La funzione culturale dei festival – Un seminarioè un’analisi delle attuali condizioni di sviluppo culturale – delle metamorfosi, di progresso o deriva – del fenomeno festival, volta a valutarne il ruolo a partire dall’ormai già inadeguata definizione corrente. Il primo atto presenta una lezione panoramica della storia dei festival, dalle origini ottocentesche ai rilanci più moderni, nella quale Roberta Ferraresi evidenzia lo speciale rapporto tra la conformazione del moderno modello di festival e la temperie rivoluzionaria sessantottina:
L’elemento di interesse in questa “coincidenza storica” si rintraccia nel fatto che l’elaborazione di tale modello di festival viene messa a punto in un momento in cui il concetto e le pratiche della festa dimostrano una diffusione sostanziale […] perché il teatro tradizionale starebbe a rappresentare la società che si intende rovesciare; al contrario, si esprimerebbero qui una serie di pratiche performative altre, fra cui appunto quelle di carattere festivo.
Ed ecco che i festival rappresentano dunque l’unità dei valori spirituali e materiali, come sociale pratica di festa (fèstival dall’lat. mediev. festivalis, «festivo») nonché parte civile, manifestazione delle istanze giovanili, e dei precari tutti, contro la classe dirigente.
A riprova del principio material-sociale dei festival, un documento dove, nel periodo dell’esilio – nota bene –, Richard Wagner esprime il desiderio di rappresentazione del suo Sigfrido al punto tale d’inscenarlo, tant’è la voglia, su “un rozzo teatro di legno” a una sottospecie di festival in pubblica piazza. Segue la genesi del Festival di Bayreuth(dedicato esclusivamente all’opera di Wagner), con una breve nota ideologica sul compositore tedesco connotativa del carattere del festival. Difatti Bayreuth si conforma totalmente alla matrice del capriccioso maestro, rappresentando (onorevole alfiere contro la volgare produzione industriale) il gusto delle belle arti ma non già la poetica dell’ideale, (contro la superficialità di pensiero) i romantici sentimenti ma non già l’amore o la misericordia, facendo dei festival in genere (come dello spettacolo e delle arti tutte) un passaggio tra i principi sociali per l’individuo partecipe e la determinazione civile per la collettività.
Con Wagner si incontra il rivoluzionario Marx, il rivoltoso Bakunin, nonché il giovane Hitler; e infatti è un passaggio, quello tra il sociale e il civile, che l’arco del Novecento non riesce ancora a conseguire. Ma proseguendo con la storia è importante notare (e Roberta Ferraresi aiuta), come alcune tra le forze conservatrici non siano invero anti-progressive, ma che anzi s’interessino di questioni pur tuttavia ancora irrisolte; e in questo senso i festival sono, ammesso di rispettarne – come presto si comprende – ambo le parti, un esempio di moltitudine, assumendosi il doppio compito di innovazione e aggregazione.
Definiti un esempio d’innovazione – artistici perché performativi – ma con appunto una vaghezza particolarmente sociale che: […] ha influito in modo evidente e duraturo sulle trasformazioni […] del secondo Novecento; ma il “Festival Internazionale della Mortadella” di Castelnuovo può arrogarsi il titolo d’esempio e definirsi un modello da seguire? A differenza degli anni sessanta e settanta, quando i moti di rivolta, seppur fallendo, hanno comunque significato sempre qualcosa, oggi l’underground giovanile non riesce a costituire una controcultura adeguata a sostituirli o farne le veci, rimanendo soltanto relegato a sottoprodotto del sistema. Se però certe realtà vivono per lo più in qualità del principio sociale dei festival, forse l’approfondimento delle sue caratteristiche anche civili gli renderebbe insieme maggior pienezza d’essere. E allora (ove le forze individuali si dimostrino insufficienti) è la disposizione al dialogo – e all’ascolto, che lo premette – che ha il potere di costituire la suddetta controcultura e avvalorare l’aggregazione sociale d’ulteriore senso; una sensibilità che si acquisisce a condizione però del distacco dalle soddisfazioni più immediate (per le quali brigando l’ebbrezza festiva ha finito invece per sovraintendere luoghi deputati all’istruzione).
Così Dino Sommadossi: […] questo è il ruolo, credo, che dovremmo rivendicare [date le circostanze] con maggior determinazione facendo un po’ di chiarezza sul concetto stesso di festival, soprattutto nei rapporti con il Ministero e con le valutazioni di merito che il Mibac esprime […]. Quale sia il margine d’equilibrio tra libertà sociali e impegno civile sta alla maturità degli organi votarlo opportunamente, siano questi festival, teatri o qualunque altra forma di spettacolo dal vivo e non, d’arte, di cultura e via via discorrendo. Certamente le peculiarità originali d’ognuno rappresentano uffici fondamentali (da comprendere) che tuttavia, a ben guardare, pur mirano essenzialmente, più che a inequivocabili partiti, a una sinergica azione tra svariate cariche reggenti: un giudizio che va quindi amministrato in rapporto alle società di riferimento – in termini comunali o provinciali, internazionali o non, economici, ideologici, di appoggio e coinvolgimento, di spettacolo e intrattenimento, ricerca e formazione, estetica e sperimentazione… Responsabili, in definitiva, d’ogni possibilità di sorta.
Una parte qui emblematica sarebbe quella del “direttore”, il quale può forse dimostrare praticamente l’entità di quel tessuto connettivo tanto responsabile. Infatti, un direttore mette in relazione, come una cerniera, l’intera filiera e – cogliendone l’interesse comune, il potenziale – si cura della ragione di tutti: negozia quindi i finanziamenti coi produttori, la distribuzione, s’interessa dello sviluppo artistico, ne comprende, solleva o risolve le questioni, prende lui le decisioni, comprende i territori, i risvolti politici, si preoccupa di spese e guadagni, ha diritti, si assume i rischi, coordina tutti i processi di organizzazione e talvolta di realizzazione, punta a incrementare, assume i lavoratori, professionisti del settore e non, maestranze, trasporti, pensa alle opportunità per i più giovani, se ne avvale, spinge la qualità di laboratori o tirocini, guarda (o non guarda) al pubblico fruitore.
