TITOLO TESI >La programmazione della danza contemporanea in Italia a partire dal D.M. 1 luglio 2014. Analisi attraverso la rassegna Grandi Pianure
ISTITUTO > Università di Roma La Sapienza – Corso di laurea triennale in Arti e Scienze dello Spettacolo
AUTRICE > Margherita Dotta
INTRODUZIONE DELL’AUTRICE
Scopo di questo studio vuole essere quello di tentare di cogliere la nuova ridefinizione dei confini della danza contemporanea italiana, non tanto attraverso l’analisi delle estetiche e delle poetiche autoriali, quanto piuttosto partendo da quello che è nella pratica l’ultimo tassello della filiera artistica: la programmazione, così come il legislatore l’ha definita nel 2014.
Nonostante le difficoltà con cui ancora oggi la danza italiana (in particolare quella contemporanea) convive, bisogna prendere atto che il nostro Paese negli ultimi anni sia proiettato nella costruzione di un sistema dello spettacolo «con un’osservazione dei fenomeni dal basso, nel riconoscimento dei processi in atto e nel tentativo di dar ascolto a domande insistenti che sono rimaste per anni senza risposta».
A tal fine abbiamo integrato a uno studio bibliografico una metodologia di ricerca sul campo, costituita da conversazioni e interviste, da materiale cartaceo e online di comunicati stampa, articoli e recensioni, intendendo sottolineare lo spiraglio di speranza, la ventata di novità e la presa di coscienza del legislatore sull’importanza del “codice pre-verbale o gestuale” della danza.
Una disamina a cerchi concentrici, che, partendo dal generale per arrivare al particolare, tenta di offrire una chiave di lettura in cui risulti evidente come dal quadro normativo, passando per le pratiche e gli scenari, si arrivi alla concretizzazione della programmazione di uno specifico spettacolo di danza. Il primo capitolo sarà quindi dedicato al quadro normativo che disciplina la programmazione delle attività di danza attraverso un confronto cronologico tra le leggi, le circolari e i decreti che si sono susseguiti dagli anni ’60 a oggi.
Il secondo capitolo sarà invece incentrato sulla rassegna Grandi Pianure, una “rassegna non-rassegna” curata da Michele Di Stefano e arrivata alla terza edizione all’interno della stagione del Teatro di Roma. Procedendo maggiormente verso l’interno, giungeremo infine all’analisi di una delle performance programmate nel 2019 all’interno della kermesse Buffalo di Grandi Pianure: Otto, performance di danza contemporanea dei Kinkaleri, che a distanza di 15 anni dalla sua nascita, torna in spazi non convenzionali, offrendo allo spettatore una rinnovata visione dello stato dell’arte.
Nuovi stimoli si affacciano oggi nello sterminato campo della danza contemporanea, che, in attesa di un vero e proprio Codice dello Spettacolo, accoglie al suo interno pratiche derivanti da altre arti, per creare un nuovo spazio di fruibilità per lo spettatore odierno. “Stare al passo, per superarlo” ci è parsa la frase appropriata per definire il presente della danza italiana.
Margherita Dotta nasce a Roma nel 1991. Al centro dei suoi interessi vi è il termine “ricerca”, che declina sia in ambito pratico che in ambito teorico: infatti accanto alla professione di danzatrice e performer, lavorando a contatto con Enzo Celli, Micha van Hoecke, Rozenn Corbel e Nicola Galli e co-fondando il collettivo Gruppo R.A.V.E.- Ricerca Anatomica Verso Energhèia, la sua curiosità la porta prima a studiare giurisprudenza, poi a laurearsi in Arti e Scienze dello Spettacolo all’Università La Sapienza, dove attualmente è studentessa laureanda in Teatro, Cinema, Danza e Arti digitali. Parallelamente, oltre ad aver affinato le sue conoscenze in ambito organizzativo grazie all’esperienza di co-direzione nella Piattaforma coreografica CorpoMobile, è redattrice per la rivista universitaria di critica teatrale Le Nottole di Minerva. È nell’incontro tra teoria e pratica, tra fuori e dentro la scena che Margherita disegna i confini della sua ricerca.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Marta Bevilacqua è direttrice artistica della compagnia Arearea, docente di danza contemporanea in diversi centri di Alta formazione, coreografa e danzatrice. Nel corso della sua carriera ha privilegiato un’instancabile ricerca del gesto e la trattazione coreutica di tematiche sociali.
