È tempo di rifare il mondo, perché nemmeno l’arte è un Campo Innocente

È tempo di rifare il mondo, perché nemmeno l’arte è un Campo Innocente

«Remake the globe» è lo slogan che ha accompagnato la temporanea occupazione del Globe Theatre, una mobilitazione della Rete delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo di Roma che si è svolta dal 14 al 18 aprile 2021. Cinque giornate di confronti, elaborazione, dibattito con due richieste principali: l’attivazione di un tavolo interministeriale per avere voce in capitolo nel processo che porterà alla riforma del settore e, con sguardo più ampio, un reddito di base incondizionato che permetta una vita dignitosa a tutto l’universo precario.

Tra le diverse realtà che che compongono la rete «Il campo innocente» si distingue per l’attenzione rivolta alle tematiche della violenza di genere e del sessismo nel mondo dello spettacolo. Questo, almeno, ad una prima lettura; andando più a fondo si potrebbe dire che al gruppo stia a cuore il benessere dei corpi e del loro stare insieme, affinché la compresenza non generi esclusione e discriminazione ma sia, al contrario, foriera di cura. Una prospettiva transfemminista che si interseca con riflessioni sulla disabilità e sul razzismo, declinando poi questi discorsi nel contesto delle arti dal vivo. Un ulteriore livello rappresenta infatti la «messa a nudo» dei meccanismi di sfruttamento e autosfruttamento, delle pratiche consolidate ma nocive che sono fortemente diffuse e tacitamente accettate nell’ecosistema culturale. Una delle mission del Campo innocente sarebbe allora quella di esplicitare i discorsi impliciti, iniziare a parlare, dire che non ci va più bene e che un cambiamento non è più rimandabile. Un percorso su cui c’è ancora molta strada da fare. 

Abbiamo parlato con Leonardo Delogu e Valerio Sirna dell’esperienza dell’occupazione, di come sta procedendo il confronto per la riforma del settore — dove la nota finale, aggiunta in seguito all’intervista, mette in questione un dialogo che sembrava essere costruttivo — e di quali sono le prospettive future per la lotta.

Cosa sentite di aver costruito nelle giornate di occupazione del Globe Theatre?

Leonardo Delogu: Per me sono molto importanti le relazioni e le alleanze che si sono concretizzate in quei giorni. Erano già nate all’interno del percorso della rete dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, ma l’esperienza comune è ciò che fa davvero incontrare le persone. Non era scontato perché le sensibilità sono diverse a volte, ma abbiamo avuto la sensazione che il movimento autorganizzato stesse facendo dei veri passi di apertura.

Valerio Sirna: Per il nostro gruppo, Il campo innocente, questa esperienza è stata un banco di prova. Era da un anno e mezzo che ci confrontavamo ma a parte il nostro intervento al festival di Santarcangelo e alcune iniziative che già erano state fatte con la rete ci mancava un passaggio all’azione e all’organizzazione. Ciò che abbiamo proposto noi nei giorni di occupazione, ovvero il tavolo su violenza, sessismo, razzismo, omolesbobitransfobia, abilismo è stato importantissimo. Già da qualche tempo stavamo portando avanti la pratica dell’auto inchiesta, ovvero di chiederci innanzitutto «come stiamo?»: a partire da qui, parlando insieme, emergono tante altre domande che stiamo raccogliendo in una lista sempre più lunga e che potrebbe non terminare mai. Il tavolo è cresciuto di giorno in giorno, da quaranta siamo diventate cento persone.

L.D: C’è stato poi un importante riconoscimento della politica istituzionale, hanno capito che il mondo delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo è variegato e attivo, che le istanze che porta non sono così surreali. Quindi pensiamo sia positivo che Franceschini sia venuto, che sia in corso un tavolo interministeriale e che ci stiano ascoltando per la riforma del settore. È anche importante l’aver organizzato un evento pubblico in un momento in cui ancora non era possibile farlo, ce ne siamo presi la responsabilità e l’abbiamo fatto in sicurezza, i tamponi a 5€ raccontano di come si possano fare delle iniziative anche durante la pandemia senza speculazioni. 

La rete delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo è composta da realtà diverse, siete riusciti e riuscite facilmente a trovare una linea comune?

