Marco Plini porta in scena Turandot con l’Opera di Pechino. Dal 5 al 10 febbraio al Teatro Argentina
Dal 5 al 10 febbraio sul palco del Teatro Argentina, Marco Plini si confronta con la tradizione dell’Opera di Pechino nella rivisitazione del classico della Turandot. Lo spettacolo è un sottile gioco di specchi tra due mondi, lontani in apparenza, ma reciprocamente attratti e affascinati l’uno dall’altro, perché entrambi eredi di civiltà antiche, sofisticate e misteriose a un tempo. Da un lato, dunque, la raffinata arte attoriale dell’Opera di Pechino, sublime mescolanza di recitazione, danza e canto, tesa a una continua perfezione del gesto artistico; dall’altra, invece, lo sguardo prospettico d’invenzione tutta italiana, il gusto visionario e la lunga sapienza d’ordire scene illusionistiche, abilità divenuta patrimonio del teatro europeo. Con Turandot prosegue la fortunata esperienza italo-cinese del Faust, rinnovando il vivo confronto tutto teatrale tra Asia ed Europa.
Favola per antonomasia dell’esotismo orientale, ricca di colpi di scena, agnizioni e promesse ferali, Turandot è divenuta nel tempo – da Gozzi a Puccini – l’emblema del nostr o immaginario sulla grande Cina. «Tūrāndokht», ovvero la fanciulla di Tūrān: la storia della principessa bella e temibile, orditrice di inganni, prende le mosse nella terra dei tur, una parte sterminata di quella che oggi chiamiamo Asia centrale, in un angolo imprecisato a nord dell’Iran. Nel pieno medioevo, sul finire del 1100, la nostra eroina vive tra Persia e Russia, frutto della penna del poeta Niẓāmī e quarta protagonista del suo poemetto Le sette principesse: è la principessa della Slavonia che rifiuta il matrimonio con ogni pretendente giunto alla sua porta. All’inizio del Settecento l’orientalista François Pétis de la Croix traspone la favola in lingua francese, ed è così che quella vicenda, tanto violenta e intrisa di passioni doppie e contraddittorie, giunge nelle sapienti mani di Carlo Gozzi, che – in continua sfida con Goldoni – trasforma Turandot in una principessa cinese e ne fa una delle sue mirabili fiabe teatrali per le scene veneziane, gioielli della narrazione meravigliosa affidati alle cure dei comici dell’arte. Dalla Venezia di Gozzi, Turandot giunge pure nelle pianure della Germania di Schiller, che le ridona una veste poetica, e i suoi versi ammaliano le successive generazioni di compositori, fino a che Giacomo Puccini ne consacra la vicenda sul palcoscenico del Teatro alla Scala. È il 25 aprile 1926, quando i cuori degli spettatori milanesi sono travolti dalla potenza del Nessun dorma, in cui il pretendente Calaf, vincitore dei tre enigmi e custode con Liù e Timur del suo segreto, rigonfia il petto e intona a noi tutti il suo «all’alba vincerò».
