Parola d’ordine? Collaborazione! L’esperienza di Antonino Pirillo e Giorgio Andriani

Parola d’ordine? Collaborazione! L’esperienza di Antonino Pirillo e Giorgio Andriani

Rispetto alla coralità della loro direzione artistica del Teatro Biblioteca Quarticciolo, Antonino Pirillo e Giorgio Andriani si sono resi artefici di una virtuosa decostruzione dell’idea di direzione artistica “intesa come competenza di una singola figura, per aprirla a visioni diversificate che operano in sinergia”. Quali sono le azioni da mettere in pratica nella realizzazione di questo nobile intento? I fondatori dell’Associazione Cranpi ci hanno rivelato il loro segreto, espresso da una parola solo apparentemente di uso comune.

Antonino e Giorgio, da quasi otto anni condividete un percorso professionale dedicato alla produzione e alla comunicazione delle performing arts. Come si sono incontrate le vostre strade?

G. La nostra collaborazione è precedente a questi ultimi 8 anni di assidua collaborazione. Ci siamo conosciuti circa 13 anni fa, mentre lavoravamo per la stessa Compagnia. Io mi occupavo della produzione, Antonino della comunicazione e dell’ufficio stampa, condividendo questo percorso per circa tre anni.  In questo contesto abbiamo vissuto un’esperienza che ci ha permesso di testare una nostra più stretta collaborazione – che allora ci sembrava solo una pallida possibilità – partecipando creativamente alla realizzazione di una rassegna di drammaturgia contemporanea focalizzata su testi inediti internazionali. Da lì abbiamo deciso di creare qualcosa di nostro e non per un bisogno puramente imprenditoriale, piuttosto avevamo più bisogno di dedicare tempo, energie e soprattutto tutta l’esperienza maturata negli anni precedenti, in un progetto in cui potevamo identificarci maggiormente da un punto di vista creativo. Così è iniziata la nostra avventura con Cranpi.

Dal 2015, Cranpi è un vero e proprio laboratorio di produzione e promozione di spettacoli di drammaturgia contemporanea, una realtà virtuosa che dal 2021 è sostenuta anche dal Ministero della Cultura. Quali sono, però, le maggiori difficoltà riscontrate nella produzione di drammaturgia contemporanea e quali, invece, i riscontri?

G: Tutti i nostri progetti nascono da una necessità, cioè da un incontro con artiste e artisti con cui decidiamo di sceglierci, più che da un’esigenza meramente produttiva. Non c’è ombra di dubbio che diverse difficoltà nascano da questa scelta, tuttavia, fu il nostro primo progetto produttivo, La classe di Fabiana Iacozzilli, ad avere la storia più travagliata. Nel 2016 avevamo avviato un lavoro di indagine artistica e drammaturgica, ma anche produttiva, intorno a questo spettacolo. Come accade per la maggior parte dei giovani progetti, anche questo spettacolo aveva partecipato a diversi premi e concorsi, arrivando sempre o in finale o a una menzione speciale. Ovunque ricevevamo la medesima risposta: il nostro progetto avrebbe meritato la vittoria, ma non sarebbe stato adatto al mercato italiano. Non ci siamo fatti demoralizzare, attirando l’attenzione di Maura Teofili, che ha pensato di dare un’occasione a La classe nel suo Anni Luce a Romaeruropa Festival.

A. Abbiamo dunque debuttato nel 2018 al Romaeuropa Festival e da lì sono successe tante cose. Nello specifico di questo spettacolo, quindi, la co-produzione con il Teatro Vascello, successivamente la vittoria di In-Box nel 2019, le candidature e la vittoria del premio Ubu nello stesso anno per il miglior progetto sonoro, la partecipazione a Primavera dei Teatri di Castrovillari nel 2019, che ha poi in un certo senso consacrato a livello di critica e di pubblico questo spettacolo. Ci chiedono ancora repliche per il 2024, quindi di fatto è ormai diventato quasi un classico di Fabiana Iacozzilli | Cranpi. Questo è un unicum, rispetto alla drammaturgia contemporanea, che invece soffre di diverse problematiche, a partire dall’assenza di spazi dedicati; per fortuna ci sono direttori di festival teatri e Circuiti teatrali illuminati in grado di creare spazi e opportunità.

E voi avete trovato la vostra strada al Teatro biblioteca Quarticciolo. Come siete approdati a una delle borgate storiche di Roma?

