THEATROPEDIA #10 – La Calandria, il primo spettacolo moderno
Siamo in un gran salone d’un nobile edificio (Palazzo Ducale di Urbino), seduti su delle gradinate, in ordine, noi maschi guardiamo dirimpetto, laddove sono disposte le panche, intervallate da grossi finestroni, sopra le quali sono accomodate le donne. Gli uni di fronte agli altri, tra un brusio educato, ci lanciamo vicendevolmente degli sguardi con fare timido mentre su d’un podio, in fondo, confabulano tra loro musici e danzatrici. Davanti al podio c’è un muro scenico che crea una sorta di fosso. Attendiamo si dia inizio alla rappresentazione di una commedia, La Calandria, composta dal cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena. L’attesa però non è di quelle snervanti, anzi, per alcuni sembra che lo spettacolo sia solo una fastidiosa interruzione di un momento ben più agognato. È il 1513 e i cortigiani in questi tempi si recano volentieri a questi eventi per conoscere e corteggiare le donne. Difatti le rappresentazioni teatrali, come pure le messe, spesso vengono “seguite” più per uno scopo aggregativo che per quello più specifico dell’intrattenimento. Anzi, a testimonianza di ciò, è il Salone che, lasciato libero da ogni orpello o aggeggio scenografico, è già pronto per diventare “pista” da ballo per i cortigiani. È il 6 febbraio e sono invitato alla festa preparata in onore del duca Francesco Maria I della Rovere e di sua moglie Eleonora Gonzaga ma, col senno del poi, potrei dirvi che sono presente al primo spettacolo dell’età moderna, composto da un drammaturgo, messo in scena per la prima volta da un regista e con le scene di uno scenografo professionista.
Nel mentre gli spettatori continuano a incrociarsi con gli sguardi, in scena si svolge la vicenda de La Calandria che dal punto tematico non propone nulla di nuovo, una classica commedia influenzata dal teatro romano della commedia plautina, fatta di scambi d’identità e di una serie d’agnizioni, del resto è quello che la cultura umanista dell’epoca richiede: l’adesione piena dei nuovi drammi ai fasti mitologici dell’antica tragedia greca e alla spassosa commedia romana. Tra l’altro anche il personaggio è conosciuto già tra gli intellettuali è un protagonista boccacesco del Decameron, Calandrino, uno sciocco, credulone, che si crede furbo e per questo deriso da tutti e, il protagonista dell’opera del Dovizi, oltre ad avere questo carattere finirà col subire la stessa beffa finale. Quello che sconvolge è che per la prima volta va in scena una commedia che parla di fatti all’uso moderno, in volgare e senza versi, in prosa. Per di più le scene sono costruite dall’architetto scenografo Girolamo Genga secondo le regole prospettiche e, come aveva già fatto nel 1508 a Ferrara il collega Pellegrino da Udine in occasione della messinscena della Cassaria di Ariosto, dipinge scene rappresentanti la città in cui l’opera è ambientata, Roma. Ciò che introduce per la prima volta sono le quinte completamente praticabili, tridimensionali, artificio che rende l’intero impianto scenografico molto realistico, tanto è vero che davanti ai miei occhi ci sono delle vere e proprie torri abitabili.
Se i cortigiani presenti non fossero distratti dai loro istinti sessuali, dalle tattiche di primo “abbordo”, si accorgerebbero inoltre che il flusso dello spettacolo ha davvero qualcosa di inconsueto, tra una scena e l’altra agiscono ballerini e attori con degli intermezzi non a sé stanti: sono scritti, preparati, da Baldassarre Castiglione che, come un moderno regista, li crea appositamente per collegarli alla trama della commedia del cardinale. Una cosa mai vista finora. Lo spettacolo, per la contentezza dei cortigiani pronti a danzare con la donzella penetrata per lunghi minuti con gli occhi, finisce. Niente di nuovo, un lieto fine ma possiamo dire innovatore, perché se è vero che è comunque un lieto fine, è pur vero che la commedia non finisce con il matrimonio dei protagonisti i quali, essendo fratello e sorella, devono accontentarsi di un matrimonio con personaggi minori. Mentre si dà via alle danze e la festa diventa completamente evento mondano i cortigiani sono ignari di quello che io so, col senno del poi: con questo spettacolo, inizia una nuova epoca del teatro.
L’anno successivo sono a Roma, non molto distante dal Campidoglio, mi si para davanti un grosso edificio di marmo, come il mio solito chiedo in giro ad un romano dove mi trovo, mi risponde che quello è il teatro del Campidoglio che il papa, Leone X, aveva fatto ricostruire dopo che fu smontato quello che un anno prima era servito per l’organizzazione d’una serie di spettacoli allo scopo di festeggiare la cittadinanza onoraria di Giuliano e Lorenzo de’ Medici, fratello e nipote del pontefice e dopo due giorni fu dismesso. A queste parole rimango basito, Cosa? Un teatro di 3.000 posti dismesso solo dopo due giorni? Alla mia perplessità il signore romano con una certa ironia, mi fa capire che in queste occasioni non si deve badare a spese e che i 6.000 ducati sborsati sono pure poca cosa davanti a certi avvenimenti e, toccando un angolo del teatro, mi fa notare che quello non è marmo ma legno dipinto. Lasciandolo mentre ancora è intento a parlare delle feste pontificie io attraverso un arco di trionfo, anche questo “dipinto” in marmo, è l’entrata del teatro. Oltrepassato l’arco mi si para davanti agli occhi una cavea a forma di una U ad angoli retti, una scena architettonica a due piani con una scenae frons romana. Sono a Roma nel 1500 o nel 100 d.c.? Certo che gli intellettuali di quest’epoca sono davvero rispettosi dell’epoca romana, la ritengono così perfetta che la ricostruiscono meticolosamente al punto quasi di riviverla. Ciò che mi stupisce è quello che stanno per costruire, non credo ai miei occhi, non capisco davvero l’epoca in cui sto sbalordendomi: son passate delle ore e davanti a me s’innalzano dei veri e propri corpi tridimensionali rappresentati la città di Roma, archi, obelischi, palazzi, tra i quali c’è una vera e propria via prospettica. Sono stupito e girandomi incantato chiedo ad un operatore di scena l’anno, conferma la data e mi dice che domani ci sarà la rappresentazione de La Calandria, quella che un anno prima avevo visto al Salone del trono di Palazzo Ducale ad Urbino. Dunque non solo io mi ero accorto di quell’evento, l’eccezionalità di quella rappresentazione ha varcato i confini del ducato di Urbino e ora l’architetto-scenografo Baldassarre Peruzzi sta cercando di superare il Genga nell’architettura scenica.
In vent’anni la scenografia è cambiata in un modo radicale: nel Medioevo v’erano le mansion casette scenografiche sparse per il Paese, poi hanno unito le casette per avere un’unità di luogo, dopodiché si è giunti alla scena dipinta, piatta, ed ora eccoci qui, davanti ad una scena tridimensionale. Mi salta in mente un libro su tutti, che sarà scritto nel 1537, il secondo libro d’Architettura di Sebastiano Serlio, in cui l’architetto-teorico bolognese disegna le tre scene tipo del teatro, in maniera prospettica: scena tragica, fatta di architetture mastodontiche e monumentali; scena comica, con un paesaggio urbano e popolare; scena satirica, rappresentante un ambiente naturale, in genere un bosco. Ma oltre a questo trattato che sarà il vademecum per la scenografia del futuro, il pensiero mi conduce a quello che possiamo definire l’esemplificazione pratica dello stesso libro dell’architetto felsineo: il Teatro Olimpico di Vicenza, costruito sull’interpretazione del trattato del Vitruvio, De architectura, libro dal quale lo stesso Serlio attingerà per il suo trattato.
Intanto esco dal teatro di legno, La Calandria, l’ho già vista, mi basta lo spettacolo di questa scena che cambierà le sorti della scena in tutto il mondo e forse quel signore romano aveva ragione per certe occasioni non bisogna badare a spese.