V.S: Noi come Campo innocente siamo arrivati ad un certo punto, gli altri gruppi come Autorganizzat_ Spettacolo Roma, Presidi Culturali Permanenti, Mujeres nel teatro, Clap e Risp si vedevano già da tempo. Sicuramente le realtà sono molto diverse e non sempre è facile, ma ci siamo ritrovate subito sui temi. Quando abbiamo parlato di Reddito Universale Incondizionato abbiamo trovato un generale accordo e lo stesso vale per l’idea intersezionale, per cui la lotta non deve essere solo di settore ma deve incrociarsi con tutto il mondo della precarietà. Da lì si è costruito presto un’agenda politica e un reale scambio, ad esempio nella rete c’è chi sa occuparsi di contratti collettivi nazionali di lavoro mentre nel nostro gruppo non sempre abbiamo queste conoscenze. 

Noi dal canto nostro però possiamo fornire degli strumenti per queerizzare lo spazio della discussione, de-patriarchizzarlo e renderlo più inclusivo. Per noi è stato importante lanciare una riflessione e una contaminazione sul tema della fragilità, chiedendoci: Si può essere fragili in un contesto politico di lotta? Si può piangere in un’assemblea? Cosa succede se sono una persona che ha difficoltà a prendere parola pubblicamente, vengo invisibilizzata oppure no?

L.D: C’è un tipo di approccio sindacale che punta a fare pressione sulla politica per ottenere diritti e sicuramente sta funzionando. Allo stesso tempo, e qui diventa centrale la visione che si ha sul momento storico in cui viviamo, noi come Campo Innocente leggiamo la società attraverso una prospettiva transfemminista, antiabilista, antirazzista e antisessista per cui sappiamo che questi discorsi sono tutt’altro che acquisiti, è una lotta di corpi che si porta con sé per tutta la vita. A noi come gruppo quindi non interessa tanto il raggiungimento dell’obiettivo minimo ma un’influenza culturale costante da portare avanti.

Alcuni giorni fa la rete ha organizzato una nuova assemblea pubblica, quali prospettive ci sono per la lotta?

L.D: C’è la questione della riforma del settore, abbiamo una possibilità unica che non si ripresenterà per molti anni. Bisognerà quindi vedere come procederà il tavolo interministeriale e in base a come evolveranno le bozze ci saranno delle mobilitazioni. Credo che la radicalità della lotta, la condivisione dei contenuti e l’orizzontalità saranno dei punti fermi per questa rete. Ci sono poi tanti temi aperti, come l’attuale restrizione dello spazio pubblico, che è connessa al limite temporale dell’occupazione del Globe. Non ci interessava in questo momento occupare per fornire un modello alternativo di gestione, pensiamo che la modalità nomadica delle azioni sia più interessante attualmente anche per non esaurirsi né politicamente né fisicamente come spesso accade con le lotte. 

Anche questo è un punto che abbiamo portato, l’importanza di non esaurire le nostre risorse fisiche e psichiche. Il rischio è di finire nelle dinamiche di auto sfruttamento che critichiamo quando lavoriamo, non vogliamo replicarle quando agiamo politicamente. C’è poi la questione più generale del reddito universale e dell’intersezione con altre battaglie che andrà avanti a prescindere dal tavolo interministeriale.

L’incontro con Franceschini e con Orlando che è seguito all’occupazione è stato positivo? Cosa chiedete per la riforma del settore?

V.S: Da quello che ci ha riportato la delegazione nel tavolo c’è stato ascolto e le nostre richieste erano già in discussione. Dopo l’incontro ci è stato chiesto di produrre un documento scritto che abbiamo inviato dopo averlo discusso in assemblea. Dopodiché l’istituzione ce ne ha mandato un altro, che stiamo studiando e che dovrebbe contenere le nostre istanze.

L.D: Il documento che si sta delineando è una sintesi tra le due proposte di riforma del settore già in campo, quella Orfini e quella Carbonaro, insieme alle nostra. Ci siamo opposti all’autoversamento dei contributi e credo che non verrà riproposto, stiamo spingendo per il reddito di continuità e per l’instaurazione di un regime dell’intermittenza simile a quello francese. Chiediamo poi l’estensione dei bonus a tutto il 2021 e l’internalizzazione di tutte quelle persone che lavorano continuativamente per le istituzioni culturali ma che continuano ad essere precarie, con contratti di prestazione occasionale. 

