da Redazione Theatron 2.0 | 27 Mar 2019 | News
“Ringraziamo i legislatori per i loro sforzi per approvare una Direttiva con implicazioni degne di nota per la comunità dei produttori di contenuti”, ha commentato l’ad dell’associazione internazionale dei discografici IFPI Frances Moore: “Questa riforma conferma che le piattaforme UGC svolgono un atto di comunicazione al pubblico e devono richiedere l’autorizzazione dei titolari dei diritti o garantire che non siano disponibili contenuti non autorizzati sulle loro piattaforme. (…) Attendiamo con impazienza la fase di attuazione, in cui lavoreremo con gli stati membri dell’UE per garantire che la direttiva sia recepita nel diritto nazionale in modo pienamente coerente con il suo obiettivo e i principi chiave del diritto europeo e internazionale”.
La riforma, ora, dovrà essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea – entro un mese – e in seguito recepita da tutti i paesi membri. La direttiva intende garantire che diritti e obblighi del diritto d’autore di lunga data si applichino anche online. YouTube, Facebook e Google News sono alcuni dei nomi di gestori online che saranno più direttamente interessati da questa legislazione. La direttiva si impegna inoltre a garantire che Internet rimanga uno spazio di libera espressione.
La direttiva mira ad aumentare le possibilità dei titolari dei diritti, in particolare musicisti, artisti, interpreti e sceneggiatori (creativi) e editori di notizie, di negoziare accordi migliori sulla remunerazione derivata dall’utilizzo delle loro opere presenti sulle piattaforme Internet. Le piattaforme Internet saranno direttamente responsabili dei contenuti caricati sul loro sito, dando automaticamente agli editori di notizie il diritto di negoziare accordi per conto dei giornalisti sulle informazioni utilizzate dagli aggregatori di notizie. Numerose disposizioni sono specificamente concepite per garantire che Internet rimanga uno spazio di libertà di espressione. Poiché la condivisione di frammenti di articoli di attualità è espressamente esclusa dal campo di applicazione della direttiva, essa può continuare esattamente come prima. Tuttavia, la direttiva contiene anche delle disposizioni per evitare che gli aggregatori di notizie ne abusino. Lo “snippet” può quindi continuare ad apparire in un newsfeed di Google News, ad esempio, o quando un articolo è condiviso su Facebook, a condizione che sia “molto breve”. Il caricamento di opere protette per citazioni, critiche, recensioni, caricature, parodie o pastiche è stato protetto ancor più di prima, garantendo che meme e GIF continuino ad essere disponibili e condivisibili sulle piattaforme online.
Nel testo viene inoltre specificato che il caricamento di opere su enciclopedie online in modo non commerciale come Wikipedia, o su piattaforme software open source come GitHub, sarà automaticamente escluso dal campo di applicazione della direttiva. Le piattaforme di nuova costituzione (start-up) saranno soggette a obblighi più leggeri rispetto a quelle più consolidate.
“Un voto storico per l’Europa”, sostiene il presidente degli editori di giornali europei Enpa, Carlo Perrone, mentre protesta Wikipedia che ieri ha oscurato la pagina italiana in vista della decisione del Parlamento europeo, lamentando il carattere ceorcitivo della riforma in arrivo. Oggi Wikipedia – che prende atto di “un risultato che era segnato”, attraverso la sua Fondazione Wikimedia – torna pienamente visibile. “Una bella pagina e una grande giornata per la cultura e l’Europa”, è il primo commento del presidente dell’Associazione italiana editori (Aie), Ricardo Franco Levi, dopo l’approvazione a Strasburgo della direttiva sul copyright.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Redazione Theatron 2.0 | 18 Ott 2018 | Documenti
Sono stati pubblicati sul sito del Ministero dei Beni culturali due decreti adottati in attuazione della normativa sulla gestione collettiva dei diritti d’autore. Gli atti si riferiscono in particolare alle riduzioni ed esenzioni in tema di diritto d’autore e alla ripartizione dei compensi dovuti ad artisti, interpreti ed esecutori.
Così si attuano due degli articoli della normativa introdotta nel 2017 (Dlgs. 25/2017) in tema di attuazione della direttiva dell’Unione Europea sulla gestione dei diritti d’autore. Per l’entrata in vigore dei decreti si attende la loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Le disposizioni in essi contenute potranno essere sottoposte a revisione triennale.
