Il teatro contemporaneo a Londra è invidiabilmente vivo. È sorprendente la varietà di pubblico e la partecipazione di tutta la società civile al rito di profonda riflessione su sé stessa. Come recuperare anche in Italia la centralità del teatro e il pubblico perduto?
Monica Capuani – Ph Simona Cagnasso
Ne abbiamo parlato con Monica Capuani, giornalista, traduttrice e promotrice teatrale, all’Unione Culturale di Torino in occasione della masterclass PER+FORMARE, affrontando temi come la drammaturgia contemporanea, la responsabilità delle direzioni artistiche, il ruolo dei traduttori, delle case editrici e delle agenzie in Italia.
Ti definisci non solo una traduttrice, ma anche una scout e una promotrice teatrale: in cosa consiste il tuo lavoro?
Ho riflettuto molto su come definire quello che faccio, perché non c’è una figura come la mia nel teatro italiano e forse neanche nel teatro inglese, quindi ho dovuto inventare una formulazione nuova.Quando le persone mi definiscono un traduttore io soffro, perché lo trovo molto riduttivo. È ovvio che la traduzione è il momento centrale del mio lavoro ed è una cosa che mi piace moltissimo perché ha a che fare col linguaggio, è una grande prova di scrittura, devi affinare la tua lingua madre: sempre più spesso, quando trovo una parola che mi piace e mi sembra appropriata, vado a cercare il suo significato esatto sul vocabolario e sono contenta quando calza a pennello con ciò che volevo dire. La traduzione è una specie di sudoku, un esercizio mentale straordinario, che tiene sveglia la mente, è un continuo flusso.
Però la parte che considero più importante del mio lavoro è lo scouting, la ricerca: andare in Inghilterra – che è il mio luogo d’elezione, perché lì per me c’è il teatro migliore di questo tempo – vedere i testi rappresentati, leggere quelli che non riesco a vedere in scena e scegliere quali tradurre. La scelta rispecchia ovviamente i miei gusti: uno potrebbe scrivere la mia biografia attraverso i testi che traduco. Scelgo, ad esempio, moltissimi testi di donne.
In Inghilterra, dove ci sono tante direttrici artistiche e registe, le autrici stanno portando avanti una rivoluzione. Il teatro è il luogo del patriarcato, lo è stato in Inghilterra e lo è in Italia. Le donne scrivono cose diverse dagli uomini: per temi, linguaggi, strutture. Ci sono grandi attrici in Italia e la maggior parte del pubblico è femminile: vogliamo dare spazio a quest’altra visione del mondo?
So sarà più difficile mandarli in scena i testi di autrici che traduco, ma mi interessa enormemente perseguire questa ricerca. Infatti, a breve avvierò una serie di laboratori, WWTT, Women Writers in Today’s Theatre, dedicati esclusivamente alle donne: attrici, drammaturghe e registe che vorranno scoprire quello che le donne scrivono per il teatro nei paesi di lingua inglese. Terrò questi laboratori con un’altra donna, che farà il lavoro di acting coach. Inizieremo ad ottobre a Roma con Federica Rosellini.
Mi definisco promotore teatrale perché spesso seguo tutta la filiera, fino alla messa in scena del testo. Vado a teatro in maniera intensiva da quando avevo 11 anni e grazie alla mia attività di giornalista ho conosciuto molti attori e registi: so che un testo potrebbe essere giusto per determinati artisti e vado direttamente da loro. Gli agenti fanno un lavoro più burocratico, di organizzazione, hanno poco tempo per leggere i testi dei drammaturghi che rappresentano, perché ne hanno tantissimi.
Ho capito per esperienza che la passione che motiva gli attori o i registi è ciò che con più probabilità può portare poi un testo a produzione. Rivolgersi alle direzioni artistiche è più difficile, perché sono molto più conformiste e conservatrici. La mia evoluzione potrebbe essere nella produzione: se trovassi un socio in grado di occuparsi della parte burocratica, ovvero trovare e gestire i fondi, io mi occuperei dei contenuti.
Sei riuscita a instaurare un dialogo con il Teatro Stabile di Torino. Quali sono, secondo te, altri esempi virtuosi di direzioni artistiche in questo momento in Italia?
Sicuramente il Teatro dell’Elfo, che da 45 anni promuove la drammaturgia contemporanea. Un esempio altamente virtuoso perché loro conoscono l’inglese, vanno spesso a Londra a vedere gli spettacoli e sono anche una compagnia di attori, quindi sanno bene cosa significhi avere un testo che funzioni. Ho sentito più volte il loro pubblico dire: «Non conosco questo autore, ma mi fido dell’Elfo». È un discorso impagabile e molto raro in Italia, perché con la questione degli scambi è difficile trovare una direzione artistica chiara, che faccia fare un viaggio allo spettatore. Sarebbe bello sentire una mano forte che aiuti nella scelta.
Antonio Latella è un regista che, avendo lavorato molto nel mondo tedesco ed est-europeo, viaggia, cerca, accoglie il nuovo. Durante la sua direzione, la Biennale di Venezia ha aperto le porte a lavori che io stessa non avevo visto, è stato un vero festival.
La direzione del Piccolo Teatro di Milano negli ultimi anni ha purtroppo tradito questa missione. All’inizio ce l’aveva: con Strehler e Grassi era Teatro d’Europa, aveva grandi collaborazioni con l’estero. In questi anni ci siamo molto chiusi: servono collaborazioni con registi stranieri e il Piccolo, che aveva la potenza economica per promuoverle, lo ha fatto meno e con meno visione.
Quando, dopo il successo planetario di Disappearing Number, hanno chiamato Simon Mc Burney anche a Milano, mi sono attaccata al telefono per raccomandare a tutti gli amici teatranti di andarlo a vedere assolutamente. Però poi chiamano Declan Donnelan, un regista glorioso del passato, ma di certo non la punta di diamante dei registi inglesi del momento. È stata più meritoria la direzione artistica di Torino, che ha invitato Simon Stone con Tre sorelle non commissionato da loro ma almeno lo hanno ospitato in Italia.
Anche l’ERT con Claudio Longhi sta facendo un lavoro encomiabile. When the Rain Stops Falling, con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, dimostra che se scegli un testo di un autore australiano sconosciuto in Italia e lo fai con 8 attori ignoti al grande pubblico puoi comunque riempire i teatri. Raramente ho visto il Teatro Argentina così pieno negli ultimi anni. La ricerca premia. Non ho ancora lavorato con Longhi, ma lo stimo molto.