Ma il suo non è che un esempio perché, in verità, ogni parte s’intreccia coll’altra e non è poi più così facile distinguerle: così per artista s’intende chi esercita una o più tra le discipline artistiche e cioè possiede la tecnica che compete alla propria professione, a prescindere da un’ipotetica ispirazione ideale, e in questo caso è responsabilità del direttore indicare all’artista un discorso, un senso per l’opera commissionatagli; diversamente invece accade quando l’artista è pure un poeta e cioè è lui stesso il responsabile d’una poetica, un discorso, e allora il direttore non ha solamente che da favorirlo: uno scambio di ruoli tra parti che dunque non sono affatto dei generi distinti ma piuttosto trans-disciplinari. Anche i festival, nello specifico, non soltanto hanno partecipato a quell’esubero di valori material-sociali ma, d’altra parte “negli ultimi decenni sempre più […] si sono [di rimando] accollati una serie di compiti – che non gli erano propri – e quindi hanno agito in una sorta di supplenza rispetto alle mancanze [civili] del sistema”.
Votare, però, arbitrariamente tra i valori, insensibili (in questo groviglio) ai riferimenti necessari, è un decorso insidioso, che non conduce a molto e, in verità, nulla di ciò che se ne ricava può compensare il perso, quello di cui poter invece andare orgogliosi e fieri. I festival hanno influito sul modello delle stagioni teatrali, sostituito al repertorio spettacoli d’eccezione, sperimentali e liberi, in un’atmosfera magari capace di attrarre un pubblico più giovane e veicolare contenuti – anche importanti – in maniera più facile, certo, ma forse pure più superficiale di quanto invece possano fare certi classici:
Per uscire dal ghetto abbiamo speso la carta dell’accessibilità culturale, individuando nella presunta difficoltà delle proposte la causa della non partecipazione […] individua dunque una mancanza tutta dalla parte degli orizzonti cognitivi del pubblico […] se l’accessibilità culturale ha significato abbattere le barriere, abbassare la complessità e favorire l’ingresso mi pare che abbiamo ottenuto poco.
Le parole di Lorenzo Donati danno un’idea di come i festival si siano (talvolta) mal posti verso il teatro e la cultura in generale, sviando artisti, pubblico, critici. Viceversa, negli ultimi anni si stanno affermando festival di approfondimento culturale, di letteratura, filosofia, matematica, benché, “[…] con tutta la buona volontà che è stata messa in campo e tutte le competenze anche molto generosamente spese […]”, nessuna supplenza delle parti può da sola ovviare all’assenza di un apparato istituzionale integro. Scelte sbagliate se ne fanno – ogni ruolo è una responsabilità che, in un verso o nell’altro, si soffre – e pur gli errori servono, tuttavia (nel migliore dei casi), per sensibilizzarsi all’ordito – e organizzare un sistema più complesso.
Un capitolo fondamentale per il presente è senz’altro l’ottavo I festival nel sistema teatro: interazione con gli altri soggetti e reti, in cui si mette addirittura in dubbio, e a ragione veduta, l’esistenza stessa di un sistema istituzionale dello spettacolo.
[…] la normativa, per come è articolata e concepita, provoca irrigidimenti, limita le interazioni tra i diversi soggetti dello spettacolo […] generano marginalità, frustrazioni, antagonismo. Nel nostro paese sono gli apparati amministrativi a forgiare il sistema […]
In realtà quindi, come si legge, un sistema c’è ma, se non lo si può dire classista e capitalista – anche in considerazione della forza che per somma i maggiorenti ottengono –, resta comunque un sistema davvero poco repubblicano. La comune necessità di un sistema, ovvero di un sistema distinto, sta ad ogni modo generando affinità culturali e interdipendenze tra soggetti, in una rete che finalmente possa (più che sostenere “artisti” singoli e produrre spettacoli o eventi canonici) anzitutto “[…] far pressione sulle istituzioni per ottenere risposte che servano a tutti”. Urge, per un simile apparato, instaurare relazioni pur aldilà delle preesistenti categorie amministrative, e pure tra soggetti per cultura molto differenti (per posizione geografica, organizzazione, attività, entità, storia); significherebbe diffusione nonché moltiplicazione degli strumenti di ciascuno.
Tuttavia, fare rete è un mezzo di servizio, e intessere relazioni non significa solamente tendere le mani; per un sistema distinto ci vuole una qualità d’impegno capace di questioni e spirituali e materiali: produttori e distributori differenti, che si assumano rischi, e professionisti edotti. Purché una tale epica di sistema non si distacchi però dalla realtà (dai veri orizzonti politici, ad esempio, italiani, europei o magari sovrannazionali), in retoriche elucubrazioni autoreferenziali che non hanno alcuna attinenza col presente – e tantomeno col futuro. È importante (a perfezione del discorso) riferirsi allo stato della società (o società territoriali, considerando “la società” come una macrocategoria, una scatola cinese, comprensiva delle altre), accorti alle condizioni sociali per capire in che verso operare: se provinciali, per il sociale e il benestare, oppure se già comunali, per il civile e il benessere.
Dice a proposito Graziano Graziani:
Io non sono assolutamente per i progetti sempiterni, o per le persone [e i valori che rappresentano] che stanno quarant’anni in un luogo […] magari semplicemente basta cambiare città [o nazione/i] e portare il proprio progetto da un’altra parte. Il tema del ricambio […] è un altro di quelli che ci dimentichiamo, ma è sempre presente”. Esempi che esortano ce ne sono: Platform A35, […] idea di ricercare nel territorio nazionale, e non solo, giovani coreografi, la cui ricerca mostra nuovi processi creativi, ma anche la società in mutamento che in essi necessariamente si rispecchia […], Crossing the Sea, […] è un progetto d’internazionalizzazione dello spettacolo dal vivo con lo scopo di creare e consolidare collaborazioni di lungo termine tra Italia e paesi asiatici e del Medio Oriente […], finanche […] l’esperienza di FineEstate Festival, oggi denominato In Italia-International Network, che rappresenta una rete di nove soggetti italiani che operano ormai da sette anni. L’esperienza si è sviluppata, prima di tutto, sulla base di una condivisione progettuale; i direttori si riuniscono, partecipano assieme a festival e focus internazionali, seguono e condividono le produzioni di artisti con determinate caratteristiche. Il Network ha stabilito delle relazioni solide con tutti gli istituti di cultura europei, in particolare con quello francese, con il quale è stato costruito un rapporto di confronto e di scambio in tutti questi anni. Tutto ciò ha ottenuto anche un risultato virtuoso dal punto di vista economico.
