Immagine tratta da Les Enfants du paradis di Marcel Carné, 1945
Nonostante le immagini siano da tempo immemore veicolo di comunicazione, è dall’Ottocento in poi, con la nascita della fotografia – e poi del cinema, della televisione e di internet – che esse hanno assunto un’importanza sempre maggiore come via di accesso alla conoscenza. Eppure la didattica scolastica si è adattata con scarsa elasticità a questo cambiamento, restando orientata verso un tipo di educazione basato principalmente sulla lettura, piuttosto che sulla visione.
Casa dello Spettatore – associazione culturale che prosegue da anni la ricerca e la missione del CTE (il Centro Teatro Educazione, attivo dal 1997 al 2010 come struttura dell’Ente Teatrale Italiano) – si inserisce in questo contesto apportando il suo contributo tra i vuoti istituzionali ed educativi, ma anche favorendo la nascita di comunità spontanee attorno all’esperienza del teatro, grazie a un gruppo di mediatori che si occupano di portare avanti i cosiddetti “percorsi di visione” con iniziative su tutto il territorio.
Ma perché proprio il teatro e in cosa consiste praticamente la loro attività? A questo e ad altri quesiti ha risposto Giuseppe Antelmo, mediatore teatrale che si è formato e opera con Casa dello Spettatore.
Parliamo del vostro metodo, la “didattica della visione”: quali sono gli elementi fondanti e le finalità verso cui si orienta? Come vi si inserisce il teatro?
Se si considera il teatro come il primo audiovisivo della storia, e la sua funzione, perlomeno in Occidente, di partire da vicende personali per arrivare poi a trattare questioni di interesse sociale, possiamo rintracciare nei suoi elementi gli spunti per organizzare un discorso più ampio che faccia dello spettacolo “l’epicentro di una piccola o grande unità didattica” – riprendendo le parole del presidente e fondatore di Casa dello Spettatore, Giorgio Testa – nonché l’opportunità di attuare forme di cooperazione educativa.
Lo spettatore che va a teatro, infatti, porta con sé un bagaglio di esperienze pregresse, costituite dal pre-visto e dal pre-conosciuto che, nel dato momento del qui e ora, incontrano l’arte, con esiti spesso poco prevedibili. È per questo che la ricerca dello spunto educativo è continua e non si basa su una formula standard – non esistendo, per l’appunto, una persona standard – e utilizza strumenti e tecniche presenti in ogni didattica, ma altamente flessibili. La rielaborazione dell’esperienza e lo sviluppo di una traccia che ci si era prefissati di portare avanti dopo la visione di uno spettacolo, può infatti prendere strade secondarie o, addirittura, essere abbandonata ma non per questo persa.
È il gruppo, nella sua variabilità, a determinare di volta in volta l’evoluzione del percorso, dove non esiste “giusto o sbagliato”. In quest’ottica, educare alla visione ha l’obiettivo di portare, attraverso la presa di familiarità con le forme e i linguaggi che lo caratterizzano, a una maggiore frequentazione del teatro, favorendo la progressiva consapevolezza dell’essere spettatori – e in senso più ampio, cittadini – e lo scambio di ciò che si è adesso.
I percorsi di educazione alla visione sono rivolti dunque ad allievi in età scolare, ma anche agli adulti (insegnanti e famiglie), nonché a un pubblico largamente eterogeneo che si costituisce spontaneamente in comunità di spettatori. Una varietà di interventi di cui vorremmo sapere di più, anche in riferimento ai feedback che ne conseguono.
La comunità degli spettatori è formata da adulti che hanno condiviso percorsi di visione cittadini, a partire da una selezione degli spettacoli in programmazione nei vari teatri della città, secondo nuclei tematici o di linguaggio. In questa comunità così strutturata, i partecipanti hanno trovato dunque spazio e tempo per condividere l’attesa, l’esperienza e infine la rielaborazione attorno alla visione di uno spettacolo teatrale. L’accettazione di questa proposta, con percorsi che vanno avanti dal 2012, è indicativa di un bisogno e di una partecipazione realmente sentita, che ha portato all’instaurarsi di nuclei fissi, ampliatisi nel tempo.
Altre iniziative sono quelle rivolte ai genitori: ad esempio Famiglia a teatro, progetto che ha coinvolto con interesse genitori e figli nella visione di spettacoli; un’esperienza condivisa che determina l’annullarsi dell’asimmetria nei ruoli e favorisce spunti per il dialogo, in un tempo separato da quello istituzionale e con una distanza che normalmente non c’è in ambito domestico.