Il riconoscimento delle figure professionali che orbitano nel settore poi va ampliato molto, è rimasto veramente indietro rispetto a come si è ibridata la produzione culturale. Ad esempio non è riconosciuta la figura del curatore o curatrice, nonostante ce ne siano in gran numero, finiscono per essere inquadrati come responsabili di produzione ma è totalmente un altro lavoro.

Com’è stato il confronto con le altre città? Avete avuto il sostegno che vi aspettavate?

V.S: È stato molto vivo con Napoli e col movimento delle maestranze venete. In una delle agorà pubbliche abbiamo invitato delle giovani studentesse protagoniste dell’occupazione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli in cui denunciavano con i loro corpi gli abusi da parte dei professori. Sono state incendiarie! Abbiamo poi avuto collegamenti con Parigi, con Bruxelles e con la Grecia. Il tentativo è senz’altro quello di rafforzare una rete nazionale e internazionale.

L.D: Con chi non c’è stato dialogo, purtroppo, sono i direttori dei teatri. Normalmente c’è conoscenza e prossimità, ma quando poi avviene una battaglia politica in cui dovremmo essere tutte coinvolte, non c’è stato sostegno. Il datore di lavoro dovrebbe essere insieme a noi a chiedere il reddito universale, non fosse altro perché spesso è proprio lui a sottopagare e a lasciarci nella precarietà, per cui un reddito di questo tipo dovrebbe venirgli incontro. Se lo Stato coprisse tutti quei periodi che sono intorno allo spettacolo, quelli della riflessione e dello studio, dell’inoperosità produttiva che riguarda il mondo dell’arte, si calibrerebbe di nuovo la relazione tra datore di lavoro e artiste, lavoratrici, lavoratori. 

Solo un teatro pubblico, il Teatro di Roma, ha firmato il nostro appello perché c’era una dimensione di relazione legata alla città. Mi chiedo dove sono tutti gli altri direttori dei teatri nazionali. Vorremmo sapere poi quanto hanno capitalizzato quegli stessi teatri dalla pandemia, dov’è la redistribuzione delle risorse? In pochissimi hanno messo in campo delle azioni per farlo. Questo è un punto molto importante perché influenza anche le poetiche che propongono questi teatri e la loro azione culturale nella società.

NOTA: Lo stato dell’arte è già cambiato rispetto al momento in cui è stata rilasciata l’intervista, con importanti passi indietro da parte del Ministero della Cultura, che durante l’ultima audizione ha blindato un testo che non ha avuto il tempo di essere discusso e che non accoglie praticamente nulla delle richieste avanzate dalle lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, ben lontana da essere la riforma strutturale del settore alla base delle mobilitazioni di questo ultimo anno e che anzi rischia di produrre una legge delega addirittura penalizzante.

Il rito simpoietico di DOM-. Intervista a Leonardo Delogu e Valerio Sirna

Il rito simpoietico di DOM-. Intervista a Leonardo Delogu e Valerio Sirna

Le città si trasformano, lo spazio pubblico si riconfigura, l’individualità si scardina per aprirsi al rito collettivo. Dove si posiziona il teatro nel percorso di rigenerazione delle pratiche che sovverte la visione antropocentrica dell’ambiente circostante? È in questo campo di indagine, fatto di permeabilità tra corpi e paesaggi, che si sviluppa il lavoro di DOM-, progetto di ricerca nato nel 2013 dalla collaborazione tra Leonardo Delogu e Valerio Sirna.

Vincitori del Premio Rete Critica 2019 con L’uomo che cammina come miglior progetto artistico e di compagnia, gli artisti di DOM- figurano tra le cinque compagnie di Oceano Indiano, sperimentale luogo di residenza e produzione del Teatro di Roma. Raccontando CAMP / Fare campo, il progetto di studio con cui abiteranno criticamente gli spazi del Teatro India, Leonardo Delogu e Valerio Sirna dischiudono le porte di quel teatro italiano che, interdisciplinare e sensibile al presente, ridisegna i confini e segnala nuove direzioni.

L'uomo che cammina - DOM
L’uomo che cammina – DOM

I vostri lavori si dispiegano in una serie di percorsi di rovesciamento e di abitazione critica dello spazio pubblico, che si manifestano in un rito collettivo finale. Come si formalizza questa tensione tra l’assoluta innovazione di inedite possibilità di relazione tra corpo e spazio, tra umano e non umano e il ritorno al nucleo originario del performativo che è il rito, come centro propulsore di futuri possibili?