E tutto questo succede quando l’atteggiamento mentale, progressivamente, cambia: la sintesi tra i valori non è facoltativa, è necessaria, e che non si ritenga mai un’offesa ma un valore aggiunto. Tema e argomenti stimolati da un seminario che maieuticamente interroga, attraverso tutti i suoi atti, come pratica propedeutica.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
I teatri di Pasolinidi Stefano Casi – giornalista, ricercatore indipendente e direttore di Teatri di Vita a Bologna –, edito da Cue Press nel 2019, è una nuova versione, riveduta e integrata, dell’omonimo testo pubblicato da Ubulibri nel 2005, premiato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro.
In uno studio dettagliato e minuzioso, arricchito da un foltissimo apparato di note, l’autore ripercorre l’intera produzione teatrale pasoliniana, ponendola in relazione con le peculiari condizioni storico-politiche e culturali da cui scaturisce, per ribaltare un assunto ancora radicato nella critica: quello della «marginalità» del teatro di Pasolini all’interno della sua opera e della sua «non-teatralità».
L’introduzione di Luca Ronconi – che ben due volte ha messo in scena Calderón (1978 e 1993), oltre che Affabulazione (1993) e Pilade (1993) – e il capitolo conclusivo (aggiornato al 2019) dedicato agli allestimenti ispirati alla drammaturgia pasoliniana basterebbero per testimoniare una fortuna e una varietà di approcci registici senza precedenti.
È la stessa modalità di riflessione pasoliniana – seguendo l’interpretazione di Casi – a connotarsi «teatralmente»:l’idea di un «nuovo teatro», in continua evoluzione, fuoriesce infatti dai cardini della scrittura drammaturgica per attraversare tutti i generi e rendere lo stesso cinema «uno spazio di colonizzazione dell’ispirazione teatrale». Di qui, il termine declinato al plurale nel titolo: sono infatti molteplici e frastagliate le direzioni in cui si articola la concezione della teatralità di Pasolini.
All’interno di questo pensiero “magmatico” è possibile però rintracciare degli elementi di continuità: sin dall’esordio a soli quindici anni con La sua gloria (1938) e poi con I Turcs tal Friúl (1944), infatti, la scena teatrale si offre a Pasolini come «spazio lancinante e doloroso, estremo e rischioso, di un’autobiografia per interposte personae, in cui potersi rispecchiare e poter confessare sé e i propri turbamenti, ma anche i propri slanci di impegno nella vita pubblica». È il tema della «Diversità» – autobiograficamente declinata in termini erotici e politici – a costituire il centro della scrittura teatrale pasoliniana: una diversità che viene marcata nei confronti della società degli anni Sessanta – avvertita come sempre più consumistica e conformistica –, e che conduce inevitabilmente i personaggi che la incarnano a un esito tragico.
Negli anni di emergenza del nuovo teatro – della sperimentazione di Carmelo Bene, del Living Theatre, di Jerzy Grotowski e poi di Eugenio Barba, Joseph Chaikin e Tadeusz Kantor –, Pasolini offre il suo contributo più maturo alla drammaturgia a lui contemporanea scegliendo la forma antica e “inattuale” della tragedia in versi: quelle scritte dall’intellettuale nel ’66 – Orgia, Affabulazione, Pilade, Bestia da stile, Porcile e Calderón – sono “tragedie borghesi” in maniera pregnante, perché tragica è la condizione della borghesia rappresentata e borghese è la stessa platea a cui Pasolini decide di rivolgersi.
Tendendo all’abbattimento della quarta parete, l’intellettuale ricerca per il suo teatro un pubblico «del tutto attivo, da coinvolgere e sconvolgere», e – prendendo a modello l’interpretazione foucaultiana del quadro di Velázquez Las meninas – mira a “risucchiare” gli spettatori all’interno della stessa scena, perché siano portati a riconoscersi nella rappresentazione, ad abitarla e a interpretarla. Nonostante il teatro di Pasolini sia un “teatro di Parola” – così come definito nel suo scritto programmatico Manifesto per un nuovo teatro (1968) – Stefano Casi insiste sulla rilevanza della dimensione corporea all’interno della sua drammaturgia.
È interessante notare come sia proprio la sofferenza corporea – un attacco di ulcera che impone a Pasolini una lunga convalescenza – a essere all’origine della scrittura delle tragedie, quasi che «la sconfitta del corpo invochi una parola nuova per esprimersi». Il complesso rapporto tra corpo e parola nella produzione teatrale pasoliniana viene allora illuminato dallo studioso alla luce di uno slogan – mutuato da un canto di contestazione dei neri americani – che proprio nel ‘66 Pasolini sceglie per richiamare anche il contesto italiano a un rinnovato impegno intellettuale e politico: «Bisogna gettare il proprio corpo nella lotta».
L’esposizione del proprio corpo equivale però per Pasolini a un’esposizione prima di tutto intellettuale, perché «il corpo dell’intellettuale è la sua opera. È un corpo-corpus. È la fisicità della creazione e delle parole». Se i veri personaggi del suo teatro sono le “idee”, i corpi dei suoi protagonisti – che soffrono, si contorcono e soprattutto danno «scandalo» – le incarnano e le rendono “azione” sulla scena.