G. Io e Antonino non siamo romani, quindi anche l’opportunità di occuparci di un teatro pubblico e in particolare al quartiere Quarticciolo è stata una sfida che abbiamo raccolto, nonostante non conoscessimo bene il tessuto urbano e sociale. Ci siamo subito immersi in questo contesto studiandone e vivendone le potenzialità e le mancanze, la vitalità e le problematiche. Inizialmente la gestione è iniziata con una collaborazione che non prevedesse la nostra direzione artistica; tuttavia, dalla fine del 2019 abbiamo pensato che se avessimo voluto portare avanti un lavoro specifico e funzionale avremmo dovuto avere una corrispondenza anche dal punto di vista artistico, quindi nel 2020, insieme a Valentina Marini, Valentina Valentini e Federica Migliotti, con un nuovo bando di assegnazione abbiamo ottenuto l’affidamento della direzione artistica oltre che gestionale del Teatro Biblioteca Quarticciolo.

A. Come diceva Giorgio, io sono calabrese, però trovatomi al Quarticciolo mi sono sentito subito a casa, in empatia con un quartiere che chiede di essere studiato, compreso, mai giudicato. È sorprendente riuscire a stabilire una relazione con un posto che non è quello di nascita, ma che piano piano lo diventa. Non bisogna, però, pensare al Quarticciolo come un teatro di quartiere, come d’altra parte non bisogna pensare che sia un teatro come qualsiasi altro teatro cittadino. Cerchiamo pertanto di restituire questa specificità attraverso una programmazione nella quale risuoni il contesto e le sue domande, nei temi per esempio. Anche la campagna di comunicazione è pensata ad hoc coinvolgendo addetti ai lavori e cittadini del quartiere e del Municipio V in una narrazione comunitaria e ironica.

Un’altra delle vostre virtù risiede nella capacità di coltivare rapporti lavorativi di lunga data, arrivando a costruire una rete artistica florida e virtuosa. Secondo voi oggi avere alle spalle una rete solida come la vostra può fare la differenza? E soprattutto, come si crea oggi una rete?

A. Tutte le relazioni che siamo andati a costruire negli anni sono state sempre molto lente, ma frutto di una sincera attenzione e di una lealtà che operatori e artisti hanno riconosciuto. La nostra rete è nata da una stima reciproca con gli operatori in maniera naturale, con la voglia di realizzare dei progetti insieme. Powered by REf, ideato da Maura Teofili, raggruppa molti partner romani e laziali da Carrozzerie | n.o.t ad ATCL, da Periferie Artistiche a 369gradi: un progetto che dà la possibilità concreta a giovanissimi artisti/compagnie under 30 di portare avanti la propria ricerca.

G. Da tre anni ospitiamo all’interno della nostra programmazione la rassegna Condivisa co-realizzata con Fortezza est, che è un altro spazio necessario nel quartiere Torpignattara, con cui abbiamo sentito una affinità per il nostro interesse alla drammaturgia contemporanea. Molte altre sono le collaborazioni a livello cittadino e nazionale, grazie alle quali scopriamo nuove compagnie, intessendo un rapporto di condivisione artistica. Condividere con gli artisti e non esserne semplicemente produttori, fa sì che la relazione con l’artista diventi una collaborazione artistica produttiva.

Quali sono i progetti in cantiere?

A. Siamo lieti di parlare di un progetto in particolare, perché quest’anno abbiamo vinto il bando biennale dell’Estate Romana 23/24. Dal 14 luglio avrà luogo tra l’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo e il Goethe-Institut il frutto di questo lavoro, il festival multidisciplinare Sempre più Fuori. Si tratta di un programma molto vasto. Si parte così da evergreen contemporanei come gli spettacoli MDLSX di Motus oppure Teatro naturale? Io, il couscous e Albert Camus del Teatro delle Ariette, Sex Machine di Giuliana Musso, Save the Last Dance for Me del coreografo Leone d’Oro Alessandro Sciarroni o ancora l’installazione Precipitazioni sparse, che l’artista Bruna Esposito ha presentato alla Biennale di Venezia 2005, per arrivare a formati multimediali di artisti emergenti quali SO HUMAN-La mia vita da pianta, la digital audio performance sui temi ambientali nel quartiere a cura di Arterie, Autoritratti in tre atti, la lecture performance dell’artista sordo Diana Anselmo del collettivo Al.Di.Qua. Artists., l’associazione di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo con corpi disabilitati, Every Burns, il concerto della compositrice e cantautrice R.Y.F, e This is a Male Nipple. Am I Censored Enough?,la mostra fotografica sulla censura del corpo femminile sui social di Irene Tomio.

In collaborazione con Biblioteche di Roma la presentazione poi del romanzo Premio Strega nel 2015 La ferocia di Nicola Lagioia (in dialogo con Francesca De Sanctis), accanto a quella del volume Lost in Translation. Le disabilità in scena, che ripercorre le storie del rapporto tra disabilità e arti performative della giovane ricercatrice Flavia Dalila D’Amico.

