È la regista e autrice brasiliana Christiane Jatahy, una delle figure più originali dell’ondata teatrale d’oltreatlantico che ha rigenerato la scena europea degli ultimi decenni, il Leone d’oro alla carriera per il Teatro della Biennale di Venezia; il Leone d’argento va al filmmaker e performer Samira Elagoz, che incrocia origini egiziane e finlandesi, autore di inedite e abrasive docu-performance.
I Leoni sono stati proposti dai Direttori del settore Teatro Stefano Ricci e Gianni Forte(ricci/forte) e approvati dal Consiglio di Amministrazione della Biennale di Venezia. La premiazione si svolgerà nel corso del 50. Festival Internazionale del Teatro che si svolgerà dal 24 giugno al 3 luglio 2022 a Venezia.
“Impietosa ed acuta osservatrice della violenta crudeltà del nostro mondo – scrivono nella motivazione Stefano Ricci e Gianni Forte – l’autrice e regista brasiliana Christiane Jatahy potenzia un linguaggio originale interstiziale che unisce la forza radicale della sua dimensione poetica con il contrappunto di un mordace pensiero politico, sempre attraversato da un intrepido spirito di ricerca tra presente e passato.
Abrogando le regole dogmatiche della rappresentazione e mettendone in scacco i teoremi agonizzanti, Christiane Jatahy fonde i lidi del cinema e del teatro, attraverso un personale attrito di stampo brechtiano-wagneriano, per esplorare quei territori più ostici in cui si rivela maggiormente l’instabilità di una realtà fittizia incarnata dai suoi Personaggi/Persone, orchestrando così una vorticosa danza tentacolare con la presenza carnale dei loro corpi in movimento urlanti verità ad ogni singolo spettatore.
Non essendo bastevoli le parole per esportare altrove una forma di vita, Christiane Jatahy lancia in orbita potenti sequenze di immagini e, servendosi del montaggio in diretta, utilizza la macchina da presa come parte integrante del gioco scenico – alla maniera dei film di Cassavetes – smontando i dispositivi dell’illusione naturalistica per strutturare il proprio teatro e creare cosi delle spiazzanti trappole narrative di lancinante bellezza in cui il pubblico rimane a tal punto attivamente prigioniero e affascinato da ciò che si svolge davanti ai suoi occhi da non provare più alcun desiderio di volerne uscire”.
Christiane Jatahy arriva per la prima volta in Italia alla Biennale Teatro nel 2015, con la conturbante versione del classico strindberghiano La signorina Giulia, trasportato dalla società nordeuropea puritana e classista di fine 800 al Brasile di oggi con un linguaggio che moltiplica le prospettive facendo coesistere cinema e teatro in unico spazio. L’espansione di virtuale e reale e la riscrittura radicale dei classici catturano nuovamente lo sguardo del pubblico l’anno seguente, quando alla Biennale Teatro Christiane Jatahy presenta E se elas fossem para Moscou?. Questa volta sono le più famose Tre sorelle del teatro europeo a essere calate in uno spiazzante Brasile contemporaneo, mentre prospettiva teatrale e cinematografica si intrecciano in simultanea, creando due versioni distinte ma complementari che danno luogo a un’unica creazione. Attesa sarà la novità di quest’anno, presentata in prima per l’Italia al 50. Festival Internazionale del Teatro e coprodotta da dieci enti diversi tra i maggiori teatri e festival dall’Europa al Brasile: O agora que demora (The lingering now), seconda parte del dittico Nossa Odisséia, dove l’epica greca è accostata a materiali documentari girati in Palestina, Libano, Sudafrica, Grecia, Amazzonia con oltre 40 interpreti in un mix fra racconto omerico e storie vere di artisti rifugiati.
Per la prima volta alla Biennale Teatro arriva l’artista Samira Elagoz – destinatario del Leone d’argento – con Seek Bromance, la sua ultima creazionein prima per l’Italia. Nata dall’ibernazione forzata al tempo del Covid, Seek Bromance è “la storia della forte relazione fra persone transgender ambientata alla fine del mondo, quasi una saga lunga quattro ore a cui ha collaborato Cade Moga” (S. Elagoz).
