La resistenza attraverso l’ascolto. Viaggio all’interno di Torinodanza
Esserci, resistere e avere fiducia. Attraverso queste tre azioni il festival TorinoDanza ha portato avanti e concluso l’edizione 2020 in mezzo alle ben note difficoltà produttive, creative e logistiche che hanno indebolito il già delicato e precario sistema dello spettacolo dal vivo. Il festival invia una chiamata al suo pubblico, rilancia uno sguardo sul futuro che per un momento ci aiuta a comprendere in che direzione stiamo andando.
Tra i lavori presentati in questa edizione troviamo Toccare. The White Dance di Cristina Kristal Rizzo. La coreografa porta sul palco un lavoro che risponde tacitamente a molte condizioni e riflessioni nate dall’isolamento del lockdown. In una dimensione dove la prossimità dei corpi e il contatto sono elementi esclusi dalla costruzione coreografica, Rizzo ridefinisce il “toccare” come modalità di condivisione comunicativa che non passa attraverso l’imposizione di una presa o la costruzione di gesti definiti e leggibili, ma si affida totalmente a una dinamica di equilibri fra spazio vuoto e corpo, accelerazioni e sospensioni.
Immagini aeree, eteree, fragili – con un rimando esplicito alle atmosfere da ballet blanc – che non temono di fermare il movimento e si lasciano decifrare come schemi iconografici ricorrenti. Si avvicendano, immersi nelle luci taglienti di Gianni Staropoli, le corporeità di Annamaria Ajmone, Jari Boldrini, Kenji Paisley-Hortensia, Sara Sguotti e la stessa Rizzo, attraverso continui rimandi a una co-presenza fra dimensione reale e virtuale, evidente nella presenza degli smartphone. I performers instaurano un rapporto di ascolto delicato e sensibile della partitura di Jean-Philippe Rameau (Pièces de clavencin) eseguita da Ruggero Laganà, Antonella Bini ed Elio Marchesini.
Un panorama totalmente diverso viene mostrato nel mixed bill composto dagli spettacoli di Alan Lucien Øyen, Wang Ramirez e Hofesh Schechter. Øyen presenta due pièce di repertorio, And…Carolyn (2008), su musiche di Thomas Newman e Sinnerman (2014). Il primo è un duetto che riporta lo spettatore a una visione della danza come atto coregrafico attraverso una modalità compositiva molto chiara, di sapore nordeuropeo.
Due corpi, quelli di Daniel Proietto e Mai Lisa Guinoo, in sintonia perfetta e che ci riportano ad un momento in cui la vicinanza e il contatto erano una prassi comunicativa consueta. Sempre Proietto danza l’assolo Sinnerman, infrangendo il virtuosismo accademico sulle note della cantante Nina Simone.
AP15 (2010) è il titolo del duetto composto da Honjji Wang e Sébastien Ramirez: una relazione ironica costruita attraverso il linguaggio dell’hip hop, come un ipercinetico processo di conoscenza fra due individui che raccontano contrasti, affetti e sfaccettature emotive senza mai cedere dalla precisione tecnica e musicale.
Schechter presenta invece Untitled (2005) ed è la sua stessa voce a raccontare “about life, love and death”. Un dialogo cadenzato come un metronomo attraverso il corpo della danzatrice “Elisabetta” (Rachel Fallon), rimettendo allo sguardo molteplice e solidale dello spettatore che si ritrova nella somiglianza con le altre persone, nella condivisione di uno spazio e di un respiro comune.
Dimitris Papaioannou riconferma con il nuovo progetto Ink. An in–between project la propria statura di artista visionario e mai scontato, in bilico tra l’estasi del corpo e creazione di un immaginario emotivo che si presta alla contemplazione. Il palco è invaso dall’acqua, il silenzio interrotto dal ritmo accelerato di un irrigatore e dal getto che colpisce i fluttuanti teli di plastica che chiudono la scatola scenica.
In questo spazio umido e in penombra lo stesso Papaioannou gioca con l’irrigatore, ne sperimenta le possibilità e lascia che questo getto inzuppi completamente i vestiti: un eremita, un individuo che pare affidare a questa abluzione lo scorrere dei pensieri e la cancellazione della memoria, in una sospensione temporale che pare eterna.
Papaioannou inizia una lotta nel tentativo di dominare uno strano elemento, una figura indefinita che emerge dal pavimento, come un rettile. Questa lotta svela un corpo nudo (Šuka Horn), dalla carnagione chiara che, liberatosi dalla trappola, ribalterà questo rapporto di sopraffazione, piegandolo a una danza di corpi che si tratteggia talvolta di seduzione e morbosa dipendenza reciproca.
L’immaginario della cultura mediterranea viene ribadito da un polipo – all’interno di una boccia di vetro –che diventa da feticcio, testa di neonato da accudire e poi distruggere per mantenere il potere. La bocca di vetro segna un rito di passaggio, un battesimo verso un nuovo immaginario.
Il viaggio che Papaioannou intraprende in questa creazione sospende il tempo in una dimensione cinematografica, attraverso un uso minimale di musiche d’antan, le cui note si percepiscono appena grazie al suono di un giradischi. Rappresenta una stanza della psiche, tra archetipi e oscure presenze della mente, costruendo una dimensione della memoria e del desiderio più recondito, tra immagini surreali che richiamano l’Ulisse di Giorgio De Chirico e chiari riferimenti a Vollmond di Pina Bausch.