LEGGI > Riduzioni ed esenzioni in tema di diritto d’autore
LEGGI > Compensi ad artisti interpreti ed esecutori
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Giovanni Landi | 20 Mag 2018 | Uncategorized
Luis Bacalov
La legge italiana sul diritto d’autore (n. 633/1941) disciplina il reato di contraffazione (la cd. “pirateria”) all’art. 171, punendo con una multa chiunque riproduca, trascriva, reciti in pubblico, diffonda o ponga in commercio un’opera altrui senza averne diritto. Nello stesso articolo si punisce con una pena aggravata (la reclusione fino a un anno o la multa non inferiore a 516 euro) chi commette il medesimo reato, fra le altre cose, “con usurpazione della paternità” dell’opera.
Ed è qui, fra le maglie del reato di contraffazione, che risiede lo spazio assegnato dal nostro ordinamento al reato di plagio musicale, ovvero il ‘furto’ di una melodia altrui, quel saccheggio di pentagramma al centro di interminabili battaglie legali.
Sebbene la dottrina si sia più volte sforzata di identificare dei criteri costanti per l’accertamento del plagio (ad esempio le famose “otto battute uguali” o le “sette note consecutive”), la giurisprudenza ha sempre preferito valutare caso per caso, nella certezza per cui a comporre una canzone, oltre alla linea melodica – che è senz’altro il parametro principale – concorrano anche il ritmo, il timbro, gli accordi armonici e il testo. Così, oltre all’ascolto comparativo fra i due brani, in diversi casi si è ritenuta necessaria un’analisi più approfondita, in particolare per verificare se la canzone di musica leggera sia sufficientemente originale o al contrario troppo semplice per essere tutelata. Ancora, si è in taluni casi ritenuto necessario che l’opera secondaria suscitasse nell’ascoltatore medio “le stesse emozioni” dell’originale.
In ordine di tempo, l’ultima volta che si è chiamato in causa il plagio in maniera piuttosto rumorosa ha visto protagonisti Ermal Meta e Fabrizio Moro. Prima di trionfare al festival di Sanremo 2018, i due cantanti hanno rischiato la squalifica per aver portato in gara un brano in parte identico a un pezzo già presentato alle preselezioni di Sanremo Giovani 2016. Ma la vicenda si è conclusa in un fuoco di paglia: l’autore dei due brani era lo stesso, Andrea Febo, e il caso è stato con urgenza classificato come “autocitazione rispettosa del regolamento del Festival”.
Diversamente erano andate le cose a Loredana Bertè, che nel 2008 aveva visto il suo brano “Musica e parole” squalificato dal concorso canoro perché quasi coincidente con la canzone “Sesto Senso” di Ornella Ventura, scritto dagli stessi autori esattamente vent’anni prima.
Allontanandoci dalla Città dei Fiori, altre vicende hanno fatto non di meno discutere. Su tutte, naturalmente, i famigerati “cigni di Balaka”, che Al Bano sostenne aver ispirato “Will you be there” di Michael Jackson, dando inizio a un lungo iter giudiziario colorato di grottesco. Se era difficile credere che il re del pop ascoltasse il divo di Ciellino San Marco, non per questo poteva negarsi quanto i due componimenti fossero straordinariamente simili. In seguito alla denuncia di Al bano e dopo il parere di Ennio Morricone, nel 1994 il disco di Jackson fu ritirato dal mercato italiano e poi rimesso in vendita senza il brano incriminato. Qualche anno più tardi, però, il Tribunale di Roma, dopo aver interrogato lo stesso Jackson in un’audizione-evento, revocò l’ordine di sequestro ritenendo mancare una prova convincente che Jackson conoscesse la canzone italiana. Dopo altre pronunce intermedie, nel maggio del 1999 i periti del Pretore Penale di Roma riscontrarono la presenza di ben 37 note consecutive identiche nei ritornelli dei due brani, e Jackson fu condannato a pagare quattro milioni di lire di multa per plagio. Nel novembre del 1999, infine, la Corte di Appello di Milano mise fine alla querelle con una pronuncia che era l’unica verità possibile: i due brani erano entrambi figli di una terza canzone, una fonte comune priva di copyright e corrispondente a “Bless You For Being An Angel” degli Ink Spots. Al Bano fu condannato a pagare le spese processuali e rifiutò di ricorrere in Cassazione dopo un accordo riservato con Jackson.