«Il fascino dell’Opera di Pechino è il fascino di una bellissima favola per bambini animata da imperatori, principi e principesse tutti molto rispettosi dei loro ruoli – racconta Marco Plini – È così che l’ho approcciata, nel rispetto di un teatro secolare che porta sul palcoscenico un’antropologia viva, con la soggezione del novizio invitato a partecipare a un rito antico e misterioso. Turandot nasce da questo rispetto, da questa curiosità e da questo mistero. Ho immaginato di portare il pubblico europeo a entrare in un sogno bellissimo e colorato che non possiamo capire fino in fondo, ma le cui immagini ci attraggono e risucchiano in un vortice di colori brillanti e suoni rumorosissimi, che man mano prendono senso, un senso profondo, atavico, che ci colpisce nel profondo ma a cui non riusciamo a dare un nome. Come i principi che si recano a palazzo per cercare di risolvere gli enigmi nella speranza di poter sposare la principessa di incomparabile bellezza, restiamo stregati da un’immagine che incanta. Ma Turandot è una favola nera, fatta di sangue, teste tagliate, vendette e paure. Il sogno, atto dopo atto, si trasfigura, diventa sempre più violento, più spaventoso: la fiaba diventa allucinazione. Un sogno così non può avere un lieto fine, la morte di Liù non può essere dimenticata nel nome dell’amore per quanto folle e principesco esso sia. […] Ho immaginato un giardino della classicità che potrebbe ricordare i quadri di Delvaux, in cui sorge un palazzo fatto solo di colonne di marmo. In questo giardino, anziché gli uomini piccolo-borghesi di Delvaux, arrivano i personaggi mitici della tradizione cinese, un po’ spiazzati, certo, ma ugualmente compresi nel loro ruolo di imperatori e principesse, con i loro movimenti codificati e immutabili nel tempo per rappresentare il desiderio di vendetta e la follia omicida di Turandot. In questo mondo entrerà un Calaf che, come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, arriva in un luogo di favola e ne viene ammaliato come in un incantesimo che lo fa sentire un eroe fino alla morte della fedele Liù. Il sacrificio della serva che sceglie il suicidio piuttosto che rivelare il nome a Turandot, cambierà irrevocabilmente l’atmosfera del sogno. Turandot è una meravigliosa figura, il nume tutelare di questo mondo colorato e inquietante che sembra essere la sua stessa emanazione, irraggiungibile nella sua bellezza, è crudele e fragile come una bambina, estrema nelle sue posizioni come i personaggi dei sogni e, come tale, è destinata a restare per sempre imprigionata nel mondo delle fiabe».
La Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino, fondata nel gennaio 1955, è una organizzazione nazionale che fa capo direttamente al Ministero della Cultura della Repubblica Popolare Cinese. Il primo presidente fu il grande maestro Mei Lanfang. Attualmente l’Opera di Pechino consiste di tre troupes. Lo scambio culturale è uno dei maggiori obiettivi della compagnia, che si è esibita in tutto il mondo, in oltre 50 paesi e in 5 continenti, guadagnando una straordinaria fama internazionale. Attraverso la sua attività l’Opera di Pechino ha contribuito a promuovere gli scambi culturali fra il popolo cinese e i popoli del mondo intero.
MARCO PLINI:
Marco Plini debutta come regista nel 2002 con lo spettacolo Risveglio di Primavera di Frank Wedekind al Teatro Stabile di Torino. Nel 2004 presenta alla Biennale Teatro a Venezia, Purificati di Sarah Kane. Dirige Il lutto si addice a Elettra di Eugène O’Neil (2005) al Festival del Teatro Romano di Trieste, Turisti e Soldatini di Wole Soyinka e Benvenuti in California di Francesca Angeli per il Centro Teatrale Bresciano. Dal 2005 alterna l’attività di regia all’insegnamento, iniziando a collaborare continuativamente come docente di recitazione per la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e nei Corsi di Alta Formazione Teatrale organizzati da Emilia Romagna Teatro Fondazione. Nel 2012, sempre per ERT Fondazione, dirige il Cantiere per attori di formazione/produzione che ha come esito lo spettacolo Ifigenia in Aulide da Euripide. Stretta è dunque la sua collaborazione con ERT, per cui nel 2011 realizza lo spettacolo Freddo di Lars Noren, cui segue La Serra di Harold Pinter (2015) in coproduzione con il Teatro Metastasio di Prato. Per il Centro Teatrale MA MI MO nel 2012 firma la regia di Himmelweg di J. Mayorga e nel 2016 di Coriolano di W. Shakespeare. Per il Teatro Stabile dell’Umbria ha diretto nel 2015 Thyssen di Carolina Balucani. Nel suo percorso artistico continua ad alternare l’interesse per la drammaturga contemporanea alla rivisitazione dei classici in un’ottica moderna e strettamente collegata al presente e alla riflessione sulla società.
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