Scrivono i Direttori motivando il premio: “Mettendo in scena il corpo e sezionandolo visualmente con i suoi paradossi e le sue multiformi sfaccettature alla maniera di Nan Goldin, focalizzandosi con sguardo implacabile sulla solitudine, sulla relazione umana tra sessi nell’era digitale e in una società che sfugge alle regolarizzazioni e controlli, esplorando i confini porosi tra reale e virtuale, indagando sugli effetti dell’amore, del gender, della femminilità, del desiderio, del suo conseguente annichilimento e dei sotterranei brutali giochi di potere, Samira Elagoz percorre un viaggiointimo e poetico, ma al tempo stesso ironico e perturbante,intorno ai clichés e alle questioni riguardanti non solo l’auto-rappresentazione nei media, i comportamenti del maschio nei suoi tentativi di seduzione in un rapporto di dominio e/o di sottomissione, ma anche dello strumento-corpo come campo di un’imprescindibile e necessaria sperimentazione artistica.
Camera da presa alla mano, usando se stesso e avvalendosi delle sue esperienze personali nutrite sulle applicazioni e siti web, amalgamate con video e filmati fotografici di vita reale, evidenziando la manipolazione dei corpi su queste piattaforme e allargando abilmente i rapporti tipici tra mascolinità e femminilità in rete, per le sue creazioni Samira Elagoz, flirtando con le possibilità infinite del mezzo performativo, plasma un linguaggio originale offrendoci – al fine di sperimentare il proprio percorso gender in mutazione come bacchetta rabdomantica espressiva – un marchio unico di performance-reportage, di multimedia happening e di docu-fiction”.
In passato il Leone d’oro alla carriera per il Teatro è stato attribuito a Ferruccio Soleri (2006), Ariane Mnouchkine (2007), Roger Assaf (2008), Irene Papas (2009), Thomas Ostermeier (2011), Luca Ronconi (2012), Romeo Castellucci (2013), Jan Lauwers (2014), Christoph Marthaler (2015), Declan Donnellan (2016), Katrin Brack (2017), Antonio Rezza e Flavia Mastrella (2018), Jens Hillje (2019), Franco Visioli (2020), Krzysztof Warlikowski (2021).
IlLeone d’argento, dedicato alle promesse del teatro o a quelle istituzioni che si sono distinte nel far crescere nuovi talenti, è stato attribuito a Rimini Protokoll (2011), Angélica Liddell (2013), Fabrice Murgia (2014), Agrupación Señor Serrano (2015), Babilonia Teatri (2016), Maja Kleczewska (2017), Anagoor (2018), Jetse Batelaan (2019), Alessio Maria Romano (2020), Kae Tempest (2021).
Tutti i dettagli sul sito della Biennale di Venezia: www.labiennale.org
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Dopo un anno di fermo causato dalla pandemia, la rassegna Quelli che la Danza giunge alla sua nona edizione, vetrina della danza contemporanea d’autore promossa dal Ministero della Cultura e dalTeatro Pubblico Campano, diretto da Alfredo Balsamo. Il Circuito Campano della Danza, successivamente mutato in CDTM (Circuito Danza Teatro Musica), grazie anche al direttore Mario Crasto De Stefano, dà la possibilità, nell’ambito nazionale della danza, a coreografi, compagnie e autori emergenti, di partecipare a festival di danza e balletto creando spesso situazioni di multidisciplinarietà, al fine di sostenere e promuovere l’arte e lo spettacolo campano all’interno dei propri confini e in diverse regioni italiane.
A causa delle restrizioni nazionali entrate in vigore durante il periodo di pandemia, molti teatri e diverse compagnie hanno fronteggiato momenti di crisi economica dovuti alla cancellazione o alla sospensione di cartelloni già da tempo programmati. Tuttavia, le nuove tecnologie e i media digitali, sempre più in evoluzione, hanno dato la possibilità di mantenere viva, seppur in maniera limitata, la comunicazione tra artista e spettatore. Inoltre, avere a disposizione spazi all’aperto e un enorme patrimonio artistico e culturale consente di inscenare eventi in cornici suggestive.
È proprio il caso della rassegna Quelli che la danza che quest’anno ha potuto usufruire del cortile interno del Maschio Angioino di Napoli per tre serate all’insegna della nuova danza d’autore. Il 16 luglio è stata la volta di un prologo dedicato al ricordo di Ismael Ivo, ballerino, coreografo, artista avvicinatosi alla danza sin da bambino, scomparso a soli 66 anni nell’aprile di quest’anno vittima del Covid-19.
Un successivo spazio è stato riservato all’ARB DANCE COMPANY con RE BORN coreografie di Martina Fasano. Una videoinstallazione colma di interviste, frammenti di lezioni, spettacoli e momenti di riflessione sulla carriera del coreografo è stata preceduta dall’intervento del direttore del CDTM e dalla speciale testimonianza di Marcel Kaskeline, stage designer, partner creativo e di vita di Ismael Ivo.