Fra i cantanti maggiormente accusati di plagio figurano senza dubbio Gigi D’Alessio e Zucchero. Quest’ultimo ha affrontato un’aspra causa penale avviata da Michele Pecora a cavallo fra i due secoli. La canzone “Blu” di Fornaciari, con le sue “sere d’estate dimenticate”, sarebbe stata troppo simile alle “poesie d’estate dimenticate” della hit anni ’80 “Era lei”. Ad avere la meglio, alla fine, è stato Zucchero, che è riuscito a convincere i giudici di Milano dell’estrema diffusione di quella scala discendente e forse, più in generale, dell’ormai conclamata impossibilità di un “originale assoluto”.
Ancor più drammatiche le circostanze che hanno visto scontrarsi in tribunale il cantautore Sergio Endrigo, (in)dimenticato interprete di “Io che amo solo te”, e Luis Bacalov, premio Oscar per le musiche del Postino. Endrigo, per anni collaboratore di Bacalov, pretese di essere riconosciuto coautore della colonna sonora del film di Troisi, in gran parte ispirata alla sua canzone “Nelle mie notti”. Dopo diciotto anni di battaglie e due sentenze a favore di Endrigo, ormai defunto, Bacalov riconobbe nel 2013 il ruolo autoriale di Endrigo modificando l’iscrizione Siae e concedendogli, di fatto, un premio Oscar postumo.
Spostandoci fuori dall’Italia scopriamo come il subire un plagio, o meglio una “campionatura” non autorizzata, possa alle volte far piovere oro sulla testa della vittima. Il bellissimo brano di Puff Daddy “I’ll be missing you” è notoriamente costruito sul ritornello di “Every breath you take” dei Police, ma l’operazione fu compiuta dal rapper prima di acquisire i diritti di cover. Quando Sting citò in giudizio Puff Daddy per plagio, ottenne la totalità dei diritti sulla canzone, che ancora oggi corrispondono a decine di migliaia di dollari l’anno.
In mezzo ai casi di plagio più clamorosi gravita una galassia di episodi incompiuti o esagerati. Vengono sempre ricordate, per esempio, le somiglianze fra “I giardini di marzo” di Battisti e “Mr Soul” di Neil Young; fra “Ballo Ballo” della Carrà e “Eleanor Rigby” dei Beatles; fra “Viva la Vida” e “I could fly”; Lady Gaga e Madonna.
Il sito internet Plagimusicali.net offre una formidabile campionatura dei casi di plagio veri o presunti, con audio-comparazioni, commenti di appassionati e votazioni pubbliche. Talvolta i risultati sono interessanti, mentre il più delle volte le segnalazioni appaiono come una caccia alle streghe troppo severa.
Il numero di canzoni prodotte ogni giorno nel mondo, infatti, unito alla finitezza delle composizioni melodiche, non può che invitare ad essere quanto più clementi possibile nell’identificazione del plagio. Non solo, come ci insegnano dall’Asia, copiare vuol dire prima di tutto ammirare, ma è indiscutibile come la produzione artistica sia sempre il prodotto dell’elaborazione dell’esistente, l’esito (anche inconscio) di mille ispirazioni. Nel saggio “Anche Mozart copiava” (2004), Michele Bovi richiama l’osservazione di Morricone per cui “la musica orecchiabile, proprio perché tale, assomiglia a qualche cosa già scritta”. Tutti noi ci emozioniamo di fronte al ‘già sentito’. Tutti noi siamo in debito, ad ogni lampo di genio, con chi ci ha preceduto.
Quando il richiamo a un altro brano offende davvero il valore della paternità e dell’impegno individuale – in quanto volto a trarre vantaggi ingiusti dall’altrui genialità – allora quell’atto va senz’altro represso. Negli altri casi, a fare da guida dovrà essere l’indiscutibile e ancor più prezioso valore della conoscenza comune e dell’impegno collettivo.
da Giovanni Landi | 29 Gen 2017 | Uncategorized
La decisione di Ken Loach di caricare tutta la sua filmografia su YouTube ha fornito un’ulteriore occasione di riflessione sul diritto d’autore e sul suo destino. Apparentemente, il grande Regista ha voluto sfidare le leggi del copyright (poste a sua stessa tutela) per sposare l’emergente cultura della conoscenza come bene comune.
Certo ci si può chiedere quanto sia giusto farlo attraverso Google-YouTube, colosso della Rete detentore di un potere economico e pubblicitario quasi monopolista. Il cantante Prince, per esempio, ha perpetuato in vita un approccio totalmente restio alla libera circolazione delle sue opere, proteggendo i propri diritti di privativa con tutti i mezzi a disposizione.