Nel triennio 2018-2020 il suo lavoro è stato sostenuto dall’Hangart Fest di Pesaro, per cui si appresta a collaborare a una produzione editoriale che raccoglie l’esperienza festivaliera e il suo metodo compositivo. La sua ultima creazione, Homing, chiude la trilogia Choreographic Novel con un affondo filosofico sul tema, più che mai aderente alla condizione odierna, della casa e della migrazione.
La lunga esperienza di Marta Bevilacqua fa della coreografa e performer un importante riferimento per comprendere i cambiamenti in atto nel settore, analizzati in questa intervista con un focus sulle sue recenti esperienze lavorative e sul mutato insegnamento della danza in questo tempo sospeso.
Homing è il tuo ultimo lavoro, un’indagine corporea che prende le mosse dalla migrazione degli animali e che riflette sul senso di appartenenza e sul distacco dagli affetti. Come si inserisce in questo periodo storico la trattazione di tale tematica, come si traduce a livello coreografico?
Il tema della casa, o meglio delle case, è stato motivo di studio in tempi non di pandemia. Devo dire che trovarsi tra le mani un tema del genere in un momento come questo, è stato complesso da affrontare per me. Non nego che temevo di abbandonare questa strada, invece in quel limite ho trovato una risorsa che risiede nel dimostrare internamente ed esternamente che le case sono molte, diverse e che abbiamo l’opportunità di spostarci in luoghi che ci fanno stare bene se riconosciamo un rapporto forte con la natura. Qualsiasi cosa voglia dire questo per noi.
Homing è un viaggio tutto rivolto all’esterno, anche molto esplicito. Amo dire che Homing è un lavoro inattuale perché si appoggia a un testo importante che si intitolaSull’utilità e il danno della storia per la vita di Nietzsche. All’interno di quel testo, che era l’unica cosa certa da cui partire, c’è un dialogo molto buffo e surreale tra un uomo e un animale, durante il quale l’uomo chiede all’animale come mai sia così felice e di raccontargli in cosa consista la sua felicità. In questa assoluta distanza intellettuale tra l’uomo e l’animale, io in scena faccio l’animale.
Fare questo lavoro è stato divertente perché al mio fianco ho avuto un compositore stravagante, Walter Sguazzin, che ha esperienze compositive di prim’ordine, con cui ho declinato questo brano di Nietzsche in un canto trap. Ci sono quindi nel lavoro dei cortocircuiti estetici che sono per me stati motivo di forte gioia. Penso che un assolo sia un risultato. Sono arrivata a un punto del mio percorso artistico in cui mi sono sentita in grado di affrontare un assolo, ed è una delle cose più difficili che io abbia mai fatto.
Dal 2018 la tua ricerca è sostenuta dall’Hangart Fest, una collaborazione che condurrà alla stesura di un volume che raccoglie l’esperienza del festival e del tuo progetto di creazione. Quali ulteriori occasioni di confronto con il tuo percorso professionale ti sta offrendo la scrittura, che in questo caso funge anche da mezzo di archiviazione e testimonianza?
Volendo traslare, Hangart Fest è stata una delle mie case, un luogo dal quale devo migrare ora che la mia triennalità è terminata. La dimostrazione della bellezza di questo triennio avrà come esito anche una restituzione scritta. In questo volume si parlerà nello specifico non soltanto del lavoro sviscerato in questi tre anni ma anche di una modalità metodologica di fare composizione coreografica.
Sarà per me un’occasione per depositare le esperienze precedenti, la mia modalità compositiva, quello che penso sia la danza, il valore aggiunto che può avere il linguaggio della danza. Sarà anche un modo per mettere insieme dei riferimenti intellettuali che ho raccolto in questi anni.
Oltre all’attività di performer ti dedichi all’insegnamento della danza contemporanea in diversi centri di alta formazione. A causa della pandemia la didattica è stata svolta in parte da remoto. Come ha influito tale modalità d’insegnamento sulla formazione degli allievi?