Marcel Kaskeline ha raccontato come l’Italia, in particolare Napoli, Roma e Venezia, sia stata per il coreografo una seconda casa. Dopo esser stato scelto dall’Alvin Ailey Dance School a New York come ballerino «na rua do Brasil», ha iniziato una tournée che ne ha segnato la consacrazione prima a Berlino, sua homeplace, e successivamente a Vienna, fino a giungere alla Biennale di Venezia quando Carolyn Carlson lo invitò per esibirsi con un Solo che lo portò, l’anno successivo, a diventare direttore della sezione danza della Biennale stessa. Dall’incontro con De Stefano nasce il sodalizio con la città di Paestum, in cui organizzò un laboratorio di 30 giorni e durante il quale diede il via alle audizioni per quello che diventerà il corpo di ballo della reinterpretazione e rielaborazione del balletto Le Sacre du Printemps (balletto creato per la compagnia dei Balletti Russi di Sergej djagilev nel 1913, coreografia originale di Vaslav Nijinskij, musiche di Igor Stravinskij, scene e costumi di Nikolaj Roerich), avente per scenografia i Templi di Paestum.
Kaskeline ha concluso il suo intervento affermando che l’eredità di Ismael – più di 100 coreografie, innumerevoli centri di danza fondati – non sono l’unica ricchezza che il coreografo ha lasciato ai posteri: resteranno nella storia il percorso della sua vita, lo spirito, l’energia con cui, da un paesino del Brasile, è partito per affrontare grandi viaggi. È stato l’unico danzatore/coreografo afro-brasiliano ad ottenere in poco tempo la fama, tanto da diventare punto di riferimento, un’ispirazione e un esempio da imitare.
La videoinstallazione dedicata al coreografo è stata l’occasione, attraverso le sue parole e frammenti di sue coreografie, di conoscere e comprendere la sua visione artistica. Ismael ha definito il corpo del danzatore “un’orchestra sinfonica”, in quanto è necessario suonare tutti gli strumenti nello stesso momento affinché si possa originare una vera danza. Per tutta la sua carriera ha sperimentato e ricercato un movimento che potesse distinguersi da quelli precedentemente codificati.
È sempre partito dallo studio della conoscenza di se stesso e del proprio corpo, fino a capire se l’originalità potesse mutare in innovazione, diventando a tutti gli effetti un creatore. Per Ivo non era importante portare in scena la sola cornice, il corpo allenato, per un fine estetico o per una strana forma di competizione, il danzatore deve altresì avere un grado di conoscenza del proprio corpo e una preparazione tecnica per affrontare ore di spettacolo, ma a questo deve aggiungere gentilezza, umanità, conoscenza di sé e del mondo che lo circonda in quel preciso istante. Ogni rappresentazione è differente da quella precedente, è sempre in trasformazione; la scenografia, il corpo, l’atmosfera, lo spazio, la musica, il pubblico devono essere sempre in connessione per creare qualcosa di nuovo, per esprimere diverse sensazioni. Per far sì che questo accada è necessario che coreografo e danzatore siano in stretta relazione, viaggino insieme, e raccontino fino all’ultimo movimento quello che hanno da dire.
A rendere omaggio all’artista due sue fidate danzatrici e storiche assistenti, Valentina D’Apuzzo Schisa ed Elisabetta Violante, entrambe campane, che con la messa in scena di frammenti di due sue coreografie hanno fatto rivivere agli spettatori un momento emozionante. La prima si è esibita in un Solo tratto dallo spettacolo BLACK/OUT che debuttò a Vienna per la prima volta nel 2016, la seconda in un Solo, estratto dello spettacolo OXYGEN, che Ismael Ivo coreografò per lei .
La seconda parte della serata ha visto protagonisti giovani danzatori diretti e coreografati da Martina Fasano, che hanno affrontato il tema della rinascita – da qui il titolo RE-BORN – di un pittore tra i ricordi, la solitudine e il desiderio di riscatto. Una pièce incentrata sulla messa in scena di un racconto attraverso lo studio del floor-work, del contact e delle tecniche di improvvisazione.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
È il regista polacco Krzysztof Warlikowski, figura emblematica del teatro post comunista che ha marcato la scena internazionale creando visioni memorabili, il Leone d’oro alla carriera per il Teatro 2021.