Valerio Sirna: Parto dalla questione dei “futuri possibili”. In generale, gli studi che stiamo facendo in questo periodo ci orientano verso degli sguardi che cercano di non appiattirsi sulle retoriche dell’apocalissi che appiattiscono l’azione, l’immaginario e ogni possibilità di rigenerare la condizione che stiamo attraversando. Questo non vuol dire che la condizione che stiamo attraversando non sia grave, cioè che non ci sia la possibilità, come dice Donna Haraway, che la complessità si disfi.

Ci sono delle studiose, come appunto Donna Haraway e Rosi Braidotti, a cui ci riferiamo, che si collocano in un filone di ricerca che ha a che fare con il femminismo, l’ecocritica, le ecologie e la biologia. Ci siamo resi conto di non avere veramente tutti gli strumenti per immaginare verso cosa stiamo andando e questo ci permette di credere che possano essere messe in campo delle relazioni che aprono a nuove tematiche. Donna Haraway parla, all’interno di un filone di ricerca che ha a che fare con il femminismo, la filosofia, la biologia evolutiva e i nuovi studi ecologici, della simpoiesi cioè della capacità di creature umane e non umane di allearsi e di creare un dialogo per un’evoluzione e una crescita diversa.

Leonardo Delogu: La necessità del nostro lavoro è quella di creare un rapporto con ciò che sentiamo essere la ferita del tempo. Abbiamo sempre mirato a fare un teatro che non fosse un divertissement, per cui le persone non venissero solo a “consumare” un’ora di spettacolo facendo del teatro un semplice atto confermativo di una modalità di vita. Il desiderio è sempre stato quello, anche utopico, di creare dei lavori che potessero rompere questa dimensione, attraverso cammini molto lunghi, esperienze reali per le persone e non la rappresentazione di un’esperienza. Per questo, lo sfondamento in altre discipline è sempre stato, per noi, un modo per capire come rigenerare il teatro. L’architettura, il camminare, per tanti anni sono stati lo strumento con cui abbiamo contaminato il lavoro e adesso è come se queste direzioni che Valerio cita, fossero diventate la nuova linfa che viene a spostare il linguaggio.

Il rito è nient’altro che la radice prima del teatro, il nostro interesse si rivolge alle modalità in cui portare il teatro alla sua forma originaria di luogo in cui gli umani si ritrovano e traguardano, attraverso un’esperienza collettiva, la propria condizione aprendosi ad altre possibilità. Abbiamo iniziato a parlare di Teatro di paesaggio perché iniziamo a pensarci oltre la sola dimensione umana, pensandoci piuttosto come un sistema di relazioni che tiene insieme le piante, gli animali, l’invisibile.

Proprio in questi giorni siamo sconvolti da un microbo che viene da chissà dove e sovverte un intero meccanismo. Questo è interessante perché racconta, ancora una volta, il rapporto che abbiamo con la dimensione sinpoietica. Ecco che il rito diventa un modo per riprendere quell’origine, trovare le forme per le quali il rito si rinnova e integrarvi le questioni su cui stiamo provando a ragionare.

Valerio: Per noi il solco dell’interdisciplinarietà è importante. Siamo in un momento in cui finalmente tante discipline capiscono il bisogno di entrare in relazione e di ibridarsi. Per noi il teatro è quell’alveo privilegiato per mischiare le cose, per far interagire l’arte teatrale con saperi che provengono dall’architettura e dall’urbanistica, temi a cui siamo sensibili e con cui il camminare ci ha portato a confrontarci spesso. 

Nel presentare il progetto artistico di DOM- parlate di una indagine del linguaggio performativo attraverso l’approccio militante delle Environmental Humanities. Secondo la vostra esperienza artistica, che tipo di impatto pensate che la ricerca ambientale possa avere sulla vita di una società?

Leonardo: Prevedere gli impatti di un’operazione artistica non è mai semplice. Diciamo sempre che l’arte è lì per sollevare domande non per dare delle risposte, ma allo stesso tempo il cambiamento di punto di vista incide sul reale. Quando le persone ci dicono che dopo L’uomo che cammina vedono diversamente la loro città, pensiamo sempre che si sia innescata anche un’abitazione diversa della città, più sensibile, più aperta. Osserviamo che il cercare di essere radicali, di essere vicini a quello che amiamo per quanto possibile, tende anche a dividere: ci sono persone che non riescono a relazionarsi con quel che facciamo e persone che ci entrano profondamente dentro. Quella profondità è capace di creare un innesco. 

