Sergio Blanco è un drammaturgo franco-uruguaiano di poco meno di cinquant’anni. I suoi testi sono stati presentati in diverse parti del mondo, Italia compresa, dove la compagnia Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi si è aggiudicata il Premio Ubu speciale per l’allestimento di alcune opere straniere, tra cui il suo Tebas Land. Della diffusione italiana dell’opera di Blanco fa parte la proposta editoriale di Cue Pressdi cui ci occuperemo in questo articolo, composta dal saggio Autofinzione – L’ingegneria dell’io e dalla raccolta di opere tradotte in italiano Teatro.
Blanco è un drammaturgo con dei principi teorici ben definiti, elencati e discussi nel saggio Autofinzione. I suoi studi, di filologia e non solo, lo hanno spinto a una formulazione chiara delle idee che guidano il suo lavoro. Il cardine è proprio l’autofinzione, ovvero una scrittura che mescola autobiografia e finzione in modalità impreviste e, soprattutto, ambigue.
Se consideriamo le opere raccolte in Teatro, troviamo in Tebas Land un personaggio, il drammaturgo, che si chiama S.; neL’ira di Narciso il protagonista, un intellettuale, si chiama Sergio e ne Il bramito di Düsseldorf ancora più esplicitamente Sergio Blanco. Queste figure sono il “doppio” dell’autore, l’alter ego che assorbe parte dei suoi tratti caratteriali e delle sue esperienze, insieme però ad elementi finzionali.
L’autofinzione tuttavia non è solo questo, le identità reali-fittizie del drammaturgo sono possibili perché c’è una questione a monte che riguarda il potere della parola, della scrittura e dell’immaginazione. La possibilità di crearsi un’identità, di inventarsi, di piegare la realtà alle proprie fantasie è una capacità tutta umana che trova nel teatro il suo luogo di elezione. Alla luce di questo, le domande che sembra farsi Blanco in ogni suo testo suonano più o meno così: “Dove finisce la scrittura e inizia la realtà? Dove termina la rappresentazione e comincia la vita?”.
Definire un confine sembra impossibile perché, in fondo, i fatti del mondo vengono plasmati e direzionati dalle parole. Come il padre di Martín in Tebas Land, che continua a ripetere al figlio «sei inutile», finché il giovane non se ne convince. Allo stesso modo, le somiglianze tra Martín e San Martino sono evidenti perché anche i miti, le leggende, persino i cartoni animati (Bambi ne Il bramito di Düsseldorf), danno forma alla realtà.
Siamo vittime di storie raccontate prima di noi, nostro malgrado. Per questo raccontare la propria, oppure inventarla, è importante. Il drammaturgo allora è semplicemente colui che consapevolmente, forse con più cinismo, fa quello che tutti noi quotidianamente facciamo. Certo, rispetto alla vita “vera”, il teatro dà molti più poteri: sul palco la natura degli oggetti può essere modificata con una battuta, un rosario può diventare di ciclamini e poi di rose e poi di nuovo di ciclamini senza colpo ferire; il fulcro dell’operazione però non cambia.
Tornando al saggio, la prima parte è occupata da una genealogia del concetto di autofinzione da Socrate ai giorni nostri, passando per il celebre motto di Rimbaud Je est un autre fino a giungere alla coniazione del termine da parte dello scrittore Serge Dubrovsky nel ’77. Blanco qui avanza una tesi secondo la quale, negli anni ’70, i saperi e le pratiche (in primis la lotta politica) spingevano verso la cura del sé, la personalizzazione dell’individuo, l’esaltazione dell’espressione singolare di ognuna e ognuno.
Nella parte finale del XX secolo sarebbe avvenuta invece un’inversione di marcia, con l’affermazione di un individualismo vuoto e di un conformismo omologante e de-soggettivante. In quest’ottica, l’autofinzione sarebbe una forma di resistenza, di recupero di un’originalità del sé, «è scommettere su una costruzione dell’Io in quanto soggetto libero e capace di emanciparsi dalla pericolosa egemonia della cultura di massa».