Confido molto, poi, nello Stabile di Genova: essendo Davide Livermore un regista che lavora molto all’estero, spero abbia interesse a far tornare Genova un polo più internazionale e aperto alla drammaturgia contemporanea.
Il tuo lavoro invisibile non termina nel momento in cui consegni un testo: assisti anche alle prove. Ci racconti il lavoro con Luca Ronconi su Fahrenheit 451?
Ronconi è stato il primo regista che anni fa ha dato per scontata la mia presenza alle prove. Lo Stabile di Torino mi ha assegnato un compenso per la traduzione, sulla quale poi avrei percepito le royalties, e ha richiesto la mia presenza una settimana in teatro.
In realtà, forse perché avevo un timore reverenziale per Ronconi, questa traduzione l’avevo limata e riscritta tante volte e, in quell’occasione sono stata una testimone silenziosa, perché non c’è stato bisogno di apportare modifiche. Fu molto bello assistere a queste prime prove a tavolino in cui leggeva il testo e lo sviscerava con gli attori, scavava nel senso. C’erano delle grandi citazioni di libri e Ronconi mi aveva chiesto di trovarne altre, diverse. Fu uno spettacolo molto bello.
Ray Bradbury stesso aveva adattato il suo romanzo per la scena, a distanza di molti anni, e lo aveva cambiato tantissimo. Con la mia casa editrice Reading Theatre curai un volume che, oltre alla traduzione del testo, conteneva un’intervista di Andrea Porcheddu a Ronconi, un diario inedito di Truffaut sul set di Fahrenheit e una mia intervista a Bradbury, che credo sia stata l’ultima: era già molto anziano. Ricordo che ero sola nella sede della casa editrice, a Roma, erano le 9 di sera, lui era a Los Angeles e urlavo al telefono, perché la figlia mi aveva detto che era completamente sordo.
Nel 2005 hai fondato la casa editrice Reading Theatre, che adesso purtroppo non esiste più. Quale dovrebbe essere, secondo te, la mission di una collana teatrale e come incentivare la lettura della drammaturgia contemporanea in Italia?
Il mio obiettivo all’epoca era proprio superare questo ostacolo, il fatto che in Italia non siamo abituati a leggere il teatro, i testi teatrali li comprano solo gli attori e i registi. Perché uno spettatore dovrebbe acquistare il testo teatrale? Perché leggere un testo come Molly Sweeneydi Brian Frielo come The Pride di Alexi Kaye Campbell, ad esempio, è un viaggio. Se vedi lo spettacolo trattieni il 60% del testo, se invece lo vai a rileggere trovi tutti i suoi rimandi interni. Se ti piace la cosa che hai visto, o se vuoi conoscerla prima di vederla, il testo è uno strumento sul quale puoi fare affidamento.
Per Reading Theatre sceglievo testi incentrati su un tema contemporaneo forte, sul quale poter riflettere anche attraverso gli altri apparati che inserivo nel libro. Cercavo di scegliere testi discorsivi, affinché leggerli fosse piacevole anche per un lettore non abituato al testo teatrale: tra una pièce di Brian Friel e un romanzo di Abraham Yehoshua a più voci non c’è tutta questa differenza. Sarebbe necessaria, soprattutto, una pratica di educazione dello spettatore. Il primo dovere dei teatri oggi dovrebbe essere recuperare il pubblico che è stato perduto, penetrando all’interno delle università e delle scuole, ma questo richiederebbe un grande investimento.
Hai tradotto in pochi anni più di un centinaio di testi contemporanei e ne hai letti molti di più: quali drammaturghi e quali testi ti stanno particolarmente a cuore e quali teatri inglesi consigli di tenere d’occhio?
I teatri che bisogna seguire sono sicuramente l’Almeida, il Royal Court, il National Theatre, lo Young Vic, l’Old Vic e il Bridge Theatre. La casa editrice Cue Press ha recentemente pubblicato una guida ai teatri inglesi scritta da Margherita Laera, che è uno strumento molto utile per orientarsi.
Per quanto riguarda i drammaturghi, Robert Icke è un mio grande amore e finché non lo vedrò rappresentato qui da noi resterà un mio grande cruccio. Il suo ultimo spettacolo, The Doctor, è una riflessione straordinaria su tutti i grandi temi della contemporaneità. Tornerà nel West End appena riapriranno i teatri inglesi e consiglio a tutti di andare a vederlo. Suggerisco anche tre testi di Lucy Kirkwood: The Children, The Welkin, Mosquitoes.
La direzione di RupertGoold e Robert Icke all’Almeida mi ha fatto scoprire Ella Hickson, una strepitosa drammaturga di 35 anni, con già premi e produzioni importanti alle spalle, che adesso voglio continuare a seguire. Il suo The Writer è molto sperimentale: una ragazza arriva dalla platea come se avesse dimenticato uno zainetto e fa una lite furibonda col regista dello spettacolo che ha appena visto, gli dice “questo è il tempio del patriarcato, uno viene a teatro per emozionarsi e poi si ritrova a vedere roba del genere”. Fabulamundi mi ha chiesto di tradurlo e sono stata molto felice dell’opportunità, anche perché Frosini/Timpano ne hanno proposto uno studio a Short Theatre e a Genova c’è una compagnia che sta cercando di metterlo in scena.
Mi piacerebbe moltissimo tradurre Alice Birch, che poi è anche l’autrice che ha scritto la serie Normal People. Sto seguendo questa osmosi che c’è tra la televisione di qualità scritta dai drammaturghi e il teatro. Serie come Doctor Foster, scritta da Mike Bartlett, oppure Wanderlust, scritta da Nick Payne, o ancora Harlots, la storia di due bordelli rivali in epoca georgiana, scritta da Moira Buffini, bravissima drammaturga irlandese. È un circolo virtuoso: la scrittura televisiva aggiunge qualcosa a quella teatrale e viceversa.
In Inghilterra l’autore è la figura centrale del teatro. Considerando che in Italia non è così, cosa consigli ai drammaturghi italiani?