Alla pari dei suoi protagonisti, Pasolini – che negli ultimi mesi della sua vita si presterà a performance di body art come quelle di Fabio Mauri, o ai ritratti “scandalosi” di Dino Pedriali – verrà trovato senza vita la notte tra il primo e il 2 novembre ’75 all’Idroscalo di Ostia: anche dopo la sua morte, il suo corpo straziato – punto di convergenza tra realtà e teatro – rimarrà una tangibile «testimonianza soggettiva della tragedia e atto d’accusa nei confronti dell’omologazione normalizzatrice, sotto un inatteso segno cristologico».
Contro la borghesia, l’unica dimensione umana possibile rimasta, dopo il tramonto delle classi e delle ideologie, è il corpo-corpus, arma dell’intellettuale destinata a non dare tregua al nuovo orrore dell’impero borghese: per Pasolini è la dichiarazione di guerra per un attacco ormai senza più remore, in cui decide di porsi al centro della scena con il suo corpo virtuale, le sue parole e le sue immagini destinate – da oggi – a essere scandalo, non più incidentalmente ma programmaticamente. Il punto per Pasolini diventa adesso «essere il proprio esprimersi. Parlare le cose e vivere le parole». Il concetto del «corpo nella lotta», mutuato dalla controcultura americana nei mesi della scrittura delle tragedie, ha inequivocabili connotati teatrali. Nel momento in cui Pasolini dichiara di volersi esprimere solo attraverso la vita, smussa l’affermazione precisando di volersi esprimere «con gli esempi». E se l’azione è la poesia, lo è in quanto comunicabile e comunicata, cioè in quanto azione che comunica un’azione: messinscena. […] Non è l’azione che si fa poesia, ma è la poesia che si fa azione. E la poesia che si fa azione è prima di tutto teatro, spazio che consente di gettare fisicamente il corpo nella lotta, metafora ideale del corpo nella scena. E il corpo di Pasolini, moltiplicato sulla sua scena, è quello dei suoi personaggi: di Jan che si masturba sulle rive del fiume, del Padre che si avventa col pugnale per uccidere il Figlio, dell’Uomo che tortura la Donna e la Ragazza e poi si impicca travestito… Le tragedie di Pasolini sono sequenze di corpi in lotta con sé stessi e con le parole che ne succhiano i confini fisici come nei quadri di Bacon, piegando e piagando corpi gettati sulla scena, dove si consuma la lotta feroce fra il sé e le parole. «Il teatro diventa anche il luogo in cui la parola combatte con il corpo, lo espone ma nello stesso tempo lo dichiara tragicamente irrecuperabile».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
Impronte di una danza – Storia d’amore fra teatrodanza e abilità differentiè un testo edito da Cuepress nel 2021, curato dalla coreografa Julie Ann Anzilotti, fondatrice e direttrice della Compagnia XE. Il testo continua l’opera di testimonianza iniziata da In mezzo alle Margherite – storia di un incontro fra teatrodanza e abilità differenti(Ed. NoiAutori 2013) del progetto PERSONAE, che dal 2000 vede la compagnia impegnata in un lavoro laboratoriale dedicato a giovani e adulti con disabilità psico-fisiche.
Quello che inizia come progetto di integrazione e socializzazione che coinvolge il Comune di San Casciano Val di Pesa, dove la compagnia risiede, e le zone limitrofe, finisce per diventare uno dei punti chiave della ricerca portata avanti da XE. Nel libro è possibile trovare riflessioni dei performer che hanno preso parte al progetto e le testimonianze dirette delle loro famiglie, oltre che una teatrografia degli spettacoli messi in scena dal 2004 al 2019, corredata da foto e approfondimenti. Una parte del saggio è riservata a un focus relativo alla rassegna di teatrodanzaSe Io Fossi Te, nata nel 2010 in risposta all’esigenza di confronto e dialogo con realtà nazionali e internazionali che lavorassero per integrare linguaggi artisti e abilità differenti. Tra coloro che hanno preso parte all’iniziativa vi è Adam Benjamin, coreografo e insegnante fondatore della Candoco Dance Company, realtà inglese composta da performer disabili e non.
Abbiamo intervistato Julie Ann Anzilotti, curatrice del libro e coreografa della Compagnia Xe, per gettare uno sguardo più intimo sulla storia del progetto PERSONAE dal punto di vista di chi l’ha visto nascere.
Personae è un progetto che unisce pratica artistica e integrazione di adulti diversamente abili dal 2000. Ti andrebbe di raccontarci la nascita del fortunato connubio e se sia possibile definire XE pioniere di questa sperimentazione in Italia?
Il progetto nasce 21 anni fa quando il Comune di San Casciano Val di Pesa chiede alle tre compagnie residenti, ovvero la nostra Compagnia XE, Arca Azzurra di Ugo Chiti e Katzenmacher di Alfonso Santagata, di fare un laboratorio per i giovani diversamenti abili della zona. Noi eravamo l’unica compagnia che si occupava di danza. Inizia il laboratorio, una compagnia di teatro terminerà lì l’esperienza perché la parola non si stava dimostrando lo strumento adatto. La seconda compagnia produce un video del laboratorio, mentre noi continuiamo perché troviamo nella danza e nel gesto la giusta possibilità di comunicazione. Negli anni di laboratorio successivi, all’assistente sociale e all’educatrice si affiancheranno anche due danzatrici della compagnia diventate danzaterapeute.
E dopo 4 anni, la prima apertura al pubblico, seppur si trattasse di un pubblico “protetto” formato da amici e parenti, con lo spettacolo NOI PINOCCHI. Di lì in avanti abbiamo prodotto uno spettacolo ogni due/tre anni, e abbiamo cominciato anche a girare. I primi festival erano incentrati in modo specifico al lavoro con la disabilità, ma poi siamo arrivati anche ad essere inseriti in stagioni di danza considerate “normali” e non del settore, riscontrando anche un grosso successo di pubblico. L’incontro tra Teatrodanza e abilità differenti è diventato per noi una storia d’amore. Mentre in ambito teatrale c’erano già altre esperienze che si occupavano di integrazione di ragazzi diversamente abili, come ad esempio Enzo Toma e Antonio Viganò, nell’ambito della danza penso che XE sia stata la prima in Italia a lavorare in questo senso. La Candoco in Inghilterra faceva un lavoro simile, ma occupandosi solo di disabilità fisica, mentre con noi hanno lavorato persone con disabilità fisiche e mentali, anche molto gravi.