Nella seconda parte del testo, Blanco individua alcuni temi-chiave della propria poetica: la conversione, il tradimento, l’evocazione, la confessione, la moltiplicazione, la sospensione, l’elevazione, la degradazione, l’espiazione, la guarigione. Prendiamo in considerazione l’elevazione e la degradazione che stanno ad indicare la luce sotto la quale viene mostrato l’alter ego di Blanco nelle opere. L’autore si preoccupa molto di difendersi dall’accusa di vanità, in quanto il suo personaggio viene spesso lodato e stimato come grande intellettuale, grande drammaturgo, grande amante.
La motivazione di ciò sarebbe però nei sentimenti opposti, Blanco esalta se stesso nei testi perché proprio lì ci sarebbe una falla nella realtà: «Il gesto di elevarsi attraverso il racconto dimostra la consapevolezza che esiste un errore da correggere». In modo complementare, la degradazione – il personaggio di Sergio appare spesso freddo, arrogante e supponente – nasconderebbe invece una sorta di autocompiacimento per la capacità di sapersi criticare con lucidità. Tutto questo mostra come l’autofinzione sia un terreno aperto per l’autoanalisi portata alle sue estreme conseguenze, fino alla brutalità del desiderio di osservare la propria morte violenta ne L’ira di Narciso.
Non è quindi quella del pavoneggiarsi un’accusa fondata per il drammaturgo, semmai gli si potrebbe recriminare di essere a volte didascalico, un rischio che corre nelle opere e ancora di più nel saggio. Sembrerebbe però che la motivazione stia nel non voler avere alcun segreto con lo spettatore, nel desiderio di dargli tutti gli elementi necessari, nel ricercare un discorso comune; sarebbe allora vero che, come egli sostiene, Blanco scriva di sé per cercare l’Altro da sé e, soprattutto, per farsi voler bene.
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Sono passati circa 400 anni da quando Nicolò Barbieri firmò La supplica, discorso famigliare a quelli che trattano de’ comici, eppure il trattato seicentesco è ancora capace di incuriosire i suoi lettori e di fornire, attraverso l’attualità dei temi esposti,interessanti spunti di riflessione sull’odierna condizione del teatro.
Lo studio critico de La supplica del comico Nicolò Barbieri proposto da Ferdinando Taviani e pubblicato dalla casa editrice Cue Press, fa emergere i tre temi cardine del discorso famigliare del Barbieri: la polemica religiosa anti-teatrale; il problema di una mancante posizione per i comici dell’arte all’interno della società; l’incombente necessità di una nuova visione della funzione sociale del teatro.
Il trattato di Nicolò Barbieri non è solo una difesa dai molti attacchi che eruditi, letterati e chierici spesso rivolsero alla Commedia dell’Arte – considerata nel diciassettesimo secolo un luogo di peccato e dannazione dunque di incarnazione demoniaca – ma è anche il tentativo di un comico di vedere eticamente riconosciuta la sua professione e di istituzionalizzare il teatro attraverso la ricerca di spazi adepti e di tempi dedicati, non più solamente all’interno del calendario festivo ma anche all’interno di quello culturale della città seicentesca.
Barbieri, noto in commedia per la maschera di Beltrame, è un attore dalla moralità atipica, presentato in molti scritti settecenteschi come uomo onesto, filantropo, virtuoso esempio di religiosità e incorruttibilità. L’insistenza di chi ne scrisse – per lo più ecclesiastici aderenti alla polemica controriformista sul teatro – sulle peculiarità biografiche dell’autore de La supplica, è da ritenere, invero, una strategia: l’esibizione di Barbieri come singolare caso di comico per bene fa emergere, per contrasto, l’immoralità e l’oscenità dei suoi colleghi.
Suddivisa in 57 capitoli e composta tra il 1627 e il 1634, La supplica apre, dopo una lettera reverenziale indirizzata a Ludovico Il Giusto Re di Francia e di Navarra, con una descrizione «a’ benigni lettori» del Discorso e della ragione che muove Beltrame a scriverlo: più che difendere l’arte comica in generale, talvolta realmente oberata di oscenità e viltà, il Barbieri invita a riconoscere una differenziazione nell’approccio degli attori alla professione. Se l’attività dei comici è indistintamente ascrivibile al nome di Commedia dell’Arte, il loro decoro non solo non dipende dalla professione ma non può influenzare i meriti della professione stessa. Tale concetto è chiarito dall’autore con uno dei ricorrenti, calzanti e puntuali esempi di cui La supplica è ricolma: «l’onore o il biasimo va direttamente all’operatore e non alla tavola o alla tela imperfetta, cioè al comico e non al nome della comedia; e perciò l’Arte è sempre la stessa e l’onore è di coloro che virtuosamente s’affaticano».