Il Leone d’argento ètributato all’inglese Kae Tempest, insieme poeta, autore per il teatro e di testi narrativi, rapper e performer di travolgenti e affollatissimi reading.
Lo ha deliberato il Consiglio di Amministrazione della Biennale di Venezia accogliendo la proposta di ricci/forte (Stefano Ricci e Gianni Forte), direttori del settore Teatro.
La premiazione avrà luogo nel corso del 49. Festival Internazionale del Teatro (2 > 11 luglio).
“Da più di vent’anni Krzysztof Warlikowski – secondo la motivazione – è fautore di un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale europeo. Utilizzando anche riferimenti cinematografici, un uso originale del video e inventando nuove forme di spettacolo atte a ristabilire il legame tra l’opera teatrale e il pubblico, Warlikowski sprona quest’ultimo a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente”.
Presente con le sue regie teatrali nei maggiori festival di tutto il mondo – dall’Europa alle Americhe – e con i suoi allestimenti lirici nei più importanti teatri d’opera – da Parigi a Londra e Salisburgo – Krzysztof Warlikowskiè“un artista libero – scrivono ricci/forte –che apre brecce poetiche illuminando con un fascio di luce cruda il rovescio della medaglia; che rompe la crosta delle cose toccando le coscienze; che scende nelle viscere del dolore e mette in discussione con ironia le ambiguità sia della Storia con la “s” maiuscola sia quelle della nostra esistenza individuale, offrendoci la visione di una società minacciata da cambiamenti radicali e sempre più assediata da una tentacolare classe dirigente di predatori famelici, evidenziando la violenza nei rapporti sociali e familiari e il bisogno urgente che l’emozione di un puro e semplice desiderio d’amore ci può donare”.
Kae Tempest è “la voce poetica più potente e innovativa emersa nella Spoken Word Poetry degli ultimi anni – recita la motivazione – capace di scalare le classifiche editoriali inglesi e raccogliere consensi al di fuori dei confini nazionali per il coraggio ardimentoso nel dissezionare e raccontare con sguardo lucido angosce, solitudine, paure e precarietà di vivere, i più invisibili eppure concreti compagni di vita della nostra epoca – tra identità, ipocrisie e marginalità vissute anche sulla sua pelle – scaraventandosi contro l’odierna morale imperante e opprimente.
A Kae Tempest, con una candidatura ai Brit Awards 2018 e riconoscimenti intitolati a Ted Hughes e T. S. Eliot, è ora attribuito il Leone d’argento per il Teatro 2021 – scrivono ricci/forte – “per l’audacia luminosa nel posizionare deflagranti inneschi riflessivi e per voler ancora sperimentare in un genere definito di nicchia, come la poesia, mescolando l’aulico con il basso, la rabbia con la dolcezza degli affetti – tra versi e rime taglienti di shakespeariana memoria e dal forte contenuto sociale, miti classici e ibridazioni hip hop – arrivando a parlare col cuore a un pubblico sempre più vasto, entrandoti fin dentro le ossa, costringendoti a specchiarti nella tua dolorosa intimità”.
The Book of Traps & Lessons è l’ultimo dei leggendari reading di Kae Tempest che verrà presentato in prima per l’Italia al 49. Festival Internazionale del Teatro.
In passato il Leone d’oro alla carriera per il Teatro era stato attribuito a Ferruccio Soleri (2006), Ariane Mnouschkine (2007), Roger Assaf (2008), Irene Papas (2009), Thomas Ostermeier (2011), Luca Ronconi (2012), Romeo Castellucci (2013), Jan Lauwers (2014), Christoph Marthaler (2015), Declan Donnellan (2016), Katrin Brack (2017), Antonio Rezza e Flavia Mastrella (2018), Jens Hillje (2019), Franco Visioli (2020).
IlLeone d’argento, dedicato alle promesse del teatro o a quelle istituzioni che si sono distinte nel far crescere nuovi talenti, è stato attribuito a Rimini Protokoll (2011), Angélica Liddell (2013), Fabrice Murgia (2014), Agrupación Señor Serrano (2015), Babilonia Teatri (2016), Maja Kleczewska (2017), Anagoor (2018), Jetse Batelaan (2019), Alessio Maria Romano (2020).
Cenni biografici
Krzysztof Warlikowski (Stettino – Polonia, 1962) firma i suoi primi spettacoli nel 1989, a 27 anni, dopo aver completato gli studi di filosofia e storia a Cracovia e di lingua francese e teatro greco alla Sorbona di Parigi.
Warlikowski ha creato un nuovo modo di mettere in scena Shakespeare e realizzato rivoluzionarie interpretazioni della tragedia greca, ma è anche noto per la messinscena di testi contemporanei. Nel 2002 la regia di Cleansed di Sarah Kane al Festival d’Avignon e poi al Festival de Théâtre des Amériques di Montreal, con la vasta eco ottenuta, segna un punto di svolta nella carriera artistica internazionale di Warlikowski.
Dal 2008 è Direttore artistico del Centro Culturale Internazionale Nowy Teatr di Varsavia, dove ad oggi ha diretto sei spettacoli basati sul montaggio di frammenti di testi diversi: (A)pollonia (2009), The End (2010), African Tales by Shakespeare (2011), Kabaret warszawski (2013), The French (2015), We Are Leaving (2018). Tutti spettacoli coprodotti con i maggiori teatri europei, come: Théâtre National de Chaillot e Odéon Théâtre de l’Europe di Parigi, Festival d’Avignon, Comédie de Cermont-Ferrand, Festival Greco di Atene, Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, Théâtre de Liège, Ruhrtriennale. All’Odéon Théâtre de l’Europe di Parigi ha diretto due spettacoli: Streetcar (2011) e Phaedra(s)(2016), protagonista Isabelle Huppert.
Le sue regie sono state presentate nei festival più importanti: Festival d’Avignon, Festival de Otoño di Madrid, Edinburgh International Festival, Wiener Festwochen, Next Wave Festival BAM di New York, Festival di Atene, Festival Internazionale del Teatro di Santiago a Mil in Cile, Festival Internazionale del Teatro PoNTI in Porto, Seoul Performing Arts Festival della Corea del Sud, Tianjin Canyu International Theatre Festival in Cina, Festival BITEF di Belgrado.
Warlikowski ha firmato regie liriche per importanti teatri d’opera europei, fra cui: La Monnaie di Bruxelles, Opéra National di Parigi, Teatro Real di Madrid, Bayerische Staatsoper di Monaco, Royal Opera House di Londra, Festival d’Aix en Provence, Rurhtriennale e Salzburg Festival. Il suo tentativo di “riteatralizzare” l’opera ne ha fatto uno dei registi più rivoluzionari in questo campo. Fra le sue regie liriche: Ifigenia in Tauride, L’affare Makropulos, Parsifal, La donna senz’ombra, Medea, Lulu, Don Giovanni, Bluebeard’s Castle/La voix humaine, Il trionfo del tempo e del disinganno e recentemente Die Gezeichneten, Da una casa di morti, Le Bassaridi, Lady Macbeth del distretto di Mzensk, Salomé, Contes d’Hoffmann, Electra.
Fra i numerosi premi ricevuti: il Premio dell’Associazione nazionale critici di teatro francesi per il miglior spettacolo straniero con Cleansed di Sarah Kane nel 2003 e di nuovo nel 2008 con Angels in America; il Premio Meyerhold a Mosca nel 2006 e il X Premio Europa nel 2008 a Salonicco, anno in cui riceve anche l’Obie Award del Village Voice di New York per Krum su testo di Hanoch Levin, presentato al BAM’s 25th Next Wave Festival; la “Maschera d’oro” per il miglior spettacolo straniero in Russia nel 2011 con (A)pollonia).
Kae Tempest, pseudonimo di Kate Esther Calvert (Westminster, 1985), fa coming out non binario nel 2020 annunciando pubblicamente il nuovo nome – Kae (pronunciato come la lettera K in inglese) Tempest – e la preferenza per l’utilizzazione del pronome plurale e non di genere (in inglese) “they”. Da allora le sue biografie si sono adeguate a questa indicazione.
La raccolta poetica Brand New Ancients vince ilTed Hughes Award 2012, uno dei massimi premi inglesi per la poesia, mentre nel 2014 la Poetry Book Society (fondata da T.S. Eliot) inserisce il nome di Kae Tempest nella lista, stilata ogni dieci anni, dei Next Generation Poets per la raccolta poetica Hold Your Own. I dischi Everybody Down (2014) e Let Them Eat Chaos (2017) sono stati candidati per il Mercury Music Prize. Il secondo è accompagnato dall’omonima raccolta di poesie, che a sua volta ha avuto una candidatura per il Costa Book of the Year nella categoria “Poesia”. Il terzo album, The Book of Traps and Lessons è stato pubblicato nel 2019 e candidato per l’Ivor Novello Award. L’ultima raccolta poetica si intitola Running Upon the Wires. Il romanzo d’esordio The Bricks That Built the Houses è premiato con un Books Are My Bag Readers destinato ai migliori scrittori esordienti.