Nel testo racconti come, una volta iniziato il percorso, ti sei resa conto che le cose che nascevano potevano essere condivise sotto forma di spettacolo fruibile da un pubblico, da dove viene questa necessità?
La necessità nasce dal fatto che per me qualsiasi esperienza è sempre un lavoro equiparabile a quello con la compagnia. Era comunque un laboratorio, ma presto sono diventate prove. Trovo che andare in scena sia fondamentale per la crescita non solo artistica ma anche personale. Questi ragazzi venivano sempre tenuti un po’ nascosti, emarginati. Mentre dopo aver visto quanto fossero forti e simpatici su un palcoscenico, la gente li fermava per strada non più per compassione quanto per congratularsi di quanto fossero stati bravi. Andare in scena regala la gioia della trasformazione e dell’esposizione, dell’essere apprezzato.
Amore e Tempo sembrano essere un fil rouge di tutti i tuoi lavori, come li hai declinati in occasione di PERSONAE e che significato hanno per te?
È vero, amore e tempo sono i temi su cui lavoro sempre, quindi era naturale affrontarli anche in questo contesto, declinandoli in vari modi. Mentre riguardo all’amore avevo meno dubbi circa l’accoglienza che il gruppo avrebbe riservato all’argomento, sul tempo temevo avrei avuto più difficoltà perché più astratto. Sorprendentemente, invece, è stato ben compreso e approfondito, nessun limite a riguardo.
Se io fossi te, quando è nata l’esigenza di allargare il lavoro ad altre compagnie e quali sono stati i risultati?
La rassegna Se io fossi te è nata dalla nostra esigenza di scambiare esperienze… se non vedi cosa fanno gli altri non cresci mai. La prima edizione risale al 2010, 10 anni dopo l’inizio dei laboratori. Eravamo maturi abbastanza per diventare una sorta di capofila nel settore. Non è stato un lavoro facile.
Nel libro si può leggere un bellissimo contributo di Adam Benjamin in occasione dell’ultima edizione della rassegna, che parla di un rapporto di reciprocità, di dare e avere tra le persone di un gruppo di lavoro. Cosa senti di aver dato e di aver ricevuto in questi anni?
Sono molto d’accordo con questo modo di vedere il lavoro. Tra le cose più importanti che l’esperienza mi ha regalato sento di dire l’allenamento all’imprevisto e il riconoscere la forza della fragilità, che è stata una grossa scoperta. Di solito, soprattutto in ambito artistico, la fragilità è qualcosa da nascondere e camuffare. Ma che potenza può avere invece regalarla in scena?
Come senti siano cambiati i tempi dal 2000 quando hai iniziato ad oggi, quando si parla di arte e disabilità?
Nel 2000 era difficile far capire alle persone quanto potenziale artistico ed espressivo avessero dei ragazzi diversamente abili, far capire che anche loro potevano essere artisti. Oggi almeno è una possibilità che viene presa in considerazione, in certi contesti. Sono stati fatti passi da giganti, ma c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto quando parliamo di integrazione tra performer disabili e non. Io trovo sia una cosa estremamente preziosa e per niente scontata. Noi ci siamo riusciti perché abbiamo avuto la fortuna di trovare danzatori propositivi, pieni di fiducia e che soprattutto si divertissero facendolo. È stato un innamoramento reciproco.
Le precedenti amministrazioni comunali avevano già stabilito la residenza della Compagnia Xe nel nostro prezioso Teatro Niccolini, raggiungendo il grande traguardo di aver inserito gli spettacoli del progetto Personae nel cartellone per gli abbonati del teatro. Mi sento di volere e dovere proseguire questo cammino per concretizzare finalmente una parola spesso abusata quando si parla di disabilità, ovvero la parola integrazione. L’amministrazione comunale, con l’inserimento dello spettacolo in cartellone, vuole favorire l’opportunità della reale integrazione tra i nostri ragazzi e il pubblico normodotato. Come genitoresono felice che attraverso questa operazione teatrale, tutte le persone possano finalmente godere dell’emozione che produce il connubio fra disabilità e bellezza artistica, che devono e possono convivere. Come madre posso testimoniare che l’incontro con il teatro, sia da fruitore prima che da attore poi, ha funzionato nel riservare uno spazio all’anima inquieta di Timothy in un contenitore accogliente e adatto alla sua natura. Guardando e recitando sfoga e realizza quella parte di sé che altrimenti non avrebbe collocazione proprio perché leggermente, come suol dirsi, fuori di testa. La mente di mio figlio Timothy è sempre costretta a limitarsi per produrre azioni e comportamenti adeguati alla socialità delle persone comuni e solo raramente si può dilatare fino a esternare dei ritratti nascosti dentro di sé, sconquassati e a volte incomprensibili perfino a se stesso. La recitazione diventa l’operazione necessaria per l’attivarsi dell’azione coraggiosa di uscire da quel guscio, che tende a comprimere ogni cosa per il quieto vivere del disabile nella società. Entrare in un personaggio diverso dal ‘solito sé’, con la consapevolezza di farlo perché questa trasformazione avviene su un palcoscenico e davanti a un pubblico, dal quale alla fine si riceve addirittura approvazione attraverso l’applauso, è un’operazione di crescita fantastica. Per un carattere come quello di Timothy, tendenzialmente amante del protagonismo e della socializzazione a trecentosessanta gradi e per tutte le ragioni che ho appena espresso, il teatro è un vero toccasana. È azione terapeutica, è impegno relazionale di gruppo e infine è gioco. Non a caso la lingua inglese usa lo stesso vocabolo per indicare recitazione e gioco: to play. Come mamma di Timothy non posso che provare anch’io divertimento nel vedere mio figlio che recita, uscendo allo scoperto, per gioco. Il passo successivo di me genitore, come avviene dopo una seduta dallo psicologo, è cercare di trovare i modi per accogliere le tematiche incandescenti che bruciano dentro di lui e che attraverso l’attività teatrale sono finalmente emerse. La grande abilità di Julie Ann e dei collaboratori della Compagnia Xe, nel progetto Personae, sta proprio nel dare questa grande possibilità ai ragazzi che vi partecipano, restituendo comunque al pubblico comune uno spettacolo artisticamente bello, da vedere e da ascoltare. Ed è per questo che non finirò mai di ringraziare Julie Ann e tutta la Compagnia per l’impegno che da anni impiegano in questa complessa operazione. Maura Masini, madre dell’attore Timothy Ward Booth Assessore alle Politiche per lo sviluppo culturale, Comune di San Casciano Val di Pesa
Nasce in provincia di Siracusa nel 2000 e affianca la maturità classica allo studio in ambito performativo frequentando l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dove ad oggi frequenta il corso Danzatore e persegue uno studio personale circa la storia della performance digitale e le sue future declinazioni. Il suo primo studio coreografico Else_or the january blues debutta a giugno 2021 in occasione del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25 negli ambienti di Spazio Rossellini a Roma.
