Un Teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale

Un Teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale

Il professor Oliviero Ponte di Pino, già conosciuto ai frequentatori e alle frequentatrici dell’ambiente teatrale, ci offre una sua nuova pubblicazione in cui risuona la trentennale esperienza in ambito editoriale (Ubulibri, Rizzoli, Garzanti).  L’approfondita conoscenza dei media spettacolari lo ha condotto,  negli anni, alla scrittura su giornali e riviste, alla realizzazione di trasmissioni radiofoniche e televisive per la RAI, all’ideazione di festival e mostre, e alla conduzione di Piazza Verdi (Radio3 RAI), fino alla stesura “di getto”, come egli stesso la definisce, di Un Teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale edizioni Franco Angeli, durante il lockdown tra il 20 dicembre 2020 e il 6 gennaio 2021.

L’esperienza di isolamento quasi totale, con i luoghi di spettacolo chiusi per circa un anno, senza una biblioteca raggiungibile, ha obbligato Ponte di Pino a una ricerca quasi esclusivamente dipendente da una connessione web per riempire i vuoti di memoria. Fortunatamente la creazione nel 2001 del sito atreatro.it, che dal 2004 cura Le Buone Pratiche del Teatro con Mimma Gallina), e dal 2012 il programma di BookCity Milano (con Elena Puccinelli), fondando nel 2017 il portale Trovafestival (con Giulia Alonzo), ha permesso di redigere una sintesi di quello che è accaduto nei primi vent’anni del XXI secolo, da un punto vista privilegiato.

La celebrazione dei vent’anni di ateatro.it ha fornito il pretesto per questa retrospettiva che si misura con un paradosso. Da una parte l’esplosione del teatro nell’ultimo decennio ne ha permesso l’uscita dai luoghi deputati per prendere forme molto diverse, spesso imprevedibili, invadendo molti ambiti che gli erano estranei, nello spazio urbano e naturale ma anche nella società. Nel 2020, però, la pandemia ha vietato, cancellato, reso impossibile qualunque forma di spettacolo al di fuori del piccolo schermo. La retrospettiva di Un Teatro per il XXI secolo nasce da una ricchezza di stimoli e di memorie, da una grande nostalgia e sostanzialmente, da un grande vuoto. 

Il libro si presenta in forma modulare e schematica, un mosaico che prova a registrare le mutazioni di questo nuovo ventennio, considerando sempre il teatro come oggetto di riflessione, per cui la discriminante scelta da parte dell’autore risulta chiara: “vengono privilegiate le esperienze che ne mettono in discussione la natura e le funzioni”.

Ogni anno, dal 2001 al 2019, viene “etichettato” secondo una comoda classificazione che offre tre punti di vista. La sezione #Inteatro offre gli spettacoli o le esperienze teatrali particolarmente significativi, che hanno segnato un’innovazione, l’apertura di una prospettiva inedita, l’emergere di un nuovo talento. Per quanto riguarda gli spettacoli stranieri, vengono presi in considerazione nell’anno della loro prima apparizione in Italia. Questo implica l’assenza di numerosi spettacoli e artisti emergenti della scena internazionale, che non hanno avuto visibilità nel nostro paese. 

In #Extrateatro si classificano gli eventi che più si sono posti al centro del dibattito pubblico, o che suggeriscono una riflessione sulla sua natura e sulla sua funzione, nello scenario della cultura contemporanea. Vengono inoltre segnalati alcuni volumi che hanno avuto un impatto particolarmente significativo nella riflessione sul senso del teatro oggi e che possono offrire un’utile “cassetta degli attrezzi” per chi voglia confrontarsi con le mutazioni della scena contemporanea. #Ateatro riunisce dei focus sulle attività sviluppate in questi vent’anni da Ateatro, fonte di informazioni, ma anche una lente (soprattutto con le Buone Pratiche) per seguire l’evoluzione del sistema, evidenziando le sue criticità.