Mi sono trovata a scegliere se aderire alla linea online, mantenendo un filo seppur lontano di presenza, ma ho declinato l’invito. Ho scelto di fare altro, ovvero tenere e condurre delle lezioni di storia della danza, di critica al corpo perché credo che soprattutto le giovani generazioni con cui ho l’onore, il piacere e la passione viscerale di fare un percorso di crescita, abbiano bisogno di tempo anche per un lavoro di comparazione.
Per me la storia dell’arte è assolutamente inclusiva e ho voluto utilizzare questo tempo per arricchire gli strumenti di comprensione e di necessità. Lascio al fitness e alle applicazioni un mantenimento del corpo che sanno fare meglio di me.
A me interessa un gesto espressivo, necessario ed è su queste due parole che articolo la mia modalità pedagogica che non può prescindere dalla relazione. Quando insegno chiedo alle mie allieve, ai miei allievi, alle persone che incontro, professionisti e non di fare la grande operazione di sbarazzarsi di sé e di afferrare la loro parte dionisiaca. Questo non è possibile se mi concentro sui muscoli, sull’altezza della gamba, a me interessa un corpo altro, un corpo necessariamente tecnico, ma soprattutto un corpo che sappia cosa sta agendo nello spazio.
La tua lunga esperienza in campo coreutico ci consente di avere uno sguardo profondo sullo stato della danza. Quali sono i punti di forza e i punti di debolezza del settore? Quali assetti, alla luce del blocco delle attività spettacolari, necessitano di un’urgente rielaborazione?
La forza della danza è indipendente dalla danza stessa. La forza della danza è il corpo, una realtà antica che riuscirà a superare questa grave e preoccupante forma di distanziamento sociale. Se è vero che le parole sono importanti, ne abbiamo scelte di importantissime perché il distanziamento sociale si è avverato concretamente. La danza sopravviverà perché non può fare a meno di sopravvivere, quello che mi preoccupa è l’attività di ricostruzione.
Mi auguro che gli operatori, anziché continuare a essere artisti, comincino a essere finalmente operatori e si mettano a servizio delle urgenze degli artisti che tutto vogliono eccetto che essere presi al lazzo per fare progetti online e streaming e che ripartano da lì con grande umiltà e facendo un grandissimo passo indietro. Io ho avuto la fortuna di formarmi con grandi maestri che facevano il passo dell’arte, ora purtroppo sono gli organizzatori a fare il passo dell’arte e spesso per convenienza.
Pertanto, rischiamo di omologare linguaggi ma mi auguro che tutta questa spazzatura, presto, con la riapertura dei teatri, ritorni nei propri luoghi e si riparta dalla presenza. Il più grande dono che si possa fare è il proprio tempo, la condivisione del tempo per l’arte è la cosa che mi manca di più.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
La Compagnia Zappalà Danza compie trent’anni di attività: 1990 – 2020. Fondata da Roberto Zappalà, è oggi considerata dalla critica europea una delle più interessanti realtà della danza contemporanea italiana.
La carnalità, l’autenticità e il desiderio di sviscerare i comportamenti dell’uomo sono il tratto distintivo del linguaggio della Compagnia, frutto del lavoro del coreografo-fondatore e della sinergia prolifica con Nello Calabrò, drammaturgo che negli anni ha rappresentato un pilastro nell’evoluzione di questo percorso progettuale.
“Trent’anni meravigliosi sono trascorsi – racconta Zappalà – le soddisfazioni sono state tante, le difficoltà non sono mancate, ma i danzatori e lo staff che mi hanno accompagnato in questo percorso hanno permesso che tutto questo accadesse tenendo sempre molto alta la qualità delle proposte”.
Il linguaggio peculiare della Compagnia, portatrice del pensiero artistico di Roberto Zappalà, è stato raccontato in questi trent’anni in oltre 80 creazioni, molte delle quali realizzate con musiche dal vivo, di differente tipologia: da quelle intimistiche, pensate per pochi interpreti, alle elaborazioni in spazi non convenzionali, a quelle che hanno coinvolto l’intero ensemble della Compagnia. Produzioni che hanno travalicato i confini nazionali e raggiunto i palcoscenici di grandi teatri e teatri d’opera, e preso parte a festival internazionali di ben 36 Paesi nel mondo e 133 città. Un rigoroso lavoro sul linguaggio, denominato MoDem, è stato costruito nel tempo e rappresenta la nota caratteristica delle creazioni. “Un linguaggio che – come racconta lo stesso Zappalà – ogni anno per 4 e 8 mesi è seguito da 50 danzatori provenienti da tutto il mondo, ma non contenti, da qualche anno abbiamo formato una giovane compagnia, la CZD2 che ci dà sempre più soddisfazioni”.