Altri corpi / nuove danze, edito da Cue Press nel 2019, «[…] si compone di tante voci e tanti sguardi» come preannuncia nei ringraziamenti Andrea Porcheddu, autore del volume, critico e studioso teatrale, realizzando una perfetta sintesi tra forma e contenuto di un testo avente la prerogativa di raccontare la diversità. Si tratta di un’antologia di saggi critici e interviste ad artisti, un percorso dal generale al particolare che approfondisce le ricerche in ambito di danza contemporanea portate avanti da e con performer con disabilità. Partendo dallo sguardo dello spettatore, per poi occuparsi delle testimonianze di danzatori normodotati che hanno ricercato nel campo, fino alle parole di performer con disabilità, si indaga la funzione del corpo nella danza contemporanea, cosa possa ancora comunicare e che coscienza abbia di sé. Per parlare di ciò, si parte per l’appunto dai corpi considerati diversi, non categorizzabili, anomali rispetto a una norma accademica, e dalla danza nuova che hanno sviluppato dagli anni novanta ad oggi.
Ph Francesco Pierantoni
Roberto Giambrone, critico di teatro e danza, nel saggio intitolato Il disagio di essere sani. Perché la danza ci aiuta a vivere meglio racconta della tendenza del nuovo secolo a riportare la danza a una realtà più quotidiana, non più appannaggio dei soli artisti, ma di corpi non convenzionali che hanno una forte necessità di portare nella scena le loro esperienze di vita. Nella sua testimonianza in conversazione con Flavia Dalila D’Amico, per esempio, Tanja Erhart – danzatrice disabile già membro della Candoco Dance Company – spiega quanto sia per lei catartico e autodeterminante concedere al pubblico di poterla fissare sul palco, permettendole di emanciparsi dai preconcetti che circondano la disabilità e la danza.
È il fondatore della stessa Candoco Dance Company, Adam Benjamin, ad affrontare il problema del pregiudizio nell’intervista di Doralice Pezzola. Nel 1991 crea insieme alla danzatrice Celeste Dandeker la prima compagnia di professionisti abili e non. In un panorama dove a essere applaudita era sempre l’intenzione e mai il lavoro coreografico, Benjamin esplora le possibilità di incontro tra corpi diversi che danzano insieme e sovvertono i ruoli convenzionali: dar voce a un performer disabile non significa scendere a compromessi con la qualità del lavoro.
Il punto di vista di Michela Lucenti, fondatrice della compagnia Balletto Civile intervistata da Porcheddu, è in questo senso trasversale. Partendo dal presupposto che ogni corpo sia in possesso di un certo numero di segni e problematiche, il lavoro con performer disabili è diverso solo in tempistica da quello dei performer normodotati. Per i primi, evidenziare la propria unicità è il solo modo di comunicare qualcosa, mentre i secondi devono combattere contro la tendenza a nascondere le peculiarità per rispettare un canone istituzionalizzato.
Flavia Dalila D’Amico, studiosa nel campo delle arti visive e performative, videomaker e redattrice, nelle sue interviste pone sempre la domanda: «Può la pratica artistica essere uno strumento di autodeterminazione per l’individuo in termini artistici e sociali?». La risposta è quasi sempre un sicuro sì. Come spiega la coreografa Yasmeen Godder, lavorare con il corpo fa emergere attitudini ed emozioni che influenzano la propria prospettiva sulla vita. O come risponde la performer Chiara Bersani, Premio Ubu 2018 come migliore attrice under 35, la pratica artistica presuppone un richiamo a confrontarsi con il mondo.
Un’altra tematica affrontata dal testo è il problema legato alle carenze di accessibilità per performer disabili. Oltre alle immaginabili barriere architettoniche che rendono inaccessibili ancora molti edifici, anche lo spazio scenico avrebbe bisogno di essere incluso nel piano di accessibilità, immaginando un palco, una platea e un dietro le quinte adatti a diverse circostanze.
Altri corpi / nuove danze è un’analisi di quello che la scena contemporanea ci offre, affiancata anche da un ricco compendio di titoli utili ad approfondire il tema a fine libro e una folta galleria di immagini. Un ottimo modo per avvicinarsi alle realtà italiane ed estere che da anni ricercano la materia della danza in quanto comunicazione tra corpi diversi, intrattenimento e condivisione.