Darei un consiglio più che altro alle direzioni artistichee cioè di far lavorare i drammaturghi italiani come lavorano i drammaturghi anglosassoni: investire su di loro, farli entrare nei teatri, dar loro la possibilità di sviluppare il loro testo, lavorando a stretto contatto con registi e attori. Dal canto loro, gli autori devono avere un po’ di umiltà: molti rifiutano di toccare le proprie opere, invece gli autori inglesi sono delle spugne, si mettono al servizio di chi deve interpretare il testo finché tutti non sono soddisfatti, vanno tutte le sere alle previews con il pubblico in sala, per sentire se c’è ancora bisogno di qualche perfezionamento. Solo dopo la press night, quando vengono invitati i giornalisti, il testo si cristallizza nella sua forma definitiva.
Per questo gli autori inglesi non amano che si intervenga sui loro testi: perché il processo è talmente teso alla creazione di un meccanismo perfetto che se poi lo smonti non funziona più. Del teatro dei paesi di lingua inglese è sorprendente inoltre la varietà infinita dei temi che affronta: dalla fisica quantistica all’attualità più recente, dalle questioni giuridiche a temi che da noi sono ancora tabù. In Italia siamo diventati drogati di teatro borghese?
Claudia Castellucci, oltre che autrice e interprete, è una didatta e creatrice di scuole. Nel 1988 fonda laScuola Teatrica della Discesapresso la Casa del Bello Estremo, nel 2003 Stoapresso il Teatro Comandini di Cesena, nel 2009 Mòra, da cui è nata l’omonima compagnia che debutterà in prima assoluta il 16 ottobre presso il Teatro Piccolo Arsenale con Fisica dell’aspra comunione.
Intervistata in occasione della consegna del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020, nei giorni in cui stava concludendo la masterclass con i danzatori diplomandi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, racconta come si è trasformato il suo lavoro di coreografa e didatta in trent’anni di attività.
Claudia Castellucci
Hai fatto della didattica un’arte, sganciandola da un concetto di causa-effetto standardizzato ed economicistico e perseguendo piuttosto una messa in discussione costante, attraverso il rapporto dialogico e lo stupore. Come sono cambiate le tue scuole negli anni?
Hai descritto sinteticamente il motivo che genera la scuola: un incontro tra persone in cui l’insegnante è una figura asimmetrica, che si mette continuamente in gioco nella dialettica con gli scolari. Ecco perché non è una scuola di tipo istituzionale: le persone stesse imprimono una fisionomia alla scuola. Ha le caratteristiche dell’arte perché ha le caratteristiche del fare. Di conseguenza, come le opere, le scuole si formano e poi finiscono.
La durata media è di cinque anni, al termine dei quali sento l’esigenza di concludere, quindi passano uno o due anni di letargo, dopodiché risorge la necessità da parte mia di dar vita ad altri incontri. Queste scuole sono molto lunghe ma distese nel tempo, ci siamo sempre incontrati un giorno alla settimana per tutti gli anni. L’incontro stesso è un ritmo che cadenza le abitudini che ognuno di noi ha. La prima è stata la Scuola Teatrica della Discesa in cui, oltre al movimento, c’era anche il canto, e vi partecipavano persone dalle provenienze più disparate: fornai, studenti, artigiani, tutti molto giovani.
Nella scuola successiva, Stoa, i partecipanti erano ancora più giovani, liceali o ai primissimi anni dell’università. Man mano che si andava avanti, le persone aumentavano. All’inizio eravamo in 8, alla fine in 33. Con loro mi sono avventurata a esplorare il ritmo e ho iniziato a capire quanto fosse importante avere un musicista all’interno della scuola, perché la musica è talmente connaturata al movimento che, a un certo punto, la si cuce su misura del ballo e viceversa. Dopo un altro periodo di letargo è sorta un’altra scuola, Calla, durata poco, due anni, perché il numero era scarso e facevo fatica, ma ha prodotto comunque dei balli.
Infine la scuola Mòra, l’ultima, durata cinque anni. Mòra ha determinato un cambio notevole nella cronologia della mia esperienza scolastica perché si è verificata una sorta di tradimento delle premesse, che ha creato una crisi in me e negli scolari stessi: io non ho mai selezionato, ha sempre funzionato l’autoselezione, ma un certo punto ho sentito la necessità di approfondire la tecnica e quindi ho dovuto chiedere a delle persone di continuare e ad altre di salutarci, perché non avrebbero potuto seguire questo tipo di approfondimento. A questo punto, non bastava più una giornata settimanale, dovevamo incontrarci più spesso incaricando le persone di prepararsi, di conseguenza è sorta la necessità di passare dalla scuola alla compagnia e quindi ad un rapporto remunerato.
Questo cambia moltissimo le cose, tant’è che ci è venuta subito la nostalgia del rapporto di studio puro, senza finalità: stiamo dunque organizzando dei seminari liberi rivolti a chiunque, per tornare al modo scolastico.
La verità è che io non riesco a creare coreografie al di fuori di questa prolungata e decantata preparazione che ho assieme agli scolari danzatori. Non riesco a formulare una coreografia a tavolino, astratta dalla relazione. La coreografia sorge dopo un lungo processo di studi liberi, dopo molto tempo trascorso insieme a provare. Dopodichè si cominciano a isolare le parti più interessanti, alcune si aggregano, altre si escludono, poi inizia il lavoro vero e proprio di coreografia.
Il 16 ottobre, presso il Teatro Piccolo Arsenale, andrà in scena in prima assoluta Fisica dell’aspra comunione, creato con la Compagnia Mòra, nata dalla omonima Scuola di movimento ritmico che si è tenuta a Cesena tra il 2016 e il 2019. Come sei approdata alla scelta del Catalogue d’Oisaux di Olivier Messiaen – una composizione per pianoforte che traduce in note il canto degli uccelli – come ispirazione musicale? Rispecchia la tua idea di danza come arte che unisce realtà e mimesi?