Fra le opere teatrali commissionate a Kae Tempest si citano: Wasted, Hopelessly Devoted e Paradise, riscrittura del Filottete di Sofocle che sarebbe dovuto andare in scena al National Theatre lo scorso anno, poi rimandato per la pandemia ma pubblicato da Picador.
A ottobre 2020 la casa editrice Faber ha pubblicato il primo testo di non-fiction a firma Kae Tempest, On Connection. In Italia i libri di Kae Tempest sono pubblicati dalle Edizioni E/O.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Al via Biennale College Danza 2021 sotto la guida del neodirettore Wayne McGregor.
Da oggi martedì 19 gennaio fino al 19 febbraio 2021 sono on line sul sito web della Biennale di Venezia – www.labiennale.org – due bandi internazionali per selezionare rispettivamente 20 danzatori e 5 danzatori-coreografi, tutti professionisti di massimo 30 anni.
Biennale College Danza – secondo il progetto di Wayne McGregor – vedrà i 20 danzatori e i 5 danzatori-coreografi che verranno selezionati impegnati in due percorsi specifici, in parte condivisi, lungo l’arco di tre mesi (10 maggio > 31 luglio) a Venezia. I due percorsi confluiranno nella presentazione sul palcoscenico del 15. Festival Internazionale di Danza Contemporanea (23 luglio > 1 agosto) di un duplice programma:
due opere coreografiche di Wayne McGregor e Crystal Pite e la realizzazione di una nuova creazione (in via di definizione), commissionata dalla Biennale espressamente per il gruppo di danzatori di Biennale College
cinque brevi coreografie originali (ca. 15’)
I due percorsi saranno focalizzati nei primi dieci giorni propedeutici guidati da McGregor, sul Physical Thinking (o intelligenza cinestetica), da sempre oggetto di attenzione e studio da parte del coreografo britannico, attraverso la pratica coreografica e performativa. Un modo per costruire le capacità collaborative del gruppo e condividere tecniche per la generazione di materiale di danza e composizione coreografica. Una preparazione alle sfide che attendono i partecipanti.
I 20 danzatori saranno poi impegnati in sessioni quotidiane dedicate a tecniche di danza classica e contemporanea con maestri di livello internazionale; sessioni di approfondimento del mondo creativo e del repertorio dello stesso McGregor e di Crystal Pite,richiesta in tutto il mondo in qualità di coreografa, giàmembro del Ballet British Columbia e del Ballett Frankfurt di William Forsythe. I danzatori, inoltre, lavoreranno alla nuova creazione commissionata per loro e alla realizzazione delle 5 brevi opere originali concepite dai 5 danzatori-coreografi.
Nella loro duplice veste, i 5 danzatori-coreografi selezionati intrecceranno i due percorsi: saranno impegnati nella creazione individuale di una propria opera coreografica originale, scegliendo alcuni fra i 20 danzatori del College, ma condivideranno anche il percorso di lavoro tecnico, creativo e performativo con i danzatori.
Il testo ufficiale e dettagliato dei bandi internazionali di Biennale College Danza 2021 è consultabile all’indirizzo: http://www.labiennale.org/it/biennale-college
Biennale College è un’esperienza che dal 2012 integra tutti i Settori della Biennale di Venezia – Cinema, Danza, Musica, Teatro – per promuovere giovani talenti offrendo loro di operare a contatto con maestri per la messa a punto di creazioni.
Biennale College, realizzato dalla Biennale di Venezia, ha il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale dello Spettacolo e della Regione del Veneto.
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Un bagno in fondo a un corridoio o sotto la piazza di una città, o di un aeroporto, di un club o di una stazione di servizio. Lo attraversa un’umanità variegata e transitoria. È un luogo di passaggio, d’attesa, d’incontro tra sconosciuti, un camerino improvvisato dove fare scongiuri, nascondersi, sfogarsi. È un covo per i demoni, un’anticamera, una soglia prima di un congedo o un battesimo del fuoco.
Con Pandora, che ha debuttato a Venezia per la Biennale Teatro 2020, si conclude la Trilogia della Soglia di Teatro dei Gordi: in Sulla morte senza esagerare la soglia è lo spazio tra l’aldiquà e l’aldilà, in Visite tra il presente e il passato; in Pandora la soglia è il corpo, che, con la sua straziante fragilità, separa e congiunge noi e il mondo.