Valerio: Un Teatro di paesaggio è un teatro che mira a scardinare l’idea di un’individualità. Forse abbiamo sbagliato a pensare che esista un’individualità, non considerando che ogni organismo è un ecosistema, che è in relazioni visibili e invisibili con il circostante. Accompagnare le persone che si accostano al nostro lavoro in questa visione della realtà è sicuramente una delle sensibilità che vorremmo coltivare.

Leonardo: Si tratta in primo luogo di un lavoro su noi stessi. È quanto stiamo facendo in questi giorni durante il laboratorio Wild Facts / Fatti feroci, che si tiene al Teatro India. Ci stiamo domandando se tutto ciò che ci stiamo dicendo sia afferrabile e condivisibile concettualmente e come far diventare una pratica l’essere connessi con un mondo microbico, con le piante, con gli animali.

Se non avviene una trasformazione nel corpo e nell’habitus della vita, siamo di fronte a una trasformazione mentale che da sola non è sufficiente. Noi stessi siamo calati nel lavoro, guardando cosa accade nel nostro corpo, nella nostra mente, formalizzando pratiche che lavorano in questa direzione. Al laboratorio partecipa un gruppo di persone, una comunità nata da Roma non esiste, che sta giocando con noi a capire come si incarna la simpoiesi.

All’interno di Oceano Indiano, luogo di residenza e produzione del Teatro di Roma, avete proposto e avviato CAMP / Fare campo. Mi raccontate questo progetto che vi vedrà anche alla guida di un percorso laboratoriale inserito nell’offerta formativa del Master PACS?

Valerio: La cosa che ci preme dire come introduzione a Oceano Indiano è che la nuova direzione del Teatro di Roma sta facendo un esperimento che in Italia è abbastanza inedito: ospitare cinque compagnie per tre anni, assegnare loro un budget e chiedergli di co-curare la programmazione di un Teatro Stabile. Nella fattispecie, CAMP / Fare campo il progetto che abbiamo proposto, si colloca in una ricerca sul tema dell’accampamento iniziata negli ultimi anni. Siamo usciti da un triennio di Estate Romana in cui abbiamo camminato, percorso la città, accompagnato e invitato persone a condividere i nostri ragionamenti e l’estate scorsa ci siamo trovati con Roma non esiste ad attraversare la città con un dispositivo di accampamento mobile.

Abbiamo vissuto lo spazio pubblico in un modo a cui non siamo abituati perchè ci sono delle leggi che vietano la possibilità di dormire in una strada, in una piazza o in un parco. Per noi è stato interessante allargare le possibilità che lo spazio pubblico e la legislazione offrono. Siamo in questo filone di ragionamento e vogliamo sviluppare questo tema del campo che poi ha un doppio significato: sia di campo di forze, sia di accampamento.

L’accampamento è il modello abitativo del XXI secolo, uno spazio cui i governi biopolitici si stanno sempre più abituando per far fronte a disastri naturali, alle grandi immigrazioni, per ospitare persone che vivono ai margini, ma sono anche quegli spazi, come gli accampamenti di piazza Tahrir, che hanno ospitato momenti di rivolte. A noi piace intendere l’accampamento come un luogo di studio e di critica rispetto all’abitazione delle città.

Leonardo: E anche come dispositivo che permette di continuare a lavorare dentro quella permeabilità tra la dimensione strettamente umana e la dimensione vegetale e animale. La sottigliezza dei muri dell’accampamento fa in modo che il circostante sia molto più vivo e molto più forte. L’accampamento ci permette, inoltre, di lavorare sulla dimensione della co-creazione e dello stare insieme: è soltanto con la forza dei legami e delle relazioni che oggi si può prefigurare qualcosa che non c’è in questo momento. Per questo, la scelta di dare seguito a questo gruppo di Roma non esiste, guidandolo verso una produzione, risiede nella volontà di evitare che l’accampamento diventi un fatto puramente estetico, perché non può esserlo vista la dimensione di dolore che porta con sé.