Negli studi per pianoforte di Messiaen, il silenzio è una sostanza musicale di primissimo piano e non di sfondo. Noi, che stavamo studiando la pausa e il rapporto che c’è tra una figura in primo piano, sostanziosa, marcata, e un’altra, quell’intercapedine vuota volevamo approfondirla e sondarla. È la prima volta che adottiamo un’opera di un musicista noto. Questa volta, non abbiamo fatto ricorso a un musicista integrato nel gruppo, a parte un fastigio sonoro finale composto dal nostro musicista Stefano Bartolini. In Messiaen ritrovo effettivamente la caratteristica che mi affascina della danza: questa partizione precisa tra finzione e realtà. La finzione è uno schema – nel caso di Messiaen, il canto degli uccelli – trascritto, copiato, imitato. Poi c’è una trasfigurazione, una metabolizzazione del suo ritmo. Non si tratta quindi di mera imitazione, ma di una trasfigurazione. La stessa cosa deve avvenire, secondo me, per i danzatori: da una parte la finzione, che è lo schema coreografico e la sua assunzione, dall’altra le decisioni reali che devono essere prese in quel momento per far sì che quello schema sia vivo, impugnato realmente, in maniera flagrante.
In questo periodo, durante la masterclass con i danzatori diplomandi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, stai lavorando sul tempo e sul ritmo, approfondendo in particolare concetti come pausa, intervallo e psicologia della durata. Il blocco dovuto alla pandemia ha in qualche modo influenzato la tua percezione del tempo?
Noi, che alla Paolo Grassi ci siamo visti e abbiamo fatto un lavoro fisico, questo discorso ce lo siamo lasciato alle spalle. Paradossalmente trovo che il tempo dell’isolamento sia stato molto chiassoso. Il recupero della fisicità ci ha portato ad apprezzare molto di più il silenzio e la pausa.
In un’intervista rilasciata nel 2009 a Klpteatro, dichiari che la tua non è una scuola di formazione, ma di ricerca e in Setta sostieni che il maestro è il vero principiante, perché è quello che comincia per primo una cosa. Citando Roland Barthes: «Vi è un’età in cui s’insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui s’insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare». Cosa stai cercando in questa fase del tuo percorso artistico?
In questa fase sto cercando una coralità che passi attraverso la solitudine, quindi una scelta paradossale di unità che si compia attraverso la consapevolezza di essere individui e di essere soli. Sarà questo l’argomento dei miei prossimi seminari. La scuola, più che fugare la solitudine, la rivela.
Nello statuto della Socìetas Raffaello Sanzio si legge “L’Associazione si propone come scopo primario di svolgere un lavoro di riflessione, elaborazione dell’arte del teatro in diretto riferimento al contesto sociale nel quale essa è inserita”: in quale contesto è nata la Socìetas, nel 1981? Cosa credi occorra all’arte in questo particolare momento storico?
Noi siamo immersi nella storia e nella cronaca, tuttavia il nostro lavoro non è né storiografico né cronachistico: la relazione con la società è di tipo consecutivo e automatico, non è propositivo. Il discorso politico diventa tale, nel nostro caso, tanto più ci si riferisce alla specificità del linguaggio teatrale, anziché direttamente alla cronaca. Altri si dirigono frontalmente verso i problemi contemporanei e non dico che questo non vada bene, dico solo che nel nostro caso la relazione con la società, con la politica e con l’etica passa sempre attraverso l’estetica.
La scuola da te teorizzata non è uno spazio di libertà fittizia. Eviti l’approssimazione e lo spontaneismo attraverso gli esercizi, passaggi parametrici immediatamente analizzabili, che obbligano alla precisione. Nelle motivazioni per la consegna del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020 vieni definita una “coreografa sobria, seria, minimalista ed esigente, che lavora con sacralità alla sua arte”. Che significato dai alla sobrietà?
Per me la sobrietà è semplicità, laddove la semplicità non è un carattere, la descrizione psicologica di uno stato d’animo, ma è uno sforzo, uno scopo da raggiungere, per quanto riguarda un’essenzialità del gesto, o dello stare, o del movimento. Abbiamo scoperto nella scuola la potenza negativa: tirare fuori la massima potenza dal minimo gesto o dalla sottrazione. La danza tiene in massimo conto il volto, ma proprio per questo, proprio perché il volto, lo sguardo, è apicale, non va assolutamente caricato. Non spetta a noi. A noi spettano le direzioni, spettano i movimenti essenziali, sintetici, decantati. Perché è da lì che passa la commozione, non da altri carichi, né tantomeno dalla parola. Noi ci siamo liberati della parola. Anche queste interviste le vivo un po’ come una contraddizione. È chiaro che la parola, quando ci incontriamo, è necessaria, ma è necessaria per liberarcene, per poterne fare a meno. Perché la danza è un pensiero reale e non verbale.
I programmi di Danza Musica Teatro della Biennale di Venezia si svolgeranno quest’anno senza soluzione di continuità:
dal 14 al 25 settembre il 48. Festival Internazionale del Teatro, quarto atto del progetto del Direttore Antonio Latella, quest’anno pensato come una sorta di “collettiva” di artisti italiani, sollecitati a comporre tutte nuove opere attorno all’unico tema della censura
dal 25 settembre al 4 ottobre il 64. Festival Internazionale di Musica Contemporanea, che il Direttore Ivan Fedele ha focalizzato sul dialogo tra generazioni, grandi personalità della musica del passato recente in dialogo con autori della più stringente contemporaneità
dal 13 al 25 ottobre il 14. Festival Internazionale di Danza Contemporanea diretto da Marie Chouinard, che completa il suo quadriennio di direzione perseguendo un’idea di danza inclusiva, praticata come un territorio senza limiti.
“La collaborazione virtuosa fra Teatro, Danza e Musica rappresenta l’esempio più calzante di un progetto più ampio che prevede di sviluppare il dialogo fra le arti che costituiscono l’anima della Biennale” afferma Roberto Cicutto, Presidente della Biennale di Venezia. E prosegue: “Le condizioni imposte dalla pandemia hanno dato anche qualche frutto involontariamente positivo. E’ infatti una buona cosa che in un periodo concentrato da fine agosto a fine novembre si svolgano la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica seguita, come in un passaggio di testimone, dai Festival di Teatro, Musica e Danza. E che ciò avvenga attraverso un legame profondo con Architettura e Arte che, se pur rinviate al 2021 e al 2022, saranno presenti nella Mostra curata dai sei direttori (Hashim Sarkis, Cecilia Alemani, Alberto Barbera, Antonio Latella, Ivan Fedele e Marie Chouinard) che al Padiglione Centrale dei Giardini racconterà i momenti chiave della storia della Biennale lunga 125 anni (1895-2020). In questo modo la Biennale si ripresenta al mondo dando un segnale importante e forte di unità e compattezza nella promozione della ricerca nel campo delle arti contemporanee”.