Soddisfazioni, dunque, sono state raccolte in questi 30 anni che riguardano non solo strettamente l’attività della Compagnia Zappalà Danza, ma più in generale il contributo che quest’ultima ha restituito alla città di Catania. “In questi anni – prosegue Zappalà – siamo anche riusciti a costruire una meraviglioso spazio performativo Scenario Pubblico, che in 18 anni ha ospitato ben 120 artisti e compagnie internazionali”. La sede di via Teatro Massimo, residenza della Compagnia, rappresenta un vanto culturale essa stessa per la città, non solo perché ha consentito alla compagnia di radicarsi nel suo territorio di naturale appartenenza, ma anche per il riconoscimento ottenuto nel 2015 dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali di Centro Nazionale di Produzione della Danza, l’unico da Firenze in giù e che pone la Sicilia accanto a regioni d’eccellenza. Una Città che, tuttavia, sembra non essersi ancora accorta dell’importanza di essere sede di una realtà come quella di Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza. “Il 2020 – è il commento amareggiato di Zappalà – si annuncia come uno degli anni più prolifici sia per nuove creazioni che per rappresentazioni, in tutto questo forse una solo nota stonata, non aver avuto sinora accanto alla nostra struttura una Città che si accorgesse di noi, delle nostre potenzialità e con quale forza siamo stati e continuiamo ad essere promotori di Catania nel Mondo”.
Nessuna grande manifestazione è prevista per la celebrazione dei 30 anni di attività della Compagnia che, simbolicamente, vedrà un piccolo momento inaugurale durante lo Speciale Tre Centri di Produzione, due serate in cui Scenario Pubblico ospiterà altri due centri nazionali di produzione della danza: Aterballetto e Dancehauspiù e le loro rispettive Compagnie, che si terranno sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre presso gli spazi di via Teatro Massimo.
“L’augurio in questa ricorrenza – conclude Roberto Zappalà – è che in futuro l’Amministrazione della Città possa seguire con maggiore attenzione le realtà artistiche, con la consapevolezza che l’Arte con le proprie specificità può essere strumento prezioso per raccontare, emancipare ed in alcuni casi aiutare ad educare la società”.
About Scenario Pubblico: Scenario Pubblico avvia le sue attività nel 2002. Situato nei pressi del centro storico di Catania ha in Roberto Zappalà l’ideatore e promotore del suo recupero. Una struttura dei primi del 900 acquistata grazie all’intervento di privati e ristrutturata con fondi europei, pensata per la danza contemporanea, raro esempio in Italia di centro coreografico europeo e diventato presto punto di riferimento per la danza nel Sud Italia. Nel 2015 il MIBACT riconosce Scenario Pubblico con la Compagnia Zappalà Danza quale uno dei 4 Centri Nazionali di Produzione della Danza. La struttura si articola in uno spazio per le performance da 150 posti con un grande palco ottimamente attrezzato, due ampie sale prove, un bar/ristorante, uffici, un archivio video e una foresteria. Il focus principale è posto sulla danza contemporanea e al suo interno si sviluppano attività di produzione, programmazione, ospitalità, formazione e divulgazione.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
In un ottobre più caldo del previsto, mi ritrovo nel cortile delle Fonderie Limone, “una fabbrica delle arti” ricavata dalla struttura di questa ex-industria, nascosta tra la zona industriale di Moncalieri e quella residenziale di Nichelino, alle porte di Torino. Incontro Anna Cremonini, che è subentrata nel 2018 a Gigi Cristoforetti nella direzione di Torinodanza.