C’è bisogno dell’esposizione dei corpi, della comunità e del vivere in comunità. Il tema dunque è indagare come si riesce, nel 2020, a stare in comunità. Sicuramente non sono più le forme degli anni ’70, perché abbiamo raggiunto un livello di comodità tale per cui non possiamo più rinunciare ai bisogni dell’io e vederli dissolversi nel mare magnum della comunità. Come coesistono quindi le individualità? Come si riesce a essere delle volte orizzontali, delle altre verticali, riconfigurando la questione della leadership? Questo ha molto a che fare con il teatro come arte della comunità. Sono stati l’800 e il ‘900 a far nascere il Teatro di regia col grande regista demiurgo che compone lo spettacolo in sala e dà la sua visione al mondo. Non è più quell’epoca, oggi siamo chiamati a starci accanto nella frana dell’ego, però siamo tutti egocentrici ed egoici. Questo diventa il campo di studio e di lavoro.

Valerio: In questi primi mesi di residenza all’India, i progetti a cui stiamo lavorando sono due: uno è Nascita di un giardino durante il quale ci occuperemo della co-creazione di un giardino in un campo incolto negli spazi abbandonati del Teatro India. L’idea è quella di invitare la cittadinanza, per due domeniche al mese, a osservare questo spazio e la sua trasformazione sottile, ispirata ai principi del Terzo paesaggio e del Giardino in movimento di Gilles Clément. Si tratta di osservare le dinamiche di un campo e orientarle con piccoli interventi, come falciature d’erba, la creazione di piccoli sentieri di radure, qualche seduta. Vorremmo addestrarci ad abitare il selvatico e a innamorarcene, senza doverlo necessariamente addomesticare.

Le compagnie residenti di Oceano Indiano
Le compagnie residenti di Oceano Indiano

L’altro filone di ricerca è più prettamente performativo, siamo in un teatro e abbiamo la voglia e l’esigenza di tornare a quella dimensione da cui entrambi proveniamo. Abbiamo invitato una comunità di persone a Wild Facts/Fatti feroci, laboratorio di pratiche performative aperto e gratuito come la maggior parte delle attività che si svolgono all’interno di Oceano Indiano. Cerchiamo di arrivare alla produzione di uno spettacolo nel 2021, per il quale stiamo gettando i semi: a un certo punto questo giardino ospiterà un accampamento che sarà un fatto performativo.

Leonardo: Il Master PACS è dentro questo viaggio. Il tema è la performatività e lo spazio pubblico, e l’accampamento è uno spazio semi-pubblico che permette la performatività. Di fatto, travasiamo e intensifichiamo in quella settimana del PACS, tutte le questioni che ci stiamo dicendo, con una grande intensità e con un numero alto di persone. In particolare, questo percorso si avvierà nei giorni conclusivi del lavoro sul giardino per cui il gruppo del Master si troverà a collaborare con il gruppo di persone che in queste domeniche ci avrà seguito e, insieme, allestiremo un rito finale. Il giardino sarà inaugurato il 30 maggio con una festa che abbiamo chiamato Festa sortilegio, dove per sortilegio intendiamo il rito di protezione di un luogo e di tutti i luoghi selvatici del mondo. 

Lo scorso dicembre avete vinto il Premio Rete Critica con L’uomo che cammina come miglior progetto artistico e di compagnia. Come nasce quest’opera? Cosa ha rappresentato nel vostro percorso?

Leonardo: L’uomo che cammina nasce nel 2015 come risposta a tutta quella dimensione di ricerca che si era scatenata con la nascita di DOM-, in cui prendemmo il camminare come strumento di apertura. A un certo punto, però, la pressione della radice del teatro è venuta fuori in maniera forte e L’uomo che cammina è divenuto la risposta a come far sì che tutto questo camminare, potesse diventare un fatto performativo e incontrare il teatro. Dal 2015 fino ad oggi abbiamo continuamente rinnovato la domanda perché è uno spettacolo che, essendo così tanto in relazione con il paesaggio, si trasforma in base alle città che attraversiamo, cambiando la nostra stessa idea di teatro.

Se il primo Uomo che cammina aveva delle dimensioni teatrali più esposte, adesso è un lavoro sempre più percettivo e sottile, forse anche più efficace rispetto a quel che accade nel pubblico. L’uomo che cammina nell’edizione milanese, che è quello che Rete Critica ha premiato, raggiunge un po’ un vertice perché è accompagnato anche dal testo di Antonio Moresco, una lingua che porta senso e che diventa una lama che entra nella dimensione percettiva, facendo un affondo che porta al teatro in maniera ancora più netta.