Tra i primi scritti annoverati nella polemica religiosa anti-teatrale, gli interventi denigratori dei Sacri Canoni e del legislatore Giustiniano, sono adoperati da Nicolò Barbieri, nel quinto capitolo, per effettuare una decisa separazione tra i comici e gli istrioni, generica categoria d’appartenenza di mimi, satirici, giocolieri e buffoni che accettavano di dar diletto sotto compenso. Se gli antichi comici erano soliti rappresentare oscenità, storie di disonori familiari e mescolare il sacro e il profano, i comici contemporanei di Beltrame «riempiono di filosofici discorsi, di trattati politici, gravi sentenze, leggiadri concetti, vivaci arguzie e saporosi sali» i soggetti favolistici che portano in scena. Stabilito che diverse sono le loro azioni, che siano diversi anche i loro pregi. Per sostenere la sua tesi Barbieri stila, nel settimo capitolo, una lista di comici celebri per i loro sforzi attorici e letterari – insigniti degli onori delle più alte autorità giuridiche, oltre che di regine e imperatori – in cui compaiono i nomi di Isabella Andreini, Pier Maria Cecchini, Giovan Battista Andreini e Nicolò Zecca.
La distinzione tra comici e buffoni continua nei capitoli a seguire con la disamina dei materiali che i comici sono soliti raccogliere e studiare per la creazione dei loro personaggi, i quali sortiscono nel pubblico un riso che non è fondamento della loro operazione, come nel caso dei buffoni, ma ornamento di bei discorsi. Seguendo questa scia, dal tredicesimo al ventunesimo capitolo, l’attenzione di Barbieri si concentra sul racconto di quelle competenze culturali e di quelle verità morali che fanno della commedia un genere dalle finalità educative.
Baluardi della polemica anti-teatrale sono la presenza in compagnia delle donne e i profitti dei comici. Le comiche, accusate di meretricio e voluttà perché traenti profitto dall’esibizione del corpo, sono difese da Barbieri con esempi di attrici accompagnate da padri o da mariti durante le esibizioni. Rispetto ai guadagni degli attori, poi, l’autore scioglie ogni sospetto comparando i suddetti guadagni al salario spettante a qualsivoglia mestierante. Questi due preconcetti si trovano anche alla base del problematico posizionamento sociale dei comici, tema affrontato, a partire dal trentacinquesimo capitolo, con il solito proseguire per esempi che contraddistingue la scrittura di Barbieri. Ora la casistica riguarda momenti riprovevoli o virtuosi del vivere civile che, in egual misura, hanno toccato sia quelle città italiane che hanno ospitato le compagnie comiche sia quelle che non lo hanno ancora fatto, scagionando, di fatto, gli attori dall’accusa di procurare disagio in società.
Avvicinandosi alla conclusione dell’opera, i capitoli restanti hanno carattere riassuntivo delle posizioni assunte dall’autore. La commedia non è vile perché educa i meno eruditi, perché l’hanno recitata principi e accademici durante il carnevale; la commedia non è scandalosa perché si recita al cospetto di regine, duchesse e gentiluomini. Per questi motivi, la chiusa dell’epilogo recita: «il Signore ne conceda grazia che tali siamo qual io descrivo, acciò che possiamo esser esenti dalle pubbliche riprensioni e dalle segrete correzzioni, ma che le nostre fatiche abbiano per iscopo l’onor d’Iddio, il mantenimento nostro e l’utile del pubblico».
La supplica, pur essendo stata composta dopo illustri interventi difensori di altri attori (si pensi agli scritti di Giovan Battista Andreini o a quelli di Pier Maria Cecchini), è da considerarsi uno dei documenti più preziosi mai raccolti della Commedia dell’Arte, poiché avente la potenzialità per illuminare alcuni sentieri nebbiosi che, storiograficamente parlando, hanno reso problematica l’indagine di un momento fondamentale della storia del Teatro.