Sempre più fuori prevede anche la proiezione (sottotitolata per la comunità sorda) di un cult del cinema italiano come il memorabile ritratto di un’Italia di fine anni ’70, Le vacanze intelligenti, di Alberto Sordi; un dj-set di musica elettronica con Silvia Calderoni; il laboratorio riservato ai danzatori Save The Last dance for me  e quello per studenti e abitanti del Municipio II Radio Frammenti; una visita guidata all’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo in LIS, promossa negli appositi canali grazie all’ENS e alla collaborazione con l’associazione Al.Di.Qua. Artists., consulente in materia di accessibilità. 

Infine in entrambe le location è previsto uno stand enogastronomico a cura dello storico ristorante di Centocelle La Cantina di Dante che propone piatti rivisitati della cucina romana.

G. Abbiamo sentito la necessità di creare una nuova sinergia, integrandoci in un tessuto urbano diverso, e godendo della possibilità di portare fuori quello che facciamo ogni giorno a teatro. Abbiamo anche in questo caso curato un rapporto di stima reciproca e apertura con una nostra spettatrice affezionata, Julia Draganović, direttrice dell’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo, un luogo meraviglioso percepito come una roccaforte nel deserto. Ed ecco che al suo bisogno di aprire le porte della sua realtà, abbiamo abbinato il nostro di uscire dal seminato e intraprendere un nuovo progetto artistico.

A livello produttivo, continuano le collaborazioni con artisti con cui collaboriamo da diversi Fabiana Iacozzilli (a novembre a Romaeuropa Festival verrà presentata la “Trilogia del Vento”: “La classe”, “Una cosa enorme” e l’ultimo capitolo dal titolo, in prima nazionale, “Il grande vuoto”); Andrea Cosentino; Federica Migliotti; Paola  Di Mitri e Davide Crudetti (sempre a Romaeuropa Festival presenteremo “Da qui in poi ci sono i leoni” una videoistallazione con la partecipazione dell’artista Alfredo Pirri). Grazie al nostro interesse per la creatività emergente, abbiamo iniziato nuovi percorsi con la giovanissima compagnia napoletana Putéca Celidònia che ha debutto con Felicissima Jurnata a Primavera dei teatri) e Greta Tommesani (attualmente in allestimento con Ca-ni-ci-ni-ca che debutterà ad Anni Luce/REf).

Si può dire che anche per “Sempre più fuori” la parola d’ordine è “collaborazione”. Ma dopo averne parlato diffusamente in questa intervista, sapreste darmene una definizione?

A. Produrre in Italia oggi significa spesso mettere al mondo figli solo per poter dimostrare di essere fertili. Noi, invece, abbiamo sempre cercato di essere produttori creativi, affettuosi e sapienti, ed è quello che spesso insegniamo in diversi workshop in giro per l’Italia. Per noi collaborazione è confronto e il confronto con l’artista è importante perché per portare avanti un progetto è necessario riconoscersi in ciò che si produce. Né io, né Giorgio interveniamo direttamente sulla parte artistica, però porre delle domande, insinuare un tarlo nella mente creativa dell’artista e sentirsi parte attiva del progetto è indice di una relazione sana e alla pari.

La Classe, un docupuppets per marionette e uomini. Intervista alla regista Fabiana Iacozzilli

La Classe, un docupuppets per marionette e uomini. Intervista alla regista Fabiana Iacozzilli

Al Teatro Argot Studio di Roma, dal 12 al 17 e poi dal 22 al 24 febbraio, è andato in scena La Classe di Fabiana Iacozzili alla regia insieme al collettivo CrAnPi. L’opera è contraddistinta da una grammatica complessa e poliedrica che assume le forme di un docupuppets, in cui i ricordi della regista, vengono portati sul palcoscenico attraverso l’ausilio di marionette.

La narrazione drammatica è incentrata sull’esperienza della regista e dei suoi compagni di classe alle elementari, all’interno dell’Istituto Suore di Carità e della loro maestra: Suor Lidia.