Valerio: L’uomo che cammina è legato a un fumetto da cui trae il titolo di Jiro Taniguchi, con delle tavole disegnate senza dialoghi, in cui c’è un flâneur che attraversa Tokyo, la cui attenzione viene attirata da diversi particolari della città. Da quest’opera abbiamo tratto anche il dispositivo, quello di un uomo che viene spiato da un gruppo di spettatori e che permette, attraverso il suo procedere calmo e disteso, un’apertura rispetto al circostante. Una notazione del circostante che ci consente di fare quel gioco, tramite una serie di alleanze che stringiamo con il territorio, per cui lo spettatore non capisce cosa sia reale e cosa sia invece rappresentazione.

Questo titolo fino ad ora ci ha sempre legati al fatto che il protagonista fosse un uomo, nel nuovo allestimento che stiamo per fare a Friburgo – siamo stati invitati al Festival di Belluard, in Svizzera – ci piacerebbe che si trattasse di una donna. Abbiamo la prima residenza tra poco e ci lanceremo alla ricerca di una protagonista quindi, finalmente, La donna che cammina.

Oceano Indiano, un progetto produttivo e abitativo per il Teatro India

Oceano Indiano, un progetto produttivo e abitativo per il Teatro India

Al via dal 23 febbraio il progetto produttivo e abitativo per il Teatro India, Oceano Indiano, un unicum nel panorama nazionale che rivoluziona il senso e la funzione pubblica del teatro attraverso inedite modalità performative e nuovi formati produttivi, in dialogo con il tessuto cittadino e il paesaggio artistico.

Un teatro-oceano dal respiro triennale, che nasce con cinque compagini artistiche in residenza: Fabio Condemi, DOM- (Leonardo Delogu e Valerio Sirna), Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), mk e Muta Imago (Riccardo Fazi e Claudia Sorace), una pluralità di visioni e creatività, provenienti da generazioni e discipline diverse, insieme per offrire non solo spettacoli, ma ibridazioni ed esperienze non convenzionali. Oltre a produrre i propri lavori e sviluppare la loro ricerca, il quintetto di compagnie romane abiterà e co-immaginerà il Teatro India, e le diverse possibilità di incontro e conversazione con il pubblico, attraverso un programma di attività e aperture pubbliche (in questa prima parte calendarizzate fino al 31 maggio). Una trama di opere site-specific, performance, laboratori, concerti, camminate, trasmissioni radiofoniche clandestine, giardini, camere delle meraviglie, conversazioni, letture e proiezioni: dispositivi ibridi e formati innovativi che saranno una sponda alla Stagione del Teatro di Roma, facendone risuonare i temi della programmazione attraverso gli universi poetici e le opere performative degli artisti residenti.

In autunno approderanno al Teatro India le creazioni compiute di alcuni degli artisti di Oceano Indiano, tutte produzioni o coproduzioni del Teatro di Roma che arrivano in cartellone dopo importanti debutti estivi. Inoltre, inaugura la Sala Oceano Indiano, terzo spazio di cui si dota il Teatro India (ex foyer della Sala A): una vera e propria sala teatrale duttile, polifunzionale, trasformabile e adatta alle forme più anomale di rappresentazione.

Con Oceano Indiano il Teatro di Roma modifica la rotta dell’istituzione pubblica e immagina un teatro del futuro insieme agli artisti – inventando altri modi di accompagnamento e di produzione artistica – e con gli spettatori – moltiplicando le possibilità di incontro con il pubblico – tenendo sempre viva la relazione con le varie temperature della stagione del teatro e della città.

Oceano Indiano apre il 23 febbraio (ore 21) con il giovane Fabio Condemi, menzione speciale alla Biennale di Venezia 2017, che porta in scena Oratorio virtuale, un concerto elettroacustico per un’esperienza immersiva sinestetica, che fonde musica elettronica, voce lirica e visione, un rework A/V dell’oratorio San Giovanni Battista (opera musicale sacra composta nel 1675 da Alessandro Stradella). Due musicisti, un tavolo console e un video 3D proiettato alle loro spalle: Elena Rivoltini canta le arie dal vivo, in stile lirico barocco; la sua voce viene integrata da Alberto Barberis in un universo sonoro elettroacustico e noise. Fabio Condemi lavorerà sullo spettacolo La filosofia nel boudoir di De Sade, sua nuova creazione che nasce dal laboratorio Dobbiamo bruciare Sade? (a partire dal 25 aprile) per una riflessione sul rapporto tra letteratura, teatro e rappresentazione.