Esperta nel settore della produzione e organizzazione dello spettacolo dal vivo, si è formata al Teatro Due di Parma e ha collaborato con il Teatro Festival Parma. Successivamente ha lavorato per quattro anni alla Biennale di Venezia e poi al Mercadante di Napoli. Responsabile organizzativa per il festival Equilibrio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è stata nominata alla Commissione responsabile della valutazione qualitativa sul FUS per il settore danza. Emerge subito da questo incontro la capacità di Anna (mi ha puntualmente chiesto di chiamarla per nome) di mettere a proprio agio l’interlocutore e la sua volontà di “stare sul campo”, arrivando a ogni appuntamento del festival in anticipo e parlando con tutti gli spettatori. Come essere invitati a una cena, con tutti gli onori di casa. Ci siamo presi quindi qualche minuto per scambiarci delle impressioni sul festival, che ho cercato il più fedelmente possibile di riportare.
Mi sono trovato, dopo diversi anni passati a seguire il festival Torinodanza – e in particolare queste ultime edizioni – a definire questo evento come una tavola anatomica: ovvero un festival che mostra al pubblico diverse parti della danza di questi ultimi anni, sia nelle sue parti più conosciute e “popolari” – l’epidermide – sia nelle sue espressioni sperimentali, più interne al panorama. Lei si trova d’accordo con questa mia definizione? Inoltre ho rilevato che in questo festival trovano spazio coreografi affermati come Sidi Larbi Cherkaoui (con cui Cremonini vanta un lungo rapporto professionale di collaborazione, ndr) e Akram Khan, i quali ereditano il bagaglio dei grandi maestri europei, ma anche uno spazio dedicato alle sperimentazioni degli autori italiani.
La lettura che hai dato al festival è interessante in quanto è un punto di vista esterno al mio: forse proviene dal fatto che cerco sempre di darmi delle motivazioni per scegliere uno spettacolo. Cerco di lavorare con degli artisti perché in qualche modo restituiscono una visione della realtà, di una vita, di un qualcosa del nostro essere contemporanei: chi come Akram Khan lo fa in maniera più manifesta, con un sottotesto ideologico e politico che si porta sulla pelle (Khan è figlio di migranti dal Bangladesh in Inghilterra, ndr) e chi lo fa in maniera più astratta o traslata. Il comune denominatore di questi artisti credo sia la volontà di raccontare qualcosa di noi, attraverso il corpo: è un corpo moderno, contemporaneo, sensibile alle sollecitazioni ed ai contrasti. Gli artisti ci aiutano un po’ a capire il mondo in cui viviamo, un mondo che cambia tutti i giorni, si sgretola intorno o si ricostruisce.
Queste sono le parole che direbbe una persona che fa creazione, solitamente: io vedo sia una direzione artistica ma anche una precisa volontà creatrice.
Innanzitutto vengo dalla produzione teatrale, quindi ho una sensibilità al palcoscenico e so cosa succede a chi sta lì sopra. Non sono una creativa, ma seguo da sempre l’attività creativa: credo comunque sia più complesso fare uno spettacolo rispetto a un festival. In qualche modo però anche la composizione di un festival è in qualche modo una dichiarazione d’identità.
Torino ha un rapporto particolare con il teatro e con i festival, e anche con il progetto di rilevamento seguito dall’Università è emersa una diversificazione rilevante e un’attenzione a quello che avviene. Qual è stato il tuo impatto con questa realtà?
Quando ho seguito l’edizione del 2017, l’ultima diretta da Gigi Cristoforetti, ho potuto osservare in maniera più dettagliata gli spettatori, avendo la sensazione che il pubblico torinese sia di cultura medio-alta: percepisci una densità nell’osservazione, una forma equilibrata di assenso e dissenso. Non è un pubblico compiacente e anche se non ho avuto fortunatamente manifestazioni di dissenso, si rivela comunque esigente e costruisce un rapporto basato sulla fiducia.
In Italia si discute molto del fatto che un festival sia un momento di sintesi, una summa di quello che succede in questo settore: su che cosa si dovrebbe lavorare dal punto di vista dell’offerta e del dialogo con le istituzioni?