Con questo studio critico Ferdinando Taviani, profondo conoscitore della Commedia dell’Arte, prende per mano il lettore proselita e lo introduce alla problematica della costruzione culturale dell’epoca barocca, proponendogli un percorso di consapevolezza storica, parimenti percorribile dall’appassionato. A differenza di altri testi che, ponendosi l’obiettivo di innalzare la caratura morale e intellettuale della Commedia dell’Arte, si affidano a un linguaggio aulico dalle citazioni colte, La supplica di Barbieri, riportata integralmente in questa pubblicazione, mescola i modi del parlare quotidiano e accademico, proiettando il lettore verso il riconoscimento di una serie di dati di fatto che si nutrono di un efficace alveolo di proverbi, immagini e similitudini di matrice popolare.
Oggi nettamente superate le accuse morali a lungo rivolte al teatro e ai suoi mestieranti, e accertata oltre che accettata la capacità del teatro di ricoprire una funzione non solo di tipo ludico e spettacolare ma anche di tipo sociale, permane un senso di incertezza nell’ambiente produttivo teatrale in riferimento a un’autonomia di carattere tanto economico quanto culturale che si presenta ancora debole.
Se è vero che la Storia ha la capacità di analizzare il passato per problematizzare e fornire nuovi punti di vista sul presente, allora uno scritto come La supplica, può figurarsi come uno stimolo per superare, così come fu in età barocca, alcune persistenti lacune del nostro odierno sistema teatrale.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Chi si accinge a leggere questa recensione, almeno una volta nella vita avrà detto (o avrà sentito dire) questa espressione: faccio teatro. Sì, ma che teatro? Che tipo di teatro? Ma che significa, in fondo, fare teatro? Che cos’è il teatro? O meglio: che cosa sono i teatri? Perché in questa espressione, fare teatro, coesistono mille varianti e versioni diverse, a volte molto distanti tra loro, alcune inconciliabili.
C’è chi fa teatro d’avanguardia, chi teatro di tradizione, chi dice di fare quel metodo, chi dice di non seguire nessun metodo: le vie del palcoscenico sono veramente infinite. Ma in fondo a questo mare di etichette e di stili, ci sono dei principi sempiterni che regolano i processi creativi, i quali vanno riscoperti in continuazione, contro le “scuole”, contro gli stessi metodi che cercano di cristallizzare, in regole e formule codificate, esperienze e forme originali, frutto del lavoro di chi ha cercato di raggiungere la terra promessa della ricerca teatrale: un “teatro senza spettacolo”, oppure uno “spettacolo senza teatro”, dove l’evento crea una comunità in cui il diaframma attore-spettatore cade di fronte alla partecipazione totale dei presenti. Per conoscere questi principi, non bisogna rievocare i fantasmi del passato partendo dalle risposte già precedentemente acquisite, ma ognuno deve porsi le giuste domande, alla ricerca di una forma in equilibrio tra contemporaneità e tradizione.
Il teatro è lavoro. Il teatro è eccezione alla regola. Il teatro non è trasmissibile dal passato al presente, o dal presente al futuro. Il teatro è un’invenzione continua: questa è la verità nascosta all’interno del testo “L’invenzione del teatro”, di Antonio Attisani, edito da Cuepress, un vero e proprio viaggio all’interno della fenomenologia della ricerca teatrale, in cui si creano connessioni tra esperienze artistiche apparentemente lontane, ma che condividono il principio della trasformazione poetica della propria realtà. Una particolarità di questo testo è la presenza dell’Italia, sia come luogo fisico che come luogo d’origine della ricerca teatrale, sia come luogo metaforico di riferimento – in particolare Venezia e il suo senso di grottesco – che conferisce al nostro paese una visione inedita all’interno della storia delle avanguardie.