Vi è poi una doppia modalità per quanto riguarda il percorso degli insegnanti: da un lato, l’accoglienza della proposta di portare la classe a teatro e la presenza agli incontri coi mediatori di Casa dello Spettatore e gli studenti; dall’altro, i corsi di formazione esterni al contesto classe, dai quali si possono poi ricavare modelli e approcci da implementare all’interno della scuola, per favorire ad esempio un tipo di apprendimento cooperativo.
In tal senso, sono stati svolti anche corsi specifici per insegnanti di sostegno, i quali potrebbero riconoscere metodologie adeguate per venire incontro ai cosiddetti “bisogni educativi speciali” dei loro allievi. E sono proprio gli insegnanti, infine, a darci una conferma che le impressioni ricavate da noi mediatori, in termini di attenzione e interesse, corrispondano alla realtà. Segnali positivi che di solito si osservano quando si crea una certa continuità negli incontri.
I giovanissimi, pur essendo del tutto immersi in un mondo di immagini, sono paradossalmente poco “allenati” alla visione. Il “cosa” guardano è realmente il problema?
Io credo che più che poco allenati alla visione, essi abbiano poche occasioni di condividere una riflessione sull’esperienza in un contesto educativo. Non sempre accade infatti che le famiglie portino i ragazzi a teatro e spesso il primo approccio avviene con la scuola; ma è sempre da tenere in considerazione il numero di occasioni e le modalità di confronto. Riferendoci alla questione del “cosa” guardano, ci si muove su un terreno scivoloso, poiché subentra il giudizio su ciò che è brutto o bello, valido o no, quando l’importante è verificare il senso dell’esperienza dalla viva voce di colui che l’ha fatta, il “come” più che il “cosa”.
Senza contare l’entrata in gioco di un elemento, ovvero il gusto personale, da cui non si può prescindere nemmeno dopo che, frequentando il teatro, esso si è gradualmente affinato. Anche il mediatore teatrale, come tutti, ha il proprio gusto, ma questo non deve costituire il criterio di scelta, dato che il punto di partenza del percorso è l’individuazione, di volta in volta, dello spunto educativo che uno spettacolo può offrire.
Inoltre, ciò che rimane centrale, al di là dell’impressione positiva o negativa dopo aver visto un’opera teatrale, è la rielaborazione personale e soprattutto collettiva che ne consegue: nessuno infatti vedrà mai la stessa identica cosa, e il teatro, in questo senso, offre una grande libertà allo sguardo che diviene persino anarchico, difficile da imbrigliare. Essendo poi un’esperienza di compresenza dal vivo, gli elementi che entrano in gioco sono diversi.
Ciò che manca adesso è proprio l’elemento di compresenza, il dialogo dal vivo tra palco e platea e tra spettatore e spettatore. Come vi siete adattati al cambiamento imposto dalla pandemia, ora e nel periodo del lockdown?
Intanto, partirei da una premessa: non si può pensare che l’esperienza dal vivo sia sostituibile con quella a distanza. È un dato di fatto e pensare il contrario cercandone dei surrogati creerebbe solo frustrazione. L’imposizione di un mezzo che si frapponga tra pubblico e il teatro, o all’interno di un patto con finalità educative, non dovrebbe essere vista come una triste alternativa a ciò che non si può al momento avere. Bisognerebbe osservare le nuove possibilità che apre, tra cui quella di entrare in contatto con un linguaggio.
Faccio qualche esempio: prima dell’arrivo della pandemia, a Bari, stavamo tenendo un corso di formazione rivolto agli insegnanti, avente per oggetto uno spettacolo di danza ispirato a La metamorfosi di Kafka, per mantenere il dialogo tra lettura e visione. Una volta sopraggiunto il lockdown, questo binomio che crea l’unità didattica, e che pareva destinato a perdersi, si è ricomposto, attraverso un riadattamento in termini di tempo, gruppo e contenuto.
Per continuare a lavorare a distanza, e in maniera gestibile, si è sentita l’esigenza di dividere gli insegnanti in tre gruppi; si è sostituito il racconto La metamorfosi con uno più breve, sempre di Kafka, e la visione si è rivolta verso corti cinematografici trovati in rete e ispirati a quell’opera. Si è così potuto mantenere un occhio teatrale pur osservando qualcosa di diverso. Questo è poi il senso in cui si è evoluta la didattica della visione.
Come è evoluto il metodo negli anni, cosa è cambiato?