Ne abbiamo parlato con il registaRiccardo Pippa, intervistato in occasione della replica di Pandora al Teatro Franco Parenti di Milano.
Pandora
Teatro dei Gordi
Com’è nato il collettivo Teatro dei Gordi?
Siamo tutti diplomati in Paolo Grassi. Il gruppo è nato nel 2010, io sono arrivato dopo. Ho conosciuto i Gordi durante un laboratorio di drammaturgia con Renata Molinari: mi ero già diplomato, ma stavo frequentando il laboratorio perché mi interessava molto il suo lavoro e stavo scrivendo una tesi di laurea su di lei. Così ho conosciuto la loro classe. Avevo scritto il canovaccio del mio primo spettacolo, che poi è diventato Sulla morte senza esagerare, avevo in mente questa follia, uno spettacolo sulla morte con le maschere, e ho pensato di iniziare con loro. Da lì è nato un percorso nuovo, insieme.
Avete appena debuttato alla Biennale Teatro 2020 con Pandora. Come siete approdati all’idea di ambientare il vostro nuovo lavoro in un bagno pubblico?
La scintilla iniziale per Pandora è stata una richiesta esterna. A giugno dell’anno scorso, Antonio Latella, che aveva visto il nostro secondo spettacolo, Visite, ci ha invitati in Biennale per l’edizione 2020 che avrebbe ospitato solo debutti nazionali e per la quale ha attivato una call tra gli artisti italiani, intorno al tema della censura.
Pensando alla censura, il primo riferimento che mi è venuto in mente è stato il mito di Pandora, perché tendo a usare il mito come punto di partenza. Abbiamo dovuto comunicare il titolo con largo anticipo. Pandora vuol dire “tutti i doni”, è un titolo abbastanza onnicomprensivo, per cui sarebbe stato difficile andare fuori traccia. Sono venute fuori tante idee e ci sono stati molti cambi di rotta, finché, a un certo punto, è saltata fuori la soluzione del bagno pubblico.
Inizialmente avevo immaginato lo spazio di un camerino teatrale, pieno di vestiti, dove un’umanità variegata andava a cambiarsi, come fosse un camerino della vita. Poi mi son detto che questa idea, già teatrale, inserita all’interno di un teatro avrebbe creato un doppio. Bisognava dare vita a una prospettiva altra, a qualcosa che potesse essere l’equivalente di un camerino nella vita: dove gestire imprevisti di vario tipo, appartarsi, piangere. Ecco perché come luogo abbiamo scelto quello di un bagno pubblico.
Il bagno pubblico innesca subito un immaginario collettivo, è qualcosa a cui ognuno di noi collega ricordi e sensazioni. Mi è sembrato un non-luogo prima di tutto adatto al tema, perché fa i conti con la nudità, col nascondersi, con un qualcosa che deve essere necessariamente privato, inoltre adatto al momento che stiamo vivendo: il bagno pubblico è il luogo per eccellenza in cui risulta problematica la presenza dell’altro, è un non-luogo familiare e ostile allo stesso tempo. Non è certo una sala d’aspetto in cui ci si siede a leggere. Ha a che fare col corpo, coi confini del corpo, con la paura del mostrarsi e del contatto fisico.
In termini di processo creativo, in cosa consiste il rapporto tra te, ideatore e regista, e la dramaturg Giulia Tollis?
Ho sempre avuto una predilezione per questa figura, difatti la mia tesi di laurea era su Renata Molinari, che è stata soprattutto una dramaturg. In Italia il dramaturg viene spesso confuso col drammaturgo, che ha un ruolo invece più autorale. Il dramaturg è una sorta di tramite, è come se creasse ponti, e ha ruoli differenti a seconda dei contesti. È una figura secondo me essenziale, basilare. Il dramaturg potrebbe per esempio lavorare per uno Stabile all’interno di un ufficio letterario, per collegare i teatri nazionali alle nuove drammaturgie, per indicare quella che potrebbe essere una linea di proposta artistica, che sembra sempre debba essere demandata a un’unica grande testa e questo è un peccato.