Al 2020, l’hannus horribilis della pandemia, è dedicato il capitolo finale. L’emergenza sanitaria, con il blocco pressoché totale degli spettacoli, ha evidenziato le fragilità economica e identitaria del settore, ha spinto alcuni soggetti alla ricerca di soluzioni creative, ha imposto una diversa consapevolezza del rapporto tra reale e virtuale, tra presenza e streaming. È da qui che dobbiamo ripartire, se non vogliamo che tutto torni come prima, ma molto peggio…”

L’interrogativo generatosi negli anni precedenti al 2020 si radicalizza: “quale può essere il ruolo dello spettacolo dal vivo nella società contemporanea, colonizzata dal digitale?”. Se da una parte le avanguardie e i movimenti della seconda metà del Novecento si erano definiti soprattutto sulla base del contenuto degli spettacoli e delle modalità di lavoro, in reazione al “vecchio teatro”, i nuovi generi mettono l’accento sulla relazione, sul rapporto con il pubblico: 

“Il teatro si è fatto immersivo, di interazione sociale e di comunità, one-on-one, onlife, partecipato, performativo, in residenza, di sensibilizzazione, sociologico… Emblematica è la parabola dell’aggettivo “politico”, che non si riferisce più alla trasmissione di un messaggio o di una ideologia, e nei casi più triviali alla propaganda, ma guarda piuttosto al ruolo del teatro all’interno della polis, come strumento per creare partecipazione, inclusione, cittadinanza. Cambia anche la posizione dello spettatore. Non si tratta più di guardare e consumare un prodotto culturale, che i mediatori critici si preoccupano di inserire nel contesto che lo ha generato, per valutarlo ed eventualmente consigliarlo. Non basta più accompagnare il viaggio della produzione, nelle sue varie tappe, una volta che l’accento è passato dall’opera al processo. Chi prende parte a molte delle esperienze raccontate in queste pagine deve mettersi in gioco in prima persona, come partecipante attivo, abbandonando la distanza critica rispetto all’oggetto. Nel momento stesso in cui documenta questa esperienza, l’osservatore ne è parte integrante.”

Queste nuove esperienze si esprimono basandosi sul principio di indeterminazione proposto da Heisenberg: il fatto stesso di osservare un processo, lo cambia. Quando la distanza dal fenomeno si fa troppo piccola, le regole della fisica classica non valgono più. L’autore definisce ’“osservazione partecipata” la capacità di guardarsi mentre si partecipa ad un evento, registrando le proprie reazioni e quelle del pubblico mentre si è parte attiva del processo. Essere un testimone che interagisce in questo modo con l’ambiente circostante implica esserne responsabile. Questo sguardo sensibile avrà modo di notare le sperimentazioni artistiche, le condizioni economiche e politiche della produzione, percependo l’impianto culturale in quanto fonte di progresso e idee.

Un Teatro per il XXI secolo

Altri corpi / nuove danze, il linguaggio della Non-Convenzione

Altri corpi / nuove danze, il linguaggio della Non-Convenzione

Articolo a cura di Carla Andolina

Altri corpi / nuove danze, edito da Cue Press nel 2019, «[…] si compone di tante voci e tanti sguardi» come preannuncia nei ringraziamenti Andrea Porcheddu, autore del volume, critico e studioso teatrale, realizzando una perfetta sintesi tra forma e contenuto di un testo avente la prerogativa di raccontare la diversità. Si tratta di un’antologia di saggi critici e interviste ad artisti, un percorso dal generale al particolare che approfondisce le ricerche in ambito di danza contemporanea portate avanti da e con performer con disabilità. Partendo dallo sguardo dello spettatore, per poi occuparsi delle testimonianze di danzatori normodotati che hanno ricercato nel campo, fino alle parole di performer con disabilità, si indaga la funzione del corpo nella danza contemporanea, cosa possa ancora comunicare e che coscienza abbia di sé. Per parlare di ciò, si parte per l’appunto dai corpi considerati diversi, non categorizzabili, anomali rispetto a una norma accademica, e dalla danza nuova che hanno sviluppato dagli anni novanta ad oggi. 

Ph Francesco Pierantoni

Roberto Giambrone, critico di teatro e danza, nel saggio intitolato Il disagio di essere sani. Perché la danza ci aiuta a vivere meglio racconta della tendenza del nuovo secolo a riportare la danza a una realtà più quotidiana, non più appannaggio dei soli artisti, ma di corpi non convenzionali che hanno una forte necessità di portare nella scena le loro esperienze di vita. Nella sua testimonianza in conversazione con Flavia Dalila D’Amico, per esempio, Tanja Erhart danzatrice disabile già membro della Candoco Dance Company spiega quanto sia per lei catartico e autodeterminante concedere al pubblico di poterla fissare sul palco, permettendole di emanciparsi dai preconcetti che circondano la disabilità e la danza.

È il fondatore della stessa Candoco Dance Company, Adam Benjamin,  ad affrontare il problema del pregiudizio nell’intervista di Doralice Pezzola. Nel 1991 crea insieme alla danzatrice Celeste Dandeker la prima compagnia di professionisti abili e non. In un panorama dove a essere applaudita era sempre l’intenzione e mai il lavoro coreografico, Benjamin esplora le possibilità di incontro tra corpi diversi che danzano insieme e sovvertono i ruoli convenzionali: dar voce a un performer disabile non significa scendere a compromessi con la qualità del lavoro.