Osserva ancora Cicutto: “Teatro Musica e Danza hanno mantenuto i loro programmi (salvo qualche cambiamento per Danza che contava su presenze internazionali provenienti da Paesi che non possono ancora garantire la totale mobilità) allineandosi alla conferma di date e programmi della Mostra del Cinema. Da subito è stato chiaro che non ci saremmo “accontentati” di Mostre e Festival on line, ritenendo la presenza fisica un elemento fondamentale e insostituibile della piena fruizione dell’offerta della Biennale. Una scelta dettata anche dal rispetto per il grande lavoro fatto in questi anni con dedizione e passione dai Direttori Artistici delle tre discipline che oggi presentano i loro programmi”.
BIENNALE TEATRO
Con 27 artisti, 28 titoli – tutte novità assolute – per un totale di 40 recite, Antonio Latella allestisce il suo “Padiglione Teatro Italia”che costituisce il 48. Festival Internazionale del Teatro (14 > 25 settembre). Dichiara il Direttore Antonio Latella: “Abbiamo cercato di costruire una mappatura di artisti che sono al di fuori di queste leggi e che raramente vengono programmati dai teatri istituzionali, ma che si stanno imponendo all’attenzione della critica e degli operatori; artisti che, soprattutto, stanno costruendosi un loro pubblico, fortemente trasversale e che esce dalla costrizione dell’abbonamento. Molti artisti invitati sono giovani, alcuni giovanissimi usciti dal College di Regia della Biennale(per valorizzare il percorso fatto in questi anni, che si è preso la responsabilità di provare a lanciare nuovi talenti italiani), altri più grandi ma solo per questioni anagrafiche”.
Provengono dal vivaio di Biennale College: Leonardo Lidi, Fabio Condemi, Leonardo Manzan, Giovanni Ortoleva, Martina Badiluzzi, vincitrice dell’edizione 2019/2020 di Biennale College Registi Under 30 con The Making of Anastasia, frutto di un percorso biennale che vede il tutoraggio di Antonio Latella, e Caroline Baglioni, vincitrice di Biennale College Autori Under 40 con Il lampadario, che debutta nel Festival dopo un percorso lungo l’arco di un triennio (2018/2019/2020) con il tutoraggio di due importanti autrici del panorama nazionale: Linda Dalisi e Letizia Russo. Vicini, per generazione, sono anche PabloSolari e Alessandro Businaro. Mentre alla generazione immediatamente precedente (primi anni ’80) appartengono Daniele Bartolini, Filippo Ceredi, Liv Ferracchiati, Antonio Ianniello,Giuseppe Stellato.Fra le compagnie, nate tutte nel nuovo millennio, ci sono: AstorriTintinelli, Biancofango, Industria Indipendente, Babilonia Teatri, Nina’s Drag Queens, Teatro dei Gordi, UnterWasser.E ancora: figure consolidate nel panorama nazionale come Fabiana Iacozzilli, Giuliana Musso, Jacopo Gassmann. Infine, Mariangela Gualtieri, poetessa, attrice, autrice, cui è affidata l’inaugurazione del 48. Festival Internazionale del Teatro con uno dei suoi preziosi “riti sonori”, come sempre guidato da Cesare Ronconi, un rito pensato come inaugurale.
“A tutti gli artisti – scrive Latella – è stato proposto di lavorare sul tema della censura, cercando di uscire dall’ovvietà di questa proposta per pensarla come valore “alto” da proporre al pubblico e agli operatori, pensando che i teatranti italiani faticano a entrare in un mercato internazionale e che quindi, in qualche modo, vengono censurati o nascosti, per il solo fatto di essere teatranti italiani”. Da autori come Fassbinder, D’Annunzio e Nabokov a personaggi storici come George W. Bush o il regista Elia Kazan, tantissime, diversificate e sorprendenti sono state le risposte che gli artisti hanno dato alla sollecitazione del tema.
Come ogni anno, le masterclass di Biennale College sono parte integrante del festival, pensate in funzione del tema comune affrontato. Una mastercalss sarò dedicata alla direzione artistica con Umberto Angelini e una sulla critica teatrale con Claudia Cannella. Avrà esito pubblico la terza masterclass tenuta dal regista, coreografo e pedagogo Alessio Maria Romano, Leone d’argento di questa edizione del festival.
I Leonidel Teatro quest’anno vogliono premiare “artisti che danno e fanno tantissimo per il teatro ma che spesso restano in seconda linea, anche per responsabilità del regista, troppo spesso accentratore, che dimentica quanto il risultato finale sia spesso legato ai collaboratori che sceglie” (A. Latella). Il premio alla carriera è attribuito a Franco Visioli, sound designer al fianco di Thierry Salmon, Peter Stein, Massimo Castri, Antonio Latella, autore di drammaturgie sonore che diventano parte essenziale di uno spettacolo sempre più polifonico, dove ogni elemento concorre ugualmente alla sua definizione. Il Leone d’argento è assegnato ad AlessioMaria Romano, regista e coreografo che ha lavorato ai movimenti scenici di spettacoli di Luca Ronconi, Carmelo Rifici, Valter Malosti, Sonia Bergamasco, fra gli altri, oltre a impegnarsi nella pedagogia del movimento per la formazione degli attori.
BIENNALE MUSICA
10 giorni con 18 appuntamenti che riservano 28 novità, di cui 15 in prima assoluta (7 commissionate dalle Biennale) e 13 in prima nazionale compongono il 64. Festival Internazionale di Musica Contemporanea.
Il Direttore Ivan Fedele ha voluto ricordare gli anniversari di Bruno Maderna, Luigi Nono, FrancoDonatoni, Ludwig Van Beethoven. Con il FontanaMix e il Collettivo In.Nova Fert, autori e interpreti di Sette Canzoni per Bruno; con il violino di Francesco D’Orazio, il pianoforte di Francesco Prode e la tuba del giovanissimo Arcangelo Fiorello per tre brani di Nono per strumento solo ed elettronica; il Divertimento Ensemble di Sandro Gorli per Donatoni; i pianisti Leonardo Colafelice, William Greco, Pasquale Iannone per i tre concerti dove “trait d’union”è l’opera di Beethoven, proposta in un gioco di scambi con pagine della letteratura pianistica del secondo novecento di Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez, Franco Donatoni.