Pezzola: Abbiamo bisogno di parole nuove per confrontarci con la diversità? Benjamin: Non so. Penso però che abbiamo bisogno di una nuova educazione e di un modo nuovo di insegnare. Ci sono molti buoni esempi in questo senso, ma viviamo in un momento in cui l’educazione sta diventando sempre più conservatrice. Non so cosa succeda in Italia, ma nel Regno Unito gli insegnanti subiscono sempre più pressioni perché seguano un determinato programma di studi, e hanno sempre meno tempo a disposizione per incoraggiare nuove modalità di pensiero. Invece, abbiamo bisogno di trovare modi nuovi per insegnare l’empatia. Non attraverso i libri, né attraverso i computer: possiamo insegnare l’empatia solo condividendo lo stesso spazio in tempo reale con persone reali. E le scuole dovrebbero riconoscere questa necessità, rendendola centrale nel percorso educativo. Ma è molto difficile sostenere questa causa, sia nelle scuole che nelle università.
Pezzola: Quale potrebbe essere la specificità della danza in questo processo? Benjamin: Quando pensiamo alla danza, di solito ci riferiamo alla danza contemporanea o al balletto. Ossia, alla danza come tecnica. È affascinante, invece, notare quanto la danza contemporanea più recente sia incentrata su come comunichiamo o non comunichiamo. L’allenamento di questi danzatori è spesso molto prescrittivo, hanno studiato duramente la tecnica, e alla fine vogliono lavorare su come «essere differenti». Per nove anni ho dialogato con il sistema universitario ma, appena un anno dopo che me ne sono andato, ho incontrato i miei studenti e mi hanno detto che non facevano più improvvisazione. Certo, l’improvvisazione, così com’è concepita, spesso non insegna molto: insegna invece quando abbiamo a che fare con differenze reali. Ed è qui la bellezza dei lavori inclusivi. Quel che succede, infatti, è che le persone sono costrette a ripensare, a riconsiderare, a guardare alle loro azioni in relazione a qualcosa di reale, piuttosto che, per esempio, fare cose strane, guardare strani edifici per elaborare forme strane, o tentare del floorwork con un oggetto. Anche se ci sono poche persone in grado di praticarla veramente, l’improvvisazione è per me uno strumento di insegnamento straordinario: può dare indicazioni meravigliose non soltanto ai danzatori, ma a chiunque.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Giuliano Scabia col Gorilla Quadrumàno, il cantastorie e i musici sulla cima della Pietra della Bismantova
Marco De Marinis è professore di discipline teatrali all’Università di Bologna ed è stato responsabile scientifico del Centro Teatrale Universitario La Soffitta. Nella sua lunga carriera di studioso ha pubblicato numerosi libri di teoria e storia del teatro, con particolare riferimento ai rivolgimenti del secolo scorso.
Un’elaborazione tutt’ora in divenire e attenta alla scena contemporanea, basti ricordare che nel 2020 è stato pubblicato da Editoria&Spettacolo Per una politica della performance, saggioche si interroga sul ruolo delle arti performative a favore dell’inclusività e dell’interculturalità nella comunità a venire.
Tuttavia alcuni dei testi più datati e noti, comeIl nuovo teatro 1947-1970, risultano oggi introvabili nonostante le diverse edizioni stampate. Per questo la scelta diCue Press di rendere nuovamente disponibile, a più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione, Al limite del teatro, utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni Sessanta e Settanta, mappatura di una primissima storicizzazione delle esperienze dell’avanguardia negli anni ’60 e ’70, risulta particolarmente importante.
Oltre alla nuova introduzione di Moni Ovadia, il libro è composto di tre parti piuttosto diverse tra loro. La seconda raccoglie alcuni saggi basati sulla ricerca storica, che rintracciano delle tendenze novecentesche come il conflitto tra regia e attore o il rapporto ambiguo con i classici. La terza parte è quella più eccentrica: il breve cammino delle avanguardie viene raccontato attraverso l’accostamento di foto e citazioni, è un viaggio emozionale che De Marinis ha saputo sapientemente comporre.
La prima parte invece contiene diversi saggi scritti tra il ’74 e il ’77 non destinati alla pubblicazione accademica, in cui De Marinis è coinvolto in quanto sta accadendo, ragion per cui è percepibile il calore della vicinanza e di un punto di vista “di parte”, accompagnati chiaramente da un grande bagaglio di conoscenze e da una scrittura puntuale.
Questi saggi rappresentano quindi un resoconto in “presa diretta” degli accadimenti e soprattutto delle diverse tendenze che già si stavano delineando dopo la crisi, ossia dopo che il teatro è giunto al suo limite (come recita il titolo del libro), alla profonda messa in discussione della propria forma ed esistenza.
D’altronde la premessa dell’autore, risalente alla prima pubblicazione del 1983, si apre così: «Questo libro racconta di un teatro che non c’è più’». Oltre a questo, aggiungeremmo, traccia i primi percorsi della dissoluzione in atto.
Il primo, più radicale, è quello imboccato da alcuni componenti del Living Theatre che già all’inizio dei ‘70 abbandonano il teatro in favore dell’azione politica tout court. C’è poi l’apertura interdisciplinare ad altri linguaggi artistici, passando da Robert Wilson alla Gaia Scienza e i Magazzini Criminali in Italia, strada quanto mai battuta nei decenni successivi. Carmelo Bene con il suo Romeo e Giulietta si ripiega nel metateatro, inteso come «mortifero straparlare su una rappresentazione sentita ormai come improponibile».
L’Odin Teatret porta avanti una sorta di doppio binario: da un lato l’esibizione della soggettività degli attori, chiusa in sé e autosufficiente, che si nega al confronto con il pubblico (sarebbe qui interessante cercare i punti di contatto con il reality trend), dall’altro gli interventi nei paesi della Barbagia, basati sul baratto tra interventi teatrali della compagnia e manifestazioni artistiche da parte delle popolazioni locali.
È proprio quest’ultimo tipo di approccio, quello del «teatro di animazione» o teatro sociale, che sta più a cuore a De Marinis. D’altronde furono in tanti a seguire quella strada oltre all’Odin: l’altra metà del Living Theatre con il viaggio in Brasile, Peter Brook in Africa, Grotowski con il concetto di swieto e, soprattutto, Giuliano Scabia.