Io ho avuto il privilegio di essere arrivata in un festival che esiste da molti anni e ha costruito un rapporto con la città: sicuramente penso che una proposta di qualità – indipendentemente dal budget – crei un rapporto con il pubblico. Io mi sono inserita in una storia già tracciata. Noto con grande piacere che in Italia i festival di danza contemporanea esistono, crescono, hanno un pubblico, godono di un’attenzione più alta rispetto al teatro contemporaneo. La danza forse interpreta dei bisogni nuovi. In Italia non abbiamo i “Grandi Festival” – come ad esempio in Francia con Avignone – ma abbiamo delle dislocazioni, dove si è creata una maturità, un’esperienza. Sicuramente sono stati fatti molti passi avanti anche nei rapporti con le istituzioni; bisogna andare avanti, insistere, migliorare la qualità dell’offerta perché la stessa migliora la qualità della domanda, e questa significa una volontà collettiva più consapevole.
Un’ultima domanda: si parla poco di chi si affaccia al lavoro della direzione artistica: dal titolo di studi universitario, al tirocinio in ufficio, alla “gavetta dietro le quinte”: cosa consiglieresti a una persona che si affaccia a questo mestiere?
La mia esperienza suggerisce di avere tanto coraggio, ma soprattutto vedere tante cose: anche ciò che sembra non servire. Tutto aiuta a formarsi un’idea, un gusto, una visione. Io ho fatto tanti passaggi e cambi di visione, quindi ho rischiato. Sono fortunata, perché sono una donna e sappiamo che per noi l’evoluzione di un percorso professionale non è sempre facile – soprattutto nella fase che io chiamo “l’ultimo miglio” – ma credo si debba abbassare l’età media. Io ci sono arrivata tardi a questa maturità, ma credo che prima o poi debba arrivare una generazione di giovani: sicuramente fare esperienze diversificate e in luoghi diversi aiuta a formarsi un patrimonio personale spendibile.
È l’evento estivo che ha celebrato la danza contemporanea a Roma, valorizzando le produzioni più interessanti. Giunto alla sua quarta edizione, anche quest’anno è arrivato puntuale come una brezza di innovazione e di cambiamento. Stiamo parlando di Fuori Programma, il Festival Internazionale con la lungimirante direzione artistica di Valentina Marini, alla quale è stata conferita la carica sociale di presidente dell’AIDAP (Associazione Italiana Danza Attività di Produzione) per il triennio 2019-2021.
Alcuni dati numerici descrivono meglio la dimensione delle novità della programmazione. Due sono i teatri di Roma che si alterneranno, dal 27 giugno al 7 settembre, in una staffetta simbolica. Il Teatro Biblioteca Quarticciolo ha dato l’avvio e concluderà il 6 e il 7 settembre la kermesse. Un punto di riferimento di aggregazione sociale, non solo logistico, per gli spettatori e gli artisti che si sono esibiti fino all’8 luglio. Il Teatro India, invece, ha ospitato nella sua sede i quattro spettacoli in calendario dal 10 al 27 luglio. Tre sono state le performance in site specific; le peculiarità dei luoghi open space hanno fornito uno scenario unico alle emozioni condivise. Piazza del Quarticciolo e Parco Alessandrino sono gli spazi urbani dove sono stati realizzati e presentati al pubblico Derivazione n.5 di Salvo Lombardo, il 27 giugno, e Variation n.1 di e con Camilla Monga, Pieradolfo Ciulli e Filippo Vignato,l’8 luglio. In un contesto più intimo e circoscritto, quello dei moduli abitativi dell’area del Quarticciolo, il Festival si concluderà il 6 e il 7 settembre con Anima di Emanuele Soavi.