Tradizionalmente, come unica avanguardia italiana viene indicato il fenomeno del Futurismo che si è occupato e ha avuto relazioni feconde e non con uomini di teatro sia in Italia che all’estero, ma effettivamente non ha creato radici di spessore. Lo sguardo diversificato di Attisani invece mostra come la tradizione del Grande Attore italiano (Grasso, Salvini, Duse) stia alla base della ricerca di Stanislasvkij e soprattutto di Mejerchol’d, e di come le esperienze artistiche della Duse e di Carmelo Bene vadano riscoperte secondo logiche non agiografiche o attoriali, ma secondo logiche registiche e di ricerca d’avanguardia in generale. Inoltre in Italia si sono avvicendati personaggi come Craig, e Grotowski con il suo Workcenter, che hanno lasciato il segno all’interno del firmamento teatrale, e in particolare un protagonista inedito della storia del teatro su cui Attisani si sofferma in particolare: San Francesco d’Assisi. Cosa accomuna “lo santo jullare” con le esperienze d’avanguardia del teatro del Novecento? A voi lettori la scoperta.
Un testo che non deve mancare nella biblioteca di chi dice faccio teatro.
Quante volte vi sarà capitato di guardare un quadro minimalista o un ready-made e dire “ma questo non vuol dire nulla”. Quante volte vi sarà capitato di ascoltare Stockhausen o John Cage e di non capire cosa state ascoltando. Quante volte vi sarà capitato di guardare uno spettacolo “strano”, senza capo né coda, in cui ci sono persone che non sembrano manco degli attori e che sembrano lì, per caso, e fanno cose senza senso: si muovono senza dire una parola, emettono solo dei suoni strani, non ci sono costumi, né quinte, né scenografie, sembra quasi che gli attori o presunti tali si siano visti 5 minuti prima e si siano messi d’accordo in linea generale sul da farsi. Voi guardate tutto questo e direte tra di voi: “ma questo non è teatro!” (O, per meglio dire, questo non è il teatro a cui siete stati abituati)
Si può ancora definire teatro? Che cosa vuol dire performance? Che significato ha questo nuovo modo di fare spettacolo? E soprattutto: perché?
Ecco, se volete delle risposte a queste domande, “Il teatro postdrammatico” di Hans-Thiens Lehmann è quello che fa per voi. È praticamente la summa del “nuovo teatro” del Novecento: non a caso uscito nel 1999, ci permette di fare un viaggio a 360 gradi non solo su quello che è stato il teatro nel Novecento e su quello che sarà il teatro del futuro, attraverso le citazioni e i racconti le maggiori esperienze e spettacoli della nostra epoca, ma facendo anche delle riflessioni profonde sui concetti di teatralità, dramma, spettacolo, rivolte verso il domani in relazione alle nuove possibilità offerte dalla nostra società contemporanea. Da Aristotele a Giorgio Barberio Corsetti, da Brecht a Szondi fino ai fratello Castellucci, passando per Artaud, Müller, Hegel, Wilson, Benjamin: in questo testo troviamo la conclusione di tanti percorsi diversi e diversificati che difficilmente rivedrete uniti in una maniera così logica e coerente.
Perfomance text, teatro-danza, happening, landscape, teatro visuale, teatro epico: in una parola, teatro postdrammatico.
Alla luce di ciò, se siete cultori esperti di teatro, questo testo vi permetterà di riunire le fila di anni e anni di letture e studi che apparentemente non centravano nulla, ma che in effetti sono espressioni dello stesso fenomeno; se invece siete dei neofiti, è come se partisse dalla fine: può essere di difficile lettura e comprensione inizialmente, ma vi darà la possibilità di leggere il nucleo genetico del teatro in relazione all’arte del Novecento, e da lì partire per seguire i diversi fili, e potrete usarlo come bussola per orientarvi nei prossimi approfondimenti. È un libro denso, una sorta di enciclopedia che non deve mancare nella libreria di chi si occupa di teatro.
L’unica nota dolente: nonostante sia uscito nel 1999, trova la sua traduzione in italiano solo adesso (a cura di Sonia Antinori, per la casa editrice Cue Press). Sintomatico forse di un ritardo culturale in Italia sull’argomento, spero che la diffusione di questo testo possa colmare velocemente la distanza accumulata e possa portare a quest’opera l’attenzione culturale e mediatica che le compete.
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