Sul fronte del teatro musicale: I Cenci di Giorgio Battistelli, opera chetrova la sua prima versione in italiano a oltre 20 anni dal suo debutto con l’Ensemble900 del Conservatorio della Svizzera Italiana diretto da Francesco Bossaglia; e il visionario teatro di suoni di Instrumental Freak Show di Giovanni Verrando, ideatore di nuovi strumenti che vanno oltre l’orchestra acustica occidentale, interpreti i componenti dell’Interface Ensemble di Francoforte diretti da Francesco Pavan.
Fra gli ensemble, gli undici elementi del Cairn Ensemble, fondato nel 1998 dal compositore Jérôme Combier; l’Ensemble Fractales,nata a Bruxelles nel 2012, fra le più giovani e dinamiche formazioni della scena europea; l’Oktopus Ensemble che la compositrice, direttrice d’orchestra e docente Konstantia Gourzi ha avviato nel 2003 alla Hochschule für Musich und Theater di Monaco.
Infine, l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius per il concerto inaugurale dedicato a Luis De Pablo e l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento diretta da Timothy Redmond, con un trittico di autori di prestigio (Fabio VacchiFabio Nieder, Dai Fujikura).
Per Biennale College – Musica, quest’anno debutteranno 4 composizioni multimediali originali, grazie all’attività inaugurata lo scorso anno dal CIMM – Centro di Informatica Multimediale Musicale della Biennale di Venezia. Opere originali firmate da compositore e video artista: Matteo Gualandi e Silvio Petronzio, Luca Guidarini e Andrea Omodei, Matteo Tomasetti e Filippo Gualazzi,Francesco Pellegrino e Roberto Cassano.
Sempre per Biennale College, sono in corso al CIMM di Mestre – Bissuola, l’infrastruttura che la Biennale, dallo scorso anno, ha dedicato alla multimedialità e alle tecnologie digitali, workshop dedicati a dj e producer di base, cui si aggiunge per la prima volta quest’anno un workshop per producer – performer.
Per la Musica il Leone d’oro alla carriera va al magistero del più grande compositore spagnolo vivente, Luis De Pablo, classe 1930, autore onnivoro e originalissimo, determinante nel rinnovamento musicale del suo Paese; e il Leone d’argento al compositore francese Raphaël Cendo, classe 1975, fondatore di un vero e proprio movimento estetico, il “saturazionismo”, che ha rivoluzionato il modo di concepire e scrivere musica attirando tanti giovani compositori. A De Pablo è dedicato il concerto inaugurale con la prima assoluta di Concierto para viola y orquestae la prima italiana diFantasías. Un’altra prima italiana per Raphaël Cendo: Delocazione.
BIENNALE DANZA
Due settimane (13 > 25 ottobre) di spettacoli per il 14. Festival Internazionale di Danza Contemporanea diretto da Marie Chouinard con 19 coreografi autori di 23 titoli (7 in prima assoluta e 5 in prima nazionale), ma anche incontri e film.
Nel solco delle edizioni passate, i coreografi invitati, fra cui molti appartenenti alle generazioni degli anni ’80 e ’90, fanno della danza un territorio senza limiti, fra i più permeabili all’ibridazione, una danza che trova spazio in teatri, gallerie, musei e anche fiere.
Il Festival vedrà ospiti: Olivier Dubois con Pour sortir au jour, un assolo intimo sulla memoria del corpo in cui si inscrive la storia stessa dell’arte della danza; la catalana Maria Campos e il libanese Guy Nader, con Times Takes the Time Time Takes; Noè Soulier, apripista di una nuova generazione di coreografi, con The Waves e Portrait of Frédéric Tavernini,; Lisbeth Gruwez, proveniente dal laboratorio artistico di Jan Fabre dopo una formazione nel classico, con Piano Works Debussye Lisbeth Gruwez dances Bob Dylan; la basca Jone San Martín conLegitimo/Rezo, il suo personale “diario di appunti” degli oltre vent’anni di lavoro con William Forsythe; Claudia Catarzi, interprete per i maggiori coreografi ma anche autrice di raffinati assoli e duetti, come Posare il tempo.
E ancora saranno ospiti del Festival: Matteo Carvone che rivisita un classico della danza con (Faun); Silvia Gribaudicon il successo di Graces, un’apoteosi della potenza liberatoria dell’imperfezione; Chiara Bersani, artista attiva nell’ambito delle arti performative e visive, con Gentle Unicorn, spettacolo manifesto della sua ricerca sul corpo politico; Marco D’Agostin, attivo in proprio dal 2010, alla Biennale con Avalanche, che ha debuttato ai Recontreschorégraphique internationale de Seine-Saint-Denis.
Dopo l’esordio dello scorso per Biennale College, tornano sul palcoscenico del Festival Sofia Nappi e Adriano Bolognino, autori di una commissione della Biennale per due nuove opere, rispettivamente Imae Your Body is a Battleground.
Diversi sono gli appuntamenti di quest’anno con Biennale College – Danza. Silvia Giordano,Emese Nagy, Melina Sofocleous, vincitori del bando coreografi, presenteranno tre creazioni libere e originali a conclusione di due mesi di lavoro, ricerca ed elaborazione con 7 danzatori professionisti e il confronto con esperti del settore. Tre i lavori presentati anche dai 12 danzatori del relativo College, al termine di un percorso intensivo di oltre tre mesi: una nuova creazioneideata da Marco D’Agostin, In Museum dal repertorio di Marie Chouinard e una nuova versione, ideata appositamente per i danzatori del College, del celebre Sacre du printemps di Xavier Le Roy.
Infine, i Leoni della Danza premiano la dinamicità e la permeabilità di questa disciplina, con il Leone d’oro alla carriera all’artista ispano-elvetica La Ribot, personalità unica nel mondo dell’arte coreografica in cui si è imposta costruendo pezzo dopo pezzo, nell’arco di oltre un ventennio, quei Piezas distinguidas che la imporranno dalla Tate Modern al Théâtre de la Ville di Parigi, passando per il Museo Reina Sofia, il Centre Pompidou e tutti i maggiori festival. Il Leone d’argento premia Claudia Castellucci, drammaturga, coreografa e didatta che ha costruito un’architettura teorico-pratica di assoluto rigore. La Ribot presenterò in prima italiana Panoramix e Another Distinguée; Fisica dell’aspra comunioneè il titolo presentato da Claudia Castellucci in prima assoluta.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
La Biennale di Venezia comunica le nuove date di svolgimento dei Festival di Teatro e Danza, conferma le date del Festival di Musica e annuncia 15 Eventi collaterali della Biennale Architettura 2020 (erano 13 alla Biennale Architettura 2018).
In particolare, il 64. Festival Internazionale del Teatro diretto da Antonio Latella si svolgerà dal 14 al 24 settembre, anziché dal 29 giugno al 13 luglio come in precedenza annunciato. Il 14. Festival di Danza contemporanea diretto da Marie Chouinard si svolgerà dal13 al 25 ottobre, anziché dal 5 al 14 giugno. Sono confermate invece le date del 48. Festival Internazionale di Musica Contemporanea diretto da Ivan Fedele, che si svolgerà dal25 settembre al 4 ottobre.
Le nuove date dei Festival di Teatro e Danza sono state stabilite in conseguenza dell’emergenza sanitaria in corso, e dell’impossibilità di procedere nelle prossime settimane alla programmazione delle prove e degli allestimenti degli spettacoli.
Il nuovo calendario delle manifestazioni della Biennale di Venezia 2020, presieduta da Roberto Cicutto, è pertanto il seguente:
dal 29 agosto al 29 novembre, 17. Mostra Internazionale di Architettura diretta da Hashim Sarkis.
dal 2 al 12 settembre, 77. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica diretta da Alberto Barbera.
dal 14 al 24 settembre, 64. Festival Internazionale del Teatro diretto da Antonio Latella .
dal 25 settembre al 4 ottobre, 48. Festival Internazionale di Musica Contemporanea diretto da Ivan Fedele.
dal 13 al 25 ottobre, 14. Festival di Danza contemporanea diretto da Marie Chouinard.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Accostarsi o immergersi nel fascino e nel mistero che caratterizzano le produzioni di Alessandro Sciarroni – Leone d’Oro 2019 alla carriera, un riconoscimento coraggioso che la Biennale danza di Venezia ha voluto riservargli – comporta una svestizione. È nel distacco dalle sovrastrutture ideologiche, dalle rigidità degli schemi e delle dottrine che avviene l’atto di abbandono, totale e intimo.
Sciarroni ci affida, al termine di un piacevole incontro, diverse chiavi di lettura per interpretare la sua creazione Augusto e la sua visione artistica. Il suo lavoro che è caratterizzato da un forte senso di ironia, ma anche di consapevolezza e di leggerezza. Un pensiero lucido che muove e incontra la ricerca multidisciplinare e lo sforzo immersivo come performer, attore-regista e coreografo. Studioso di arti visive e performative, ma soprattutto uomo del suo tempo, ha saputo rivoluzionare il linguaggio della danza rimanendo in dialogo con essa. Sciarroni ha recuperato, inoltre, antiche tradizioni e danze popolari per restituirle a una società di persone in continuo movimento.
Le suggestioni, le emozioni e ricordi i particolari relativi alle 2 date romane (8 e 9 settembre) in relazione alla compagnia, al feedback del pubblico e alla rassegna Grandi Pianure – Short Theatre
Sono molto felice del fatto che la nuova direzione artistica delTeatro Argentina abbia voluto aprire con Augusto e che allo stesso tempo questo evento abbia incrociato sia Grandi Pianure siaShort Theatre. Ne sono stato lusingato e sono felice soprattutto della risposta del pubblico. L’evento ha registrato il sold out tutte e due le sere.
Augusto è una narrazione intensa, come un fluire che asseconda il ritmo degli eventi e che diventa movimento sulla scena. Questo flusso precede o avviene in contemporanea con la selezione dei contenuti e lo sviluppo della drammaturgia?
Ogni produzione che abbiamo realizzato ha avuto un processo di creazione diverso. Per Augusto la costruzione drammaturgica è arrivata solo in seguito rispetto all’inizio delle prove, nel senso che le prime settimane di lavoro sono servite ai performer per sviluppare la capacità di ridere a lungo senza provare fatica o dolore. Solo una volta che gli artisti possiedono lo strumento è possibile iniziare a costruire ritmicamente il lavoro e a guardare al suo significato. Il lavoro drammaturgico va di pari passo con la costruzione coreografica ma in alcuni casi è l’ultima cosa che chiudo.
In un’intervista video sostenevi che si arriva a vivere tutti insieme con la compagnia. Quanto la dimensione collettiva determina l’ispirazione e la creazione individuale?
In un certo senso la storia del gruppo (o la mia storia personale se sono da solo in scena), influenza sempre il risultato. All’inizio so qual è la pratica che andremo ad affrontare, ma non so mai come sarà organizzata nello spettacolo. L’aspetto biografico, la storia del gruppo, sono sempre elementi che condizionano la drammaturgia. Ma questo aspetto deve essere tradotto in maniera tale che possa risuonare per il pubblico. L’aspetto biografico è un elemento molto presente nel mio lavoro, ma deve essere convertito in qualcosa di universale, trasfigurando le storie personali e superando la dimensione temporale della contemporaneità.
Nove corpi in scena, tutte le azioni che si determinano possono sviluppare negli spettatori una reazione di apertura o di chiusura. Quali sono le tue riflessioni a proposito? L’empatia e il rifiuto sono effetti su cui eserciti una forma di pianificazione di controllo oppure sono traiettorie in totale libertà?
Io non sono in grado di lavorare prevedendo le reazioni degli spettatori. Tuttavia la figura del pubblico è fondamentale. Quando lavoro a un progetto, cerco sempre di osservare le prove come se fossi io stesso uno spettatore. Ma se provassi a mettermi nei panni del pubblico commetterei un errore cognitivo molto grossolano: devo fare il possibile per restare nei miei. Augusto è un lavoro molto diverso da tutti gli altri che ho realizzato. So di aver scelto un’azione che ha la capacità di dividere – la risata – ma non è questo il mio intento iniziale.
È possibile che si creino alcune dinamiche molto forti tra il pubblico e la platea, così come è possibile che in alcuni spettatori non si muova nulla, o che addirittura che alcuni provino fastidio. Augusto è il nome di un clown: è inafferrabile, imprevedibile, incomprensibile, e devo ammettere che sorprende ogni volta anche me. È come se non riuscissi a gestirlo fino in fondo perché ho l’impressione che sia il pubblico a guidare l’atmosfera in sala, a stabilire l’umore. È un lavoro nel quale il riso viene introdotto in maniera positiva, come se fosse il ricordo di un’infanzia e di un’innocenza perduta, ma col passare dei minuti diventa un lavoro sul dolore, sulla violenza, sulla disperazione e sull’indifferenza.
Sulla libertà di trovare la tecnica personale: cosa hai vissuto, scoperto e trovato durante lo studio artistico in cui giravi su te stesso per 30-40 minuti?
Chroma è nato innanzitutto da una commissione ricevuta all’interno di un progetto europeo chiamato Migrant Bodies nel quale ho studiato i fenomeni migratori di alcuni animali. Ho notato quanto fosse importante il movimento circolare nelle rotte migratorie di alcuni animali che abbiamo studiato. Sono rimasto molto affascinato da questa idea e così in maniera molto naif sono entrato in uno studio e ho iniziato a girare su me stesso. All’inizio stando molto male. Ma non volevo imparare da nessuno, volevo trovare la mia tecnica.
È nato così il progetto Turning. Abbiamo creato diversi spettacoli ispirati a questa pratica, diverse versioni. È stata un’esperienza straordinaria: ho dovuto imparare a girare su me stesso e in seguito ho dovuto cercare gli strumenti per insegnarlo ai danzatori fino a condividere questa pratica con compagnie di balletto. Sono molto orgoglioso di annunciare che in dicembre, la versione creata per il Balletto dell’Opera di Lione verrà presentata nella cornice del Festival D’Autunno a Parigi in double bill con Merce Cunningham.
Nel teatro, come nella danza, cercare ossessivamente sulla scena quello che manca in un corpo, impedisce di trovare ciò che esso stesso racconta o che ha in più?
Nel mio caso significa sempre scoprire un’altra abilità, una specie di super potere. Ad esempio nel 2015/2016 abbiamo lavorato con un gruppo di atleti non vedenti e ipovedenti per uno spettacolo che si chiama Aurora. Molte di queste persone sono affette da retinosi pigmentosa, una malattia degenerativa terribile che riduce il campo visivo di anno in anno, fino alla cecità. Lo spettacolo pone l’accento sulla straordinaria abilità che hanno questi atleti nel praticare una disciplina sportiva paralimpica chiamata goalball. In scena ricreiamo e giochiamo una vera partita. In questo caso la diversità non è percepita come una mancanza, ma come il fatto di possedere una qualità straordinaria, una forza altra. Per questo lo spettacolo si chiama Aurora: per me è un lavoro che apre a nuove percezioni.
Come e cosa avviene nello scambio comunicativo tra la scena, gli artisti, il pubblico in relazione alle distanze? Come e cosa cambia nel rapporto vicino/ lontano, a seconda delle differenze delle strutture teatrali?
Quello con gli spazi tradizionali è un confronto molto interessante. È una sfida in un certo senso. In fondo alla sala si può cogliere una “visione d’insieme” (per citare il titolo del festival “Short Theatre” di quest’anno), ed accedere ad un livello di percezione diverso. Non dico che sia meglio o peggio, dico che è semplicemente diverso. Ma rispetto al mio gusto e alla mia sensibilità, da spettatore mi piace stare vicino all’azione.
Pensi che lo spazio possa amplificare o rimarginare la rappresentazione delle incrinature della società?
Non saprei rispondere a questa domanda. La cosa che mi piace del Teatro è che nello spazio bisogna andarci veramente: non è qualcosa che puoi guardare da casa tua e quindi oggi è diventata quasi una pratica esotica. In questo senso, lo spazio, il teatro, inteso come luogo e non come un genere, è in grado di creare un incontro, anzi, ti costringe ad un incontro. Ma ci tengo a precisare che non dovrebbe essere compito degli artisti “rimarginare le incrinature della società”, dovrebbe essere compito dei politici.
Live Art trovi che sia una definizione/ non definizione simile a Queer?
Non ci avevo mai pensato. Nei primi anni, quando sentivo questa parola, queer, era una definizione che mi affascinava e mi affascina ancora oggi moltissimo: poiché chiunque può abbracciarla. Allo stesso tempo, sono un po’ deluso perché questo termine è anche in grado di creare nuove divisioni. Credo sia importante rispettare chi non ha nessuna intenzione di identificarsi nella parola queer, chi si sente a proprio agio nelle definizioni “tradizionali”. Allo stesso modo mi interessa il concetto di Live art, perché smantella le differenze tra le categorie, ma come artista non ho nessun problema a riconoscermi delle definizioni tradizionali. Così come non ho paura della parola “spettacolo”. Credo che sia importante che ogni artista abbia la possibilità di scegliere il termine col quale si sente maggiormente a suo agio, ecco tutto.
Il Leone d’Oro alla carriera per Sciarroni è un punto di arrivo di ripartenza?
Non so se è un punto d’arrivo o di partenza, lo capirò con il tempo. Per ora ho l’impressione che non abbia rappresentato una deviazione nel mio percorso. Continuo a non avere uno spazio prove, a non ricevere fondi ministeriali per la produzione e quindi a mantenere la mia indipendenza come artista. Il nostro ultimo progetto è un piccolo formato di appena venti minuti intitolato Save the last dance for me, che intende “salvare” dall’oblio una danza bolognese dei primi del ‘900 che si chiama “polka chinata”, un ballo liscio. Assieme alla presentazione della performance abbiamo attivato una serie di workshop per divulgare il ballo.
La parola mistero ritorna spesso nel tuo lavoro e nelle tue dichiarazioni. Che valore e che significato attribuisci a questa parola?
Virginia Woolf parlava di “momenti d’essere” e io mi ritrovo in questa definizione quando sono spettatore di una pratica di gruppo (come nel caso di un antico ballo popolare), oppure quando guardo un paesaggio, o se sono immerso nella natura. Da bambino mi piaceva osservare gli insetti che marciavano in fila. Per me quello “spettacolo” era davvero un mistero: “il segreto di un segreto” come diceva Diane Arbus. Quando lavoro in sala mi piace immaginare che sopra la mia testa stia transitando un pianeta gigantesco e misterioso che ci costringe a ripetere un’azione ancora e ancora senza essere a conoscenza del motivo del nostro agire. È una sensazione misteriosa che può diventare piacere se si riesce ad abbandonare la paura.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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