I DOM- (Leonardo Delogu e Valerio Sirna) abiteranno letteralmente gli spazi di India proponendo un progetto di studio e ricerca dal titolo CAMP / FARE CAMPO: il dispositivo sarà quello di un accampamento (tra dimensione abitativa e di condivisione) per una riflessione sullo spazio pubblico, sul fare cittadinanza, sull’esperienza di un teatro di paesaggio. Tre le tappe di questo percorso che avrà una durata biennale: Nascita di un giardino, un laboratorio di co-progettazione aperto al quartiere e alla città per la creazione di un giardino in un campo incolto adiacente all’India (dal 15 marzo al 30 maggio con festa di apertura e inaugurazione del giardino); Metamorfosi di specie, un ciclo di incontri, conversazioni, camminate pubbliche con studiosi, artisti, scrittori, architetti e paesaggisti per discutere di fossili e post-umano, teatro e botanica, arti figurative, spazio pubblico e illegalità, pratiche femministe, città e divinazione (tutti gli incontri comporranno un archivio audio consultabile online e dal vivo); Wild Facts/Fatti feroci, laboratorio di sperimentazione dedicato ad artisti e artiste della scena che vogliano entrare in dialogo con il lavoro del collettivo e approfondire il tema di un teatro di paesaggio (dal 25 febbraio al 23 maggio).

Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri) lavora sul nuovo spettacolo Klub Taiga, nutrendo la creazione con il progetto Kamera speculativa, un evento-perfomance abitativo (8 marzo, 11 aprile e 22 maggio). Uno spazio pensato per India come ambiente performativo aperto e mutevole dove diversi performer indagano un tema insieme ad altri artisti, studiosi e figure di diversa tipologia, aprendo la “kamera” al pubblico per condividere riflessioni, pensieri, relazioni, significati, attraverso l’utilizzo di diverse forme di espressione e pratiche artistiche. Tra i residenti: Federica Santoro, Annamaria Ajmone, Iva Stanisic, Jonida Prifti, Maziar Firouzi, Lorenza Accardo, Luca Brinchi, Paola Granato.

Mk con Michele Di Stefano propone una serie di aperture coreografiche con Pezzi anatomici (dal 26 al 29 marzo), una performance che è al tempo stesso anche luogo di incontro/sala prove tra spettacolo e creazione in diretta, dove pubblico e performer condividono la scena su modello del “gabinetto anatomico” rinascimentale, in cui le informazioni scientifiche venivano corroborate dall’esposizione dei corpi. Così in questa performance la forza visionaria della coreografia è accompagnata da esperimenti in tempo reale, dissertazioni e inviti al pubblico a testare in diretta i processi lavorativi e di ricerca coreografica. Inoltre, Michele di Stefano insieme alla coreografa Silvia Rampelli propongono Prima_Piscina mirabilis (tutti i lunedì di marzo e aprile), uno spazio aperto di ricerca per performer, dove sperimentare il proprio corpo in un ambiente immersivo, ogni volta temperato da selezioni musicali d’artista.

I Muta Imago lavorano sul loro nuovo spettacolo, Sonora Desert, declinano il loro progetto sul tema guida del “tempo” e delle sue possibilità esperienziali, proponendo quattro percorsi: le serate domenicali Zarathustra! ovvero: tutti i libri che hai sempre voluto leggere e non hai mai letto insieme al collettivo Jennifer Beals, dedicate alla lettura collettiva per riscoprire le parole dei classici su cui si fonda il pensiero contemporaneo (29 marzo e 3 maggio); gli ascolti radiofonici e happening istantanei di The Indian Transmissions. Un progetto radiofonico e di happening istantanei con Chiara Colli, stazione radiofonica e ospiti musicali per microset live accompagnati da talk, concerti e incontri (29 marzo con Alessandra Novaga, 3 maggio con Salò); Verso le Cliniques Dramaturgiques, insieme a a Jessie Mill e Elise Simonet, progetto di “sharing drammaturgico” a cui professionisti del settore saranno invitati a partecipare (20 aprile e 18 maggio).

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