Dieci le compagnie e gli artisti che hanno caratterizzato l’edizione 2019 di Fuori Programma. Quattro le nazionalità presenti “on stage”: Italia, Germania, Francia, Spagna. Paesi che hanno una tradizione importante e che sono proiettati verso il futuro, nella costante evoluzione coreografica dei codici linguistici della danza. Un luogo di formazione e ricerca il Daf, Dance Art Faculty, con i suoi locali che hanno ospitato il 31 luglio la restituzione al pubblico del lavoro di creazione affidato ad Emanuel Gat. Un progetto laboratoriale denominato Summer Intensive. Cinque giorni durante i quali una selezione di professionisti, giovani danzatori in procinto di muovere i loro primi passi e studenti hanno potuto conoscere e sperimentare la metodologia e il lavoro creativo, perfezionati in 25 anni di attività, del coreografo israeliano naturalizzato francese. L’opening di Fuori Programma è stato un momento vissuto in uno spazio pubblico, lontano dalle poltrone di velluto rosso. Con il profumo un po’ retrò di Mamma Roma e della vita di borgata, della città eterna vista dalla periferia. L’anelito di quella poetica neorealista e di quell’immaginario che forse non è cambiato nonostante le trasformazioni del contesto di riferimento e dei suoi abitanti. Là dove si ritrovano quei giovani ragazzi padre che, come cantava Enzo Jannacci, sanno di essere “peccatori per questa società”. E le loro compagne che fanno conversazioni di gruppo, tra donne, mentre i loro bambini sono liberi di scorrazzare in bicicletta. All’interno di ogni quartiere sopravvive, come una maledizione, la condizione sociale per cui quelle persone e quegli abitanti possono essere in balia del destino, ma difficilmente si lasceranno piegare dalle avversità. È così che la danza urbana di Salvo Lombardo, con Derivazione n.5, si è integrata e innestata nel cuore popolare del Quarticciolo trasformandosi in una festa di quartiere. Non poteva esserci un’inaugurazione più significativa e aderente con la realtà, nel segno dell’apertura e della riflessione sul territorio. La visione artistica di Lombardo, aperta al dialogo e alla comprensione, si manifesta spontaneamente attraverso l’azione di recupero di un’identità culturale. La stessa che il Teatro Biblioteca Quarticciolo esercita da anni. Una struttura che è nata dalla trasformazione di un ex mercato di quartiere ed è diventata un polo di ricerca e di aggregazione.
Il primo luglio è andato in scena After the party – A duet for one dancer. Anteprima nazionale e coproduzione tra la Thomas Noone Dance, Sat! Teatre Barcelona e Fuori Programma Festival. Uno spettacolo, il racconto tra un danzatore e il suo alter ego, un pupazzo senza nome, con diverse suggestioni, tracce di poesia e frammenti di storie. Narra l’incontro con Duda Paiva, maestro di teatro di figura ad Amsterdam, e con André Mello, creatore artigiano di marionette. Il tanto atteso ritorno di Noone alla danza, dopo un periodo di inattività, c’è stato. Con una nuova fisicità e con il coraggio di affrontare le sfide poste in essere dalla curiosità umana. Quasi sottotraccia c’era, infine, il tema del viaggio attraverso una serie di residenze effettuate in diversi paesi.
After the party – Thomas Noone
Variation 1 è un piccolo gioiello di composizione istantanea. Creata ad hoc per Fuori Programma Festival, in collaborazione con Bolzano danza, fa parte dello spettacolo Golden Variations. Una performance in site specific che l’8 luglio è iniziata ancora prima che il pubblico raggiungesse il luogo, la destinazione finale. Attraversando in gruppo Il Parco Alessandrino ognuno dei presenti ha conosciuti le sfide e le opportunità di quello spazio urbano. Un’area silvestre che si estende ed è compresa tra via Molfetta, via del Pergolato dell’Alessandrino e via di Tor Tre Teste. Camilla Monga, Pieradolfo Ciulli e Filippo Vignato hanno esplorato le infinite possibilità dei movimenti. Dalle ripetizioni meccaniche alla morbidezza fluida ed espressiva. Hanno interagito con la natura incontaminata e con la musica proveniente da uno strumento apparentemente insolito come il trombone. La sua estensione, i colori e le sfumature sono state analizzate ed approfondite dalla creatività e dall’abilità di Vignato, in quello che è stato un tributo alle storiche Golden Variations Eseguite da Glenn Gould e Steve Paxton.
Il primo degli spettacoli che il 10 luglio è andato in scena presso il teatro India di Roma, Concerto Fisico, è una composizione, una partitura fisica e vocale che racconta la storia di Balletto Civile. Un gruppo, nato nel 2003, fondato da Michela Lucenti, durante una lunga residenza artistica all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di Udine. Nella performance è contenuta la storia personale della fondatrice e della sua compagnia, mediante ricordi ed emozioni che riaffiorano lasciando emergere anche delle trasformazioni dovute all’azione del tempo.