Dimitris Papaioannou non cerca ispirazione, ma dialoga e recupera, attraverso la soglia tra due mondi, la weltanschauug della celebre coreografa, come già dimostrato nello stück creato per il Tanztheater Wuppertal dal titolo Seit Sie (Since She, 2018).
A 250 anni dalla nascita di Beethoven, Simona Bertozzi con il quartetto d’archi torinese NEXT porta al festival una creazione in cui la Die Groβe Fuge op.133 diventa ispirazione per un lavoro di sperimentazione sulla materia sonora: le tonalità contrastanti, le interruzioni inaspettate e il virtuosismo emozionale di questo quartetto si infrangono con le fluttuazioni e le intermittenze di Zwischen Den Zeilen di Wolfgang Rihm e con la calma apparente di Ad io di Riccardo Perugini.
Tra le linee di Bertozzi si costruisce attorno ad un potente incontro tra questo complesso organismo musicale e una dimensione coreografica estremamente lucida: custoditi all’interno di bolle fluttuanti di nylon, cinque corpi (Giulio Petrucci, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga, Simona Bertozzi) creano una ouverture che risuona come una eco, un’attesa che prelude all’impetuoso attacco.
Perazzi e Petrucci aprono a questo scenario definendo una partitura ricorrente e segnando con il corpo una precisa spazialità e una precisa caratterizzazione, lasciando spazio all’energico duo Sguotti/Vesga e alla danza tagliente e sempre al limite dell’equilibrio di Bertozzi. Le cinque traiettorie si tagliano, si intersecano e a volte trovano direzioni inaspettate in un dialogo con la musica che talvolta ridiscute, si oppone, cerca un’altra strada.
In dialogo con Anna Cremonini, direttrice dal 2018 del festival, si è discusso sulla sua personale esperienza nella progettazione e riprogrammazione degli spettacoli in questo periodo di emergenza sanitaria. Quali limiti sono emersi e cosa hanno permesso di scoprire? Cremonini vede nei limiti delle nuove possibilità, e sottolinea il fatto che il Teatro Stabile di Torino ha tenuto aperte le porte anche durante i mesi estivi con una programmazione ad hoc, dando un segno importante alla città e confermando la stagione di Torinodanza.
Anna Cremonini: La mia attitudine è stata di rivolgermi agli stessi artisti che erano stati invitati, confermando gli italiani previsti in programma, dando loro una “carta bianca”: stando insieme nella stessa situazione, possiamo ripensare alla programmazione con qualcosa di nuovo o attraverso la ripresa del repertorio.
Rinviare le date per gli artisti è dura, quindi l’idea di riconfigurare la loro presenza è importante. Ed è altrettanto prioritario poter mantenere la cifra internazionale che il programma ha sempre avuto, perché vedere ciò che viene realizzato all’estero aiuta anche la nostra coreografia a crescere. C’è chi infatti ha portato a sorpresa una produzione nuova come Sidi Larbi Cherkaoui e Dimitris Papaioannou.
Quali riflessioni sono emerse come programmatrice e quali sensazioni hanno caratterizzato questa esperienza?
AC: Sto capendo una cosa: noi stessi programmatori forse siamo meno tesi al “risultato a tutti i costi”; possiamo prenderci il gusto di lasciare più spazio agli artisti, di condividere con loro uno spazio di ricerca e sperimentazione che forse prima, con l’ansia di arrivare allo spettacolo, riceveva un’attenzione più limitata.
Questa cosa ha sottolineato i tempi e le modalità del processo, ci ha reso più complici con gli artisti anche verso l’ignoto. Io mi sento molo più partecipe di un percorso creativo: la situazione ci ha privato di un’ansia di prestazione e ha restituito al processo creativo una funzione più originaria.
E il pubblico?
AC: Anche il pubblico impara che ogni processo è ignoto e che il risultato può essere relativo: si insinua la sensazione di essere tutti in un terreno non familiare in cui dobbiamo scoprire quello che accadrà. Il distanziamento che vive il pubblico rende la sensazione dello “stare insieme” molto più rarefatta, e quasi si chiede aiuto al palcoscenico per restituire questo “respiro comune”.
Si sta affidando ad ogni individuo il proprio ruolo: all’operatore di rischiare sui progetto, all’artista di rischiare sulla propria identità e ricerca e al pubblico di essere il tramite e destinatario finale. Nel momento di difficoltà la funzione che svolgiamo nella società diventa determinante.
E gli artisti?
AC: Una delle cose più toccanti è stato vedere i danzatori entrare in scena dopo otto mesi che non calcavano un palco, è stato commovente, e questo trascolora nelle produzioni: ad esempio, in tutta la sua formalità lo spettacolo di Papaioannou è forse il più drammaturgicamente compiuto tra quelli che ha prodotto.
Questa esperienza dovrebbe aiutarci a essere forse meno autoreferenziali e ci invita a non fare finta che nulla sia successo. La menzogna in palco non è prevista: se menti in scena le cose non funzionano. Bisogna avere l’onestà intellettuale di guardarci dentro, nel microcosmo del teatro abbiamo la possibilità di farlo.