“Si tratta di un processo lungo, quasi di analisi, perché il mio lavoro è iniziato due anni fa con l’idea di raccontare questo episodio dell’infanzia all’interno di questo istituto di suore. All’inizio sapevo l’argomento ma non sapevo ancora come svilupparlo. Così, in prima battuta, ho sentito l’esigenza di andare a ricreare quella comunità che era la mia classe: ho contattato tramite Facebook buona parte dei miei compagni di scuola, di cui solo una parte ha accettato di essere intervistata. È interessante come alcuni si ricordassero delle cose, mentre altri avevano dimenticato le più importanti e dolorose. Ho avuto modo di riflettere sul senso della memoria: ognuno di noi decide di ricordare o decide di abbandonare i propri ricordi nel luogo oscuro del proprio sé. Una volta intervistati, ho accumulato tutto questo materiale ed ho iniziato a pensare alla messa in scena. Sono arrivata al teatro di figura per due necessità fondamentali: la prima è che avevo bisogno di un linguaggio che non mi facesse cadere nel rischio del sentimentalismo, era molto rischioso vista la materia in questione; l’altra ragione è perché mi serviva qualcosa che universalizzasse un episodio invece biografico. Sono arrivata all’intuizione della marionetta che per così dire porta in sé qualcosa di assoluto, senza patetismo, e mi sembrava la giusta strada da percorrere per uno spettacolo che parla di bambini vessati. Sempre perché volevo cercare degli agganci che mi facessero uscire dal fatto autobiografico ho iniziato a studiare molto I Cannibali di Tabori e a prendere spunto da La Classe Morta di Kantor.”

Fiammetta Mandich è la scenografa e la realizzatrice delle marionette, create a immagine e somiglianza dei suoi compagni grazie a vecchie fotografie. Le marionette si muovono su banchi su ruote, su una scena che alterna luci soffuse e momenti di buio profondo. Nel buio, come fantasmi, si odono le voci registrate di quei compagni di classe ormai cresciuti: ridono, commentano aspramente, ricordano nostalgicamente o con rabbia e qualcuno non potrà dimenticare mai la sofferenza e l’umiliazione. Echeggiano come fantasmi, dove invece le marionette esprimono un’umanità con cui è impossibile non empatizzare. Merito anche del talento degli attori e marionettisti, che gestiscono alla perfezione una scenografia complessa e in costante evoluzione per tutto il corso dello spettacolo.

“Ovviamente quando sono partita ho avuto il bisogno di chiamare dei professionisti: io fino a questo momento avevo fatto tutt’altro. Ho studiato moltissimo ma avevo comunque bisogno di qualcuno che mi mostrasse la strada. Loro sono cinque: tre di loro sono dei professionisti della figura (Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore), e, siccome sentivo il bisogno di avere anche degli attori Marta Meneghetti, che ha collaborato alla drammaturgia ed è da anni nella compagnia e infine Francesco Meloni, un bravissimo performer che si è prestato, come Marta, alla figura.”

Ma a venire dall’alto non è soltanto la voce dei compagni ormai cresciuti, ma anche la voce di Suor Lidia che risuona nella sala come la voce di un Dio severo e impietoso. Le marionette tremano, chinano il capo, e vengono tirate, quasi strappate. Le terribili punizioni fisiche, le umiliazioni verbali, il ritratto di una scuola che sembra non sparire mai. Ma Suor Lidia non è soltanto bieca violenza e vessazione: nelle parole nei compagni e nei ricordi della regista, suor Lidia è una madre imperfetta, nel suo nubilato costretta come nel ruolo di maestra, un’educatrice antiquata.

“Ho cominciato a lavorare volendo raccontare gli abusi che avevo subito e di conseguenza sono partita da un forte odio nei confronti di questa figura determinante nella mia vita; poi andando avanti ho trovato la chiave dello spettacolo nel momento in cui ho abbandonato la rabbia iniziale e mi sono resa conto che era uno spettacolo che parlava di vocazioni, la mia e la sua e di come il comportamento della suora abbia influito sulla mia vita. Sono riuscita a raccontare più sfaccettature di questa suora nel momento in cui ho ritrovato la suora in me.”

Anche Fabiana Iacozzilli racconta la sua durezza e severità come regista e lo spirito materno latente, ricordando il primo spettacolo e come Suor Lidia, fino a quel momento aguzzino delle proprie vittime, l’abbia sostenuta amorevolmente. “Una cosa che mi piacerebbe che accadesse e a volte accade è che esci dallo spettacolo e ti chiedi: chi è la mia suor Lidia? Oppure: io sono la suor Lidia di qualcun altro?”

L’esperienza con il teatro di figura e il confronto e la coesione in un unico lavoro di plurimi linguaggi aprono un’interessante parentesi sullo scetticismo rispetto ad un opera incentrata sulla drammaturgia dell’immagine.

“È un anno e mezzo che lavoro con questo linguaggio e secondo me questo è uno spettacolo non di marionette, ma con marionette perché c’è tanto altro. Detto questo, la cosa che mi ha un po’ scioccata è che in Italia ci sia una così forte divisione fra il teatro e il teatro di figura. Sono rimasta interdetta. Il teatro di figura si associa troppo spesso al teatro per bambini e trovo che in Italia questo sia un limite rispetto al resto dell’Europa”.