Erectus compagnia Abbondanza/Bertoni si
La compagnia Abbondanza/Bertoni si è esibita il 21 luglio con Erectus. È il secondo episodio del progetto Poiesis, dopo La morte e la fanciulla/Franz Schubert e prima di Pellease Melisanda/Arnold Schoenberg. Una trilogia compiuta nell’arco di tre anni, dal 2017 al 2019. L’idea che muove l’opera è quella di trasformare musica e corpi in suono da vedere, così come è stato dichiarato da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni. Funzionale per questa esplorazione è stato il genere free jazz con le sonorità e le suggestioni di un album storico del 1956 di Charles Mingus: Pithecanthropus erectus. Marco Bissoli, Fabio Caputo, Cristian Cucco, Nicolas Grimaldi Capitello sono i quattro danzatori. Nella totale libertà dei loro corpi nudi e attraverso l’amalgama di percorsi diversi tra di loro, come Ying e Yang hanno mescolato i codici della musica e della danza. Esplorando le diverse forme e sensibilità del maschio del XXI secolo è stata riscoperta la matrice insita in ognuno di noi. Attraverso una serie di immagini e di videoproiezioni l’umanità e la bestialità sono state messe a confronto. Le evoluzioni fisiche e la ricerca dei movimenti hanno svelato l’anima animale in un comune percorso esistenziale fatto di fatica e sudore.
Quella del 24 luglio è stata una serata doppia che ha unito in un simbolico abbraccio la Spagna con l’Italia. Ad aprire è stato Equal Elevations, un progetto realizzato per il Museo Nacional de Arte Reina Sofía di Madrid. Ispirato ad “Equal-Parallel: Guernica-Bengasi” l’opera del 1986 di Richard Serra, scultore minimalista statunitense e videoartista contemporaneo. Il coreografo Marcos Moreau apre gli orizzonti e si affaccia con le sue visioni artistiche su due eventi storici. Il primo è il bombardamento della città basca di Guernica, avvenuto circa ottant’anni fa e che ispirò il celeberrimo quadro di Pablo Picasso. Il 26 aprile 1937, era un lunedì e come sempre era giorno di mercato. Fu il primo bombardamento a tappeto della storia, iniziò alle 16 di pomeriggio e durò circa tre ore. Il secondo è l’attacco aereo americano di Tripoli e Bengasi del 1986 in risposta all’attentato, attribuito a terroristi libici, nella discoteca La Belle Club di Berlino, frequentata da militari statunitensi. Moreau si muove tra un’indagine sullo spazio e le relazioni di similitudine del tempo. I danzatori-statue diventano sculture viventi sperimentando la leggerezza e la gravità.
Future man- Spellbound Contemporary Ballet
Future man, la nuova creazione di Spellbound Contemporary Ballet, volutamente è stata presentata al pubblico di Fuori Programma sotto forma di studio performance, a firma di Mauro Astolfi. Un assaggio, un momento di condivisione con il grande pubblico del Teatro India, prima del completo allestimento tecnico che sarà ultimato in autunno immediatamente dopo il debutto della nuova produzione al Grand Theater de Luxembourg a settembre. Quella che è stata rappresentata è la tipologia di un uomo che vive in sospensione. Il presente per lui è caratterizzato da una forma di controllo ossessivo e di distacco. Il passato viene invece rifiutato o negato, ma è qualcosa che ciclicamente ritorna. Il futuro è un mix di speranze e paura.
Sita Ostheimer ha chiuso i quattro appuntamenti sold out al Teatro India con un dittico, una coppia di creazioni originali, entrambe prime regionali: Us e Two. Potrebbe essere una precisa dichiarazione d’intenti: io e noi, io e tu. Dall’individuo all’interno del gruppo, alla dimensione a due. Il singolo che, in una costante ricerca, divide lo spazio e il tempo in relazione ai suoi simili. E di come, all’interno di una coppia di amici, fratelli o amanti possono compiersi quelle piccole o grandi digressioni del proprio percorso. La coreografa tedesca, danzatrice e assistente di Hofesh Shechter, dal 2015 è concentrata sullo sviluppo di un personale lavoro artistico. Il suo è un processo di ricerca basato sull’interazione tra corpo, mente, spirito ed emozioni. Fondamentali risultano essere l’improvvisazione e il ritmo. È stata per la prima volta in tour in Italia con due tappe, prima a Bolzano Danza, il 25 luglio e subito dopo a Roma il 27.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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