Il punto di vista di Michela Lucenti, fondatrice della compagnia Balletto Civile intervistata da Porcheddu, è in questo senso trasversale. Partendo dal presupposto che ogni corpo sia in possesso di un certo numero di segni e problematiche, il lavoro con performer disabili è diverso solo in tempistica da quello dei performer normodotati. Per i primi, evidenziare la propria unicità è il solo modo di comunicare qualcosa, mentre i secondi devono combattere contro la tendenza a nascondere le peculiarità per rispettare un canone istituzionalizzato. 

Flavia Dalila D’Amico, studiosa nel campo delle arti visive e performative, videomaker e redattrice, nelle sue interviste pone sempre la domanda: «Può la pratica artistica essere uno strumento di autodeterminazione per l’individuo in termini artistici e sociali?». La risposta è quasi sempre un sicuro sì. Come spiega la coreografa Yasmeen Godder, lavorare con il corpo fa emergere attitudini ed emozioni che influenzano la propria prospettiva sulla vita. O come risponde la performer Chiara Bersani, Premio Ubu 2018 come migliore attrice under 35, la pratica artistica presuppone un richiamo a confrontarsi con il mondo.

Un’altra tematica affrontata dal testo è il problema legato alle carenze di accessibilità per performer disabili. Oltre alle immaginabili barriere architettoniche che rendono inaccessibili ancora molti edifici, anche lo spazio scenico avrebbe bisogno di essere incluso nel piano di accessibilità, immaginando un palco, una platea e un dietro le quinte adatti a diverse circostanze.

Altri corpi / nuove danze è un’analisi di quello che la scena contemporanea ci offre, affiancata anche da un ricco compendio di titoli utili ad approfondire il tema a fine libro e una folta galleria di immagini. Un ottimo modo per avvicinarsi alle realtà italiane ed estere che da anni ricercano la materia della danza in quanto comunicazione tra corpi diversi, intrattenimento e condivisione.

Pezzola: Abbiamo bisogno di parole nuove per confrontarci con la diversità?
Benjamin: Non so. Penso però che abbiamo bisogno di una nuova educazione e di un modo nuovo di insegnare. Ci sono molti buoni esempi in questo senso, ma viviamo in un momento in cui l’educazione sta diventando sempre più conservatrice. Non so cosa succeda in Italia, ma nel Regno Unito gli insegnanti subiscono sempre più pressioni perché seguano un determinato programma di studi, e hanno sempre meno tempo a disposizione per incoraggiare nuove modalità di pensiero. Invece, abbiamo bisogno di trovare modi nuovi per insegnare l’empatia. Non attraverso i libri, né attraverso i computer: possiamo insegnare l’empatia solo condividendo lo stesso spazio in tempo reale con persone reali. E le scuole dovrebbero riconoscere questa necessità, rendendola centrale nel percorso educativo. Ma è molto difficile sostenere questa causa, sia nelle scuole che nelle università.

Pezzola: Quale potrebbe essere la specificità della danza in questo processo? Benjamin: Quando pensiamo alla danza, di solito ci riferiamo alla danza contemporanea o al balletto. Ossia, alla danza come tecnica. È affascinante, invece, notare quanto la danza contemporanea più recente sia incentrata su come comunichiamo o non comunichiamo. L’allenamento di questi danzatori è spesso molto prescrittivo, hanno studiato duramente la tecnica, e alla fine vogliono lavorare su come «essere differenti». Per nove anni ho dialogato con il sistema universitario ma, appena un anno dopo che me ne sono andato, ho incontrato i miei studenti e mi hanno detto che non facevano più improvvisazione. Certo, l’improvvisazione, così com’è concepita, spesso non insegna molto: insegna invece quando abbiamo a che fare con differenze reali. Ed è qui la bellezza dei lavori inclusivi. Quel che succede, infatti, è che le persone sono costrette a ripensare, a riconsiderare, a guardare alle loro azioni in  relazione a qualcosa di reale, piuttosto che, per esempio, fare cose strane, guardare strani edifici per elaborare forme strane, o tentare del floorwork con un oggetto. Anche se ci sono poche persone in grado di praticarla veramente, l’improvvisazione è per me uno strumento di insegnamento straordinario: può dare indicazioni meravigliose non soltanto ai danzatori, ma a chiunque.