Ciò che è cambiato è il rapporto con le altre arti: mentre prima il teatro era centrale (e continua assolutamente ad esserlo) e le altre forme artistiche costituivano un controcanto per arrivare a parlare di esso, da qualche anno ci siamo concentrati sul confronto tra esperienze diverse, a un livello più paritetico. Il cinema, ad esempio, si è rivelato una grande risorsa anche per il progetto Allunaggi mitici, iniziato circa due mesi fa, quando ancora si poteva andare a teatro.
A proposito del progetto Allunaggi mitici, di cosa si tratta e come è proseguito a seguito della seconda chiusura dei teatri?
Si tratta di un progetto in collaborazione con la Compagnia La luna nel letto di Ruvo di Puglia, che ha voluto formare una comunità di spettatori sul territorio. A causa dei lavori di ristrutturazione del Teatro Comunale in loro gestione, gli spettacoli, che avevano come tema la rielaborazione contemporanea dei miti, sono stati allestiti in una chiesa nel periodo di ottobre e, seguendo una modalità mista, il percorso di visione è avvenuto a distanza, con il supporto del materiale didattico in digitale, altra grandissima risorsa.
Una volta che anche lo spettacolo dal vivo è stato sospeso, quella stessa comunità ha deciso di proseguire il dialogo e, anche in questo caso, è avvenuta una transizione dal teatro al cinema: per continuare sul filone del rapporto tra mito e religione è stato scelto il film La via lattea di Luis Buñuel e, per mantenere almeno “l’ora”, non essendo possibile il “qui”, ci si è dati un appuntamento per guardarlo insieme. Si è poi creata una nuova fase intermedia tra la visione e l’incontro a distanza condividendo le prime impressioni sul film attraverso un gruppo Whatsapp.
Quest’esperienza tenace ed entusiasmante è dunque la dimostrazione che distanziamento fisico non sempre equivale a distanziamento sociale e che l’uomo, da sempre, fin dai segnali di fumo, ha sempre cercato di rimanere in contatto e di soddisfare il suo bisogno di socialità. Anzi, è proprio nella distanza che può misurarsi il livello di un certo bisogno: penso anche alla trasmissione della cultura attraverso i libri, o alle lettere d’amore tra gli innamorati che non possono vedersi.
Potremmo dire che il sentimento acquisisce ancora più valore nella distanza…
Bisogna certo capire quanto questo amore sia realmente forte. Come si dice: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Lontano dagli occhi, quanto? Lontano dal cuore, quanto? Anche per ciò che riguarda il teatro questo è un buon momento per capirlo.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
1. Un d’gl’ dieci mtiv p’fà st’esperienza d’CastellinAria
La possibiltà d’stabilì ‘n contatt tra gl’ommn e la Natur: d’fà l’escursion ‘n cima agl’ mont d’Alvit e Ucalw. Oppur s’puo’ ì ncima agl’ cavagl’ e ‘uardà gl’panoràm. Agl’castiegl s’possn veré n’sacc’ d’biegl’ spettacl p’ s’rfa’ gl’occhie e passà na srata agl’frisc mies agl’artist: asscì, s’mparàn tant cos nov e s’fà c’accos’avt. CastellinAria c’fa fa’ amicizia, c’fa’ sntì la musica e c’fa’ balla’ ‘nsem comm a na tribù.
2. Valorizzazione del territorio
Alvito e il suo Castello, spesso dimenticati, diventano i protagonisti della Valle di Comino grazie allo spettacolo dal vivo. Realtà piccole ma con una grande anima come #Castellinaria: una piccola comunità fatta di grandi persone che lottano per valorizzare il territorio che abitano.
3. Un Festival giovane
Gioventù e teatro. Elementi semplici in un sistema complesso facilitato dalla determinazione dei giovani volontari e degli artisti ospiti del festival organizzato dalla Compagnia Habitas. Lo zelo e la passione hanno permesso di rendere un’arte con più di 3000 anni di storia più viva e grintosa che mai.
4. Mettersi in gioco senza paura
Al Castello Cantelmo di Alvito, nell’atmosfera magica creata dagli artisti e dallo staff, la paura di esporsi dopo essersi messi in gioco viene soppiantata dalla libertà di esprimersi, sentendosi parte del festival.
5. Ragione o Sentimento?
Secondo quale prospettiva lo spettatore neofita dovrebbe scegliere di guardare uno spettacolo? Dopo una settimana d’arte, emozioni e riflessioni si uniscono fino a confondere la visione del pubblico; ma la confusione non è sempre ingannevole, spesso, permette di interrogarsi intorno a questioni che nella quotidianità non sorgerebbero. