L’anima che danza. Intervista a Raphael Bianco della Compagnia EgriBiancoDanza
Come si trasforma la percezione fisica e sensoriale dello spazio quando cambia la dimensione scenica dei luoghi? Aree e superfici che, di volta in volta, possono ospitare una performance pensata e progettata indipendentemente da una precisa tipologia di teatro con le sue specifiche caratteristiche.
Il primo dato che possiamo ricavare è che l’ambiente determina (e condiziona) la qualità del movimento. Ancor prima di muovere tutte le parti del corpo coinvolte, la Danza è un incontro e un gioco di sguardi con il pubblico, tra danzatori e, primo fra tutti, con lo spazio da scoprire, da esplorare.
Quello che si determina non è un concetto di Danza “nuova”, laddove potrebbero bastare un cambio d’abito o di scenografia, in senso didascalico. È un approccio e un percorso di ricerca consapevole mediante il quale il pubblico e i danzatori diventano compagni di viaggio. In un luogo reale e, al tempo stesso, immaginario. Come un immenso oceano che accoglie i navigatori concedendo loro insidie e opportunità.
Ne abbiamo parlato con Raphael Bianco che dirige insieme con Susanna Egri la Compagnia EgriBiancoDanza, nata a Torino nel 1999. La produzione artistica si è distinta e caratterizzata, nel corso degli anni, per la capacità di coniugare il richiamo sociale e spirituale, con grande versatilità e qualità artistica. Il 26 settembre la Compagnia EgriBiancoDanza sarà ospite del Festival Internazionale di Danza Contemporanea Paesaggi del Corpo di Velletri, con Lo spazio dell’anima. La performance sarà presentata presso la Casa delle Culture e della Musica, uno spazio che si caratterizza per le sue attrattive storiche e artistiche, dove l’arte e la natura si incontrano e si uniscono realizzando una perfetta sintesi armonica.
Come è stato concepito e qual è stato il processo di realizzazione de Lo spazio nell’anima?
Lo spazio dell’anima nasce nel 2018 come lavoro site specific per il Festival Mirabilia. Un lavoro che oltre alla ricerca coreografica presentava anche una ricerca musicale sviluppata dal compositore Diego Mingolla. Siamo partiti dall’idea di rappresentare in danza diversi stadi dell’interiorità umana, attraverso l’esplorazione fisica dell’anima. Ho identificato immediatamente una musica, il Quintetto per archi in do maggiore Op.163 D.956 di Franz Schubert. Con Diego, abbiamo deciso che la musica di Schubert avrebbe concluso la performance mentre una serie di sezioni musicali per archi, da lui composte, che destrutturavano il Quintetto di Schubert, avrebbero accompagnato la danza. Da una sonorità destrutturata e frammentata alla struttura compiuta, delicata, fragile e allo stesso potente del Quintetto.
Viceversa, per il percorso coreografico ho chiesto ai danzatori di scegliere un animale che nelle varie culture avesse valenze simboliche particolari. Partendo dall’idea degli archetipi, e in particolare degli animali (archetipici o totemici), abbiamo scandagliato attraverso il corpo i loro atteggiamenti, o meglio, la percezione conservata nell’animo umano della loro essenza. Strumento principale della ricerca sono state le improvvisazioni guidate che hanno permesso di dialogare con i danzatori e trovare assieme le soluzioni coreografiche che poi ho in parte ridefinito. E così abbiamo creato: il lupo, il camaleonte, la giraffa, il pavone, la fenice, il gatto. Figure concrete seppur conservate nell’immaginario umano, nell’inconscio collettivo.
Da questa concretezza e struttura definita ho assemblato vocabolari differenti, traghettando la ricerca in una dimensione sempre più astratta e più rarefatta. Al contrario della musica, la danza parte da una struttura definita e si frammenta sino alla rarefazione. Sta di fatto che alla fine della performance resta la musica, impalpabile ma presente, e del corpo nulla più rimane. Come se la musica si intrecciasse con l’ultima parte della danza e ne rappresentasse la parte più incorporea, identificandosi con l’ultimo stadio del percorso coreografico.
Nel titolo è contenuta un’anticipazione circa i due concetti chiave della performance: spazio e anima. Un viaggio nello spazio e un viaggio nell’anima, quanto possono essere simili e quanto diversi?
In realtà non esistono due dimensioni separate ma al contrario la performance esplora idealmente quel luogo, quello spazio misterioso dove l’anima “sta” e “agisce”. Tanto è vero che abbiamo definito lo spazio mettendo il pubblico al centro della performance, in un cerchio magico dove ogni spettatore ha una sua particolare prospettiva essendo una sorta di fila in cerchio, un trenino circolare, in cui non esiste una prospettiva concentrica per tutti ma, al contrario, ognuno vive un personale di percezione degli eventi nei vari stati della performance. I danzatori danzano all’interno e all’esterno del cerchio proprio perché lo spazio dell’anima non ha confini. Lo spazio come l’anima è difficilmente circoscrivibile: l’anima è spazio e lo spazio è anima.
Nel campo della performance, cosa è cambiato e in che modo rispetto alla distanza e alla prossimità tra spettatori e performer?
Ovviamente prima del Covid-19 i danzatori avvicinavano il pubblico, lo toccavano. Oltre alle suggestioni visive c’erano sollecitazioni fisiche che contribuivano al coinvolgimento totale e totalizzante degli spettatori. Inizialmente avevamo due cerchi di sedie, uno in senso orario e uno antiorario, per cui alcune persone vedevano il vicino e ne percepivano le emozioni: uno spettacolo nello spettacolo, ancora diverso e a sé stante. Inoltre i danzatori potevano danzare assieme, alcuni animali come il lupo e il camaleonte danzavano perennemente attaccati ma abbiamo dovuto separarli e la cosa a mio avviso penalizza un po’ la coreografia. Peraltro, oggi, il pubblico è ridotto e molti vedono la performance dall’esterno, ma esistono le suggestioni visive e sonore che comunque rendono il pezzo meno fisico, più contemplativo, metafisico, onirico e forse anche questa è una bella dimensione dato il soggetto
In un contesto storico e culturale come il nostro, profondamente caratterizzato dalla velocità e dall’ibridazione dei linguaggi, ha ancora senso parlare di pattern, di schemi e regole, di confini nelle discipline artistiche?
Io ho sempre in mente la frase di una grande coreografo, Jiří Kylian: «Datevi delle regole per poi superarle». Non credo nei confini ma credo nell’identità di una ricerca coerente con il proprio soggetto. Il corpo, il suo agire nello spazio, in un tempo e con una determinata energia è al centro della mia ricerca. Reputo straordinaria, sia per uno spettacolo teatrale sia per una performance, la possibilità di arricchire la propria indagine coreografica di stimoli e soluzioni provenienti dai più diversi ambiti dell’arte, della letteratura , della scienza o della tecnologia o di qualsiasi prodotto dell’ingegno umano (compresa la cucina), se è utile nell’economia dell’opera.
Spazio, anima e corpo. Quanto è presente quest’ultimo elemento nel tuo lavoro di ricerca coreografica e ne Lo spazio dell’anima?
È fondamentale. Il corpo di un danzatore è uno strumento meraviglioso, anche perché è il risultato di un lavoro artigianale di scultura, alfabetizzazione tecnico-gestuale e cultura dell’anima, capace di evocare messaggi, emozioni, con un solo gesto. La danza è uno dei più antichi linguaggi per comunicare col trascendente poiché il corpo è uno strumento vivo, vibrante permeato di esperienze e mistero. Per questo amo ricercare col corpo, sul corpo ed il suo rapporto con ciò che ci circonda.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.