L’attività di Scabia è quella che viene maggiormente approfondita nel libro, un saggio gli è dedicato interamente e spesso prende spazio anche negli altri, come neLa società della festa. Utopia festiva e ricerca teatrale, da cui è scelto l’estratto qui pubblicato.
La festa è un tema che De Marinis esamina con cura e interesse, prendendo le mosse dai lavori del sociologo Duvignaud e del filosofo Dufrenne. Ne traccia un profilo teorico, da cui la festa emerge come momento rivoluzionario e di rottura delle norme; delinea una storia dei maggiori momenti festivi dei movimenti giovanili in Italia, riconoscendo in Parco Lambro la crisi e la sclerotizzazione; la applica infine alla ricerca teatrale.
La festa allora potrebbe essere proprio quel tentativo di fare teatro con le persone, nelle comunità, fuori dall’istituzione, mettendo in discussione i canoni della rappresentazione e ricercando l’espressione autentica di sé attraverso un’esperienza di scambio. Una possibilità che pensiamo sia ancora attuale, nonostante la grande distanza che ci separa da quegli anni pieni di energia rivoluzionaria.
Al limite del teatro, utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni Sessanta e Settanta, un estratto:
Un altro modo per proseguire il discorso sulla festa nella prospettiva additata da Duvignaud, e ripresa, come abbiamo appena visto, da Dufrenne, potrebbe essere quello di studiare i rapporti fra l’utopia della festa e quel filone della sperimentazione teatrale contemporanea che va comunemente sotto il nome (per altro infelice e, oggi, quanto mai equivoco) di «animazione teatrale», e che (almeno nei suoi esempi più rigorosi e consapevoli) si è posto prioritariamente il problema dell’uso del teatro come strumento (non autoritario) di intervento culturale, cioè come mezzo per radicarsi nel tessuto delle collettività e per instaurare con i gruppi sociali proficui e continuativi rapporti di comunicazione e di scambio. Realizzare la festa per mezzo del teatro: potremmo sintetizzare con questa frase il programma dell’animazione teatrale (o meglio, di quella parte di essa che qui ci interessa). È una frase che diventa forse qualcosa di più di una immagine bella (ma anche ambigua) se − come ormai siamo in grado di fare − espungiamo dalla nozione di festa le usuali connotazioni mitico-arcaico-rituali per intenderla invece come l’espressione culminante di ciò che potrebbe essere una pratica utopica dell’arte e della politica. Quanto si cerca di fare nelle esperienze più importanti e rigorose di animazione teatrale (abbandonando l’Istituzione Teatro e tutto ciò che essa comporta, usando il teatro, attraverso una sua continua dilatazione, come mezzo per radicarsi nelle comunità, per [ri]-attivare lo scambio culturale e la comunicazione primaria fra i gruppi) va infatti nella direzione (auspicata appunto dal Dufrenne) di una negazione dell’attività artistico-culturale come istituzione separata, privilegio di pochi, e di una sua trasformazione in pratica sociale generalizzata e permanente, nella quale siano associati in modo inscindibile il fare e il veder-fare, il produrre e il consumare l’arte (e il teatro). In fondo a questa strada, Dufrenne (come abbiamo visto) pone − simbolo gioioso dell’utopia realizzata − la festa. Prendiamo ad esempio l’esperienza condotta lungo l’arco di molti mesi (fra il 1974 e il 1975) da Giuliano Scabia e dal suo Gruppo del Gorilla Quadrumàno in varie località della Penisola, prevalentemente (ma non esclusivamente) montane e contadine (prima nell’alto Appennino Reggiano, poi altrove), e anche fuori d’Italia (al Festival di Nancy nel maggio del 1975). A prima vista, osservata secondo un’ottica tradizionale, questa esperienza potrebbe apparire, per più versi, ‘un passo indietro’, una involuzione, un ritorno al ‘prodotto’ teatrale e a tutte le sue trappole (divisione fra attori e spettatori, passività del pubblico, ecc.): ci sono infatti dei testi scritti (Il Gorilla Quadrumàno, Il Brigante Musolino: testi detti «di stalla», in quanto scritti dai contadini emiliani, qualche lustro addietro, per essere rappresentati nelle stalle, durante le «veglie» invernali) e questi testi vengono anche messi regolarmente in scena. Ma basta guardare un po’ più da vicino e più attentamente, basta cogliere il contesto di attività e di operazioni in cui gli spettacoli del Gorilla o del Musolino sono inseriti, per capire che è proprio ciò che agli spettacoli sta intorno, che li precede e li segue, a essere la cosa più importante degli interventi attuati da Scabia e dal suo gruppo e che lo spettacolo (realizzato del resto in maniera volutamente ‘semplice’, anche se precisa) va considerato pertanto alla stregua di uno stimolo-pretesto (forse il più vistoso, ma certamente non il solo) di cui si servono per creare situazioni di aggregazione, per cercare di «costruire tessuti di socialità e luoghi di identificazione collettiva anche attraverso minuziose ricerche di ambiente». Non è dunque casuale e senza significato il fatto che − come nelle società primitive − sia lo scambio, il potlatch (sorta di dono rituale e reciproco) a costituire molto spesso il momento culminante delle feste in cui sfociano, dopo il superamento dei reciproci riserbi, questi incontri con le comunità: all’offerta, da parte dei teatranti-animatori, del ‘teatro’ e delle immagini di una cultura poco o per nulla conosciuta, e comunque sempre in qualche modo estranea (in quanto legata ad altri sistemi di produzione e di comunicazione), le comunità rispondono dando in cambio le forme della cultura propria alla loro storia e alla loro esperienza: canti, balli, musiche, poesie, canzoni, ecc., spesso recuperati per l’occasione dai recessi della memoria collettiva. È accaduto a Scabia e al suo gruppo in molti dei paesi visitati con il Gorilla (e, prima e dopo, con il Teatro Vagante); è accaduto − per citare un’altra esperienza molto interessante − all’Odin Teatret di E. Barba durante il suo soggiorno in Barbagia e nel Salento, nel 1974 (e 1975).
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
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