Rai e Mediaset, similmente, dopo un periodo di parziale tolleranza verso il potere di Youtube hanno deciso di puntare sullo sviluppo dei siti aziendali, spingendo gli utenti a cercare i video di loro interesse sulle rispettive piattaforme invece che su YouTube. Mediaset lo ha fatto attraverso una rigidissima campagna di protezione del copyright online, la Rai, invece, attraverso il mancato rinnovo, due anni fa, del contratto di scambio video-proventi pubblicitari stipulato con YouTube (perdendo peraltro entrate ingentissime).
Le nuove tecnologie hanno trasformato in radice i sistemi di protezione della proprietà intellettuale dominanti nel secolo scorso, e raramente il diritto è riuscito a star dietro a queste trasformazioni.
Il clamoroso fallimento della catena internazionale Blockbuster, che negli anni ’90 aveva fatto esplodere l’home video e minacciato di annientare il cinema, rimanendo invece schiacciato da Internet vent’anni dopo, è stato il sigillo definitivo della svolta. La fine dell’indispensabilità pratica dei supporti materiali che un tempo veicolavano la commercializzazione delle idee artistiche (VHS, CD, DVD etc.) ha totalmente mutato i termini della questione: prima, per dire, si acquistava un album di canzoni (o addirittura un CD singolo) perchè era l’unico modo di ascoltare quei contenuti, e quindi a “costare” (almeno agli occhi dei consumatori) era in primo luogo il supporto fisico indispensable. La pirateria, poi, era fenomeno alquanto marginale a causa della scarsa fedeltà delle copie analogiche.
Oggi, dove quasi tutto è rinvenibile gratuitamente online, e dove la copia digitale si caratterizza per un’assoluta fedeltà all’originale, chi compra il supporto lo fa quasi solo per fanatismo, collezionismo o purismo, mentre chi “scarica” legalmente decide di pagare i diritti altrui pur sapendo di poter in teoria risparmiare. Nell’impossibilità di controllare il libero flusso di dati digitali, l’editore è quindi costretto a chiedere al consumatore una forma di volontaria collaborazione economica e soprattutto di rispetto per lo sforzo autoriale come valore in sè. In questa prospettiva, la retribuzione della produzione artistica o scientifica è raccontata come il necessario incentivo al suo sviluppo: senza il ritorno economico l’artista non può creare, e senza il premio del brevetto lo scienziato non si impegna!
Di fronte al declino del commercio artistico, si sono levate da più campi ipotesi e possibilità di reazione. La proposta più estrema è forse quella contenuta nel saggio di Boldrin e Levine “Abolire la proprietà intellettuale” (Laterza 2012), in cui si afferma che “copyright e brevetti costituiscono un male inutile perché non generano maggiore innovazione ma solo ostacoli alla diffusione di nuove idee”, e si propone quindi un sostanziale ripensamento del sistema puntando sui vantaggi compensativi di una libera circolazione delle idee. In coerenza con tale visione è senz’altro la pratica del copyleft, con la quale gli autori decidino di diffondere gratuitamente le loro produzioni, seppur a determinate condizioni.
In maniera meno manichea, poi, altri interpreti hanno invitato a un approccio realista: quando un libro è diffuso gratuitamente online, si dice, lo scrittore perde il ricavo in termini di royalties ma guadagna popolarità, prestigio e quindi anche la possibilità di partecipare a conferenze ed eventi con fini di lucro. Ed è anche questo, in fondo, il motivo per cui i cantanti moderni puntano sempre più sulla musica dal vivo, e sono loro stessi a pubblicare i loro brani in Rete per non rimanere indietro e non farsi schiacciare dalla concorrenza.
Ma la crisi del diritto d’autore tocca anche i suoi sistemi di vertice, e in particolare la Siae (Società Italiana Autori ed Editori), autentico gigante istituzionale che in Italia detiene il monopolio di raccolta e ridistribuzione dei proventi. La direttiva europea Barnier (26/2014) ha incentivato la liberalizzazione del mercato dei diritti d’autore, ma non è stata ancora recepita dal nostro Paese. Malgrado ciò, è cronaca di questi giorni lo scontro fra chi difende il monopolio Siae (Mogol su tutti) e chi all’apposoto accusa la Società di scarsa trasparenza e scarsa capacità di confrontarsi con le sfide dell’era digitale. Il riferimento è soprattutto alle startup come Patamu, che ha imbastito una vigorosa campagna anti-Siae aprendo un portale alternativo, e Soundfree, nata in Inghilterra da padri Italiani, che ha recenemente (e rumorosamente) accolto fra i suoi ventimila iscritti anche Fedez e Gigi D’Alessio.