All’interno del lavoro scenico, il dramaturg crea dei contatti tra gli attori e il testo, può essere un consulente letterario, può curare l’adattamento di un testo. Nel nostro caso il dramaturg può dare anche delle suggestioni creative, ma ha prima di tutto una grande capacità di ascolto, più che un approccio autorale. Mi ricorda la gioia e lo stupore di certe scoperte, perché nella ripetizione a un certo punto ci si annoia e si cambiano le cose semplicemente perché le abbiamo viste ripetersi.
Giulia ha un orecchio veramente attento e una sensibilità altissima. Il momento della creazione è difficile: a volte, se ti immagini da solo, davanti al foglio bianco ti blocchi. Se invece devi raccontare qualcosa a qualcuno riesci a formalizzare meglio ciò che hai in testa. Giulia si sorbisce i miei deliri e i miei momenti di frustrazione, ma ha anche quella distanza sana che le permette di vedere ciò che è più conveniente e giusto fare.
Qualsiasi tipo di lavoro creativo ha dei confini impalpabili, quello del dramaturg forse ancora di più. Per noi che lavoriamo molto con le improvvisazioni, avere fiducia nel lavoro e nello sguardo di chi ci osserva è fondamentale.
L’umanità variegata di Pandora, che si mostra sul palco in un’alternanza di momenti comici e tragici, poetici e prosaici, mi ha fatto pensare a Cinema Cielo di Danio Manfredini o a certi lavori di Maguy Marin o dei Peeping Tom. Quali sono i tuoi riferimenti, teatrali e non?
Mi sento abbastanza onnivoro, sono annoiato da una certa prosa, sento che c’è un problema legato all’interpretazione, alla credibilità. Con questo gruppo sto cercando di fare innanzitutto qualcosa di credibile, a prescindere dalle scelte formali. Ti faccio un esempio: in Pandora abbiamo abbandonato la maschera, che tanti credevano fosse lo stile distintivo del nostro lavoro. Per noi la maschera non è mai stata una scelta stilistica, ma drammaturgica.
Ci servono le maschere per raccontare qualcosa? Le usiamo. Ma non è che dobbiamo usare le maschere perché siamo i Gordi. Mi piace vedere delle cose che posso vedere solo a teatro, fare un’esperienza altra senza frustrarmi per una prosa cinematografica che, nel cinema, ha i mezzi per essere molto più permeante ed esaustiva, anche a livello interpretativo. Un regista cinematografico che ha influenzato il mio immaginario è sicuramente Roy Andersson, amo di lui la sobrietà, il ritmo e l’ironia. I suoi personaggi parlano poco, la parola è scarna ed essenziale.
Faccio fatica a individuare all’interno del percorso dei Gordi dei riferimenti precisi. Una suggestione forte per noi è stata Die Stunde da wir nichts voneinander wußten, L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, tratto da una drammaturgia di Peter Handke. Era uno spettacolo fatto di passaggi e il nostro è un non-luogo dello stare. È stato per noi un riferimento importante.
Se parliamo degli spettacoli precedenti, chiunque ci abbia chiesto in passato dei nostri riferimenti, ci ha anche chiesto dei Familie Flöz. Quando abbiamo cominciato a usare le maschere, ovviamente ognuno di noi conosceva il loro lavoro che ha in primis il merito di averci mostrato un teatro possibile, cioè fatto interamente con maschere integrali mute. Ma il nostro percorso è stato da subito diverso. Per loro la maschera è una scelta stilistica a priori e si tratta di una drammaturgia fatta per sketch, dove non mancano i virtuosismi dal punto di vista musicale e circense.
Noi di virtuosi non ne abbiamo, cerchiamo di raccontare storie e pezzi di vita; inoltre, in passato, abbiamo sempre lavorato sulla compresenza di attori con la maschera e senza. InSulla morte senza esagerare ci occorreva la maschera per rappresentare una morte riconoscibile, proprio col teschio, e per portare in scena il trapasso, la compresenza di due mondi, così come nel secondo, Visite, per rappresentare la soglia tra presente e passato.
Nominando alcuni riferimenti mi sembra di fare un torto agli altri. Uno spettacolo che porto nel cuore è The Crying Body di Jan Fabre, sempre a proposito di teatri possibili. Potrei elencarti tanti altri incontri folgoranti.
Perché la scelta di un teatro del silenzio, che rinuncia alla parola?
Non c’è una scelta a monte nel rinunciare alla parola. A noi interessa andare a vedere le situazioni in cui la parola non basta, o non serve o fallisce. Abbiamo voglia di indagare il gesto e di esplorare le commistioni di linguaggi. Magari nel prossimo spettacolo ci sarà più parola o più canto, non escludo nulla.
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