di fare qualcosa di simile, anche solo in minima parte”. In questa operazione di riscrittura abbiamo scelto grandi attori, ma che fossero allo stesso tempo avulsi dal contesto che uno si immaginerebbe per un’operazione del genere.

 

D: “Senza tradizione, l’arte è un gregge di pecore senza pastore. Senza innovazione, è un cadavere.”, scrive Winston Churchill. I Karamazov ha messo a confronto due generazioni e due modi diversi di fare teatro. Problemi nella direzione degli attori? Come siete riusciti a creare una lingua comune?

Michele: Lavorando. Semplicemente provando a fare teatro.

Gabriele: In realtà quando li abbiamo chiamati eravamo sulle spine. Però eravamo talmente elettrizzati e contenti di avere questa opportunità, talmente appassionati a quello che avevamo in testa che quando li abbiamo incontrati siamo riusciti a trasmettere questa nostra urgenza. Loro si sono affidati completamente, noi abbiamo costruito una struttura dove potessero avere ampi spazi di scelta e di decisionalità: hanno deciso molto dei propri personaggi, hanno stravolto a loro volta lo stravolgimento di Francesco. Era ciò che volevamo: far sì che si appropriassero delle parole, per rendere originale e unico il lavoro. 

 

D: Francesco è riuscito a creare un testo in cui si alternano la comicità popolare e i temi di Dostoevskij. Quali sono state le fasi di lavoro?

Gabriele: Avevamo un soggetto chiaro, che era quello dei Fratelli Karamazov quarant’anni dopo, e c’era la voglia di renderli rincoglioniti. Così abbiamo bussato alla porta di Francesco e abbiamo selezionato insieme i temi. Quando sono cominciate le prove con gli attori, il testo era già scritto.

 

D: Dopo la seconda e ultima replica, Michele ha scritto su Facebook: “Non voglio dire che siano stati i giorni più belli della mia vita (tanti ce ne sono stati e tanti, si spera, ce ne saranno), ma poco ci manca.” Qual è lo spettacolo di cui andate più fieri?

Francesco (suggerendo): Il prossimo! Si dice sempre il prossimo!

Michele: Ogni spettacolo ha la sua storia e la sua fascinazione. È chiaro che per me, che sono nato qui, arrivare al Petruzzelli è stata una cosa grande, che fa paura. Passando da Corso Cavour, l’altro giorno, ci siamo chiesti: “Ma è successo davvero?”

Gabriele: Io sono l’eterno insoddisfatto, non mi sento mai all’altezza di quello che faccio, quindi forse “il prossimo” è davvero la risposta giusta!

 

D: Nel suo articolo “La fine che rischia una giovane compagnia” (ilpickwick.it, 29 dicembre 2017), Alessandro Toppi denuncia un sistema teatrale che non lascia alle giovani compagnie, che pur contribuisce a promuovere, il tempo per il consolidamento del proprio linguaggio artistico, la possibilità di maturare, l’opportunità dell’errore e sottolinea “il contrasto tra le urgenze creative e la ricerca del consenso, tra il bisogno di un giusto ritmo di lavoro e la paura di essere fatti fuori dal sistema, tra la libertà di sbagliare e un mercato che contempla sempre meno la fallibilità”. Quanto vi riconoscete in questa riflessione?

Francesco: Nella mia – come penso anche nella loro – esperienza non c’è uno spettacolo di riferimento iniziale a cui vogliamo in qualche modo tener fede, per dimostrare che siamo all’altezza di quel lavoro passato.

Sia ai Maniaci d’Amore che ai VQM piace fare sempre una cosa un po’ più difficile di quella precedente, quindi forse sì, il sistema cerca delle conferme, noi cerchiamo invece di fare sempre cose diverse, forse perché ci annoieremmo a fare una cosa che sappiamo già fare. So cosa mi viene facile e non lo faccio. Gabriele e Michele con i Karamazov mi hanno proposto qualcosa che era oltre il mio oltre. Intanto perché non avevo mai riscritto un classico, poi per via dei tanti paletti… Era una cosa per me molto difficile. Quindi secondo me no, noi non rientriamo in questa trappola, o almeno non mi sembra.

Gabriele: No, poi ci sono delle dinamiche opinabili come quella per cui il debutto deve essere la prima assoluta. Ne parlavamo di recente proprio con Nicola Pignataro: in America uno spettacolo viene prima sperimentato in provincia e solo quando è pronto arriva a Broadway. Invece qui è il contrario. La prima occasione è quella buona. I critici lo sanno e ultimamente tendono sempre di più a difendere gli artisti. Se hai a disposizione 20, massimo 30 giorni di prove, che sottraendo il tempo perso per le questioni tecniche e logistiche diventano 15, alla prima non sei mai all’altezza della situazione. Ma magari lo spettatore questo non lo sa e ti brucia.

Quest’ansia qui che ci contraddistingue – perché siamo sempre di fronte a quest’aspettativa, perché il mercato è sempre più piccolo, perché la gente che va a teatro è sempre di meno e paradossalmente i gruppi teatrali sono sempre di più – implica l’aspirazione ad essere sempre più infallibili. Noi vogliamo essere infallibili, ma allo stesso tempo sperimentatori. Continuare ancora a rischiare, ma cercando progetti che possano comunque garantire una rete di protezione, una sicurezza, una comprensibilità. Karamazov rappresenta per noi un’apertura totale verso un pubblico che non ci ha mai seguito, ma che ama gli attori che abbiamo scelto. I fan di Dante Marmone, Nicola Pignataro, Tiziana Schiavarelli e Pinuccio Sinisi hanno apprezzato tantissimo l’operazione e vederli in questa veste inedita è stato per loro un po’ come vedere l’amico che si sposa. Cerchiamo di costruire operazioni che ci permettano sempre di rimanere noi stessi, ma allo stesso tempo di costruire una corazza per questo momento storico che viviamo adesso.

Michele: La questione è che le occasioni di visibilità non mancano. Se uno si impegna e poi pian piano allarga il giro delle persone che conosce, riesce a far vedere il proprio lavoro. È la protezione di quel momento di visibilità che a volte manca. Io credo sia anche un dovere da parte di chi decide di sostenere il tuo lavoro poi proteggerti nel momento in cui vai a presentarlo. Seguire tutti i passi che hai fatto per arrivare lì, seguirti prima e dopo il debutto. Quello a volte sento che manca. Sei in una condizione in cui entri nella fossa dei leoni. Noi cerchiamo di tutelarci, e lo faremo ancora di più per la prossima produzione, cercando sempre momenti intermedi per mostrare il lavoro ad amici, parenti e colleghi, per arrivare al debutto con qualche errore in meno. Perché se sbagli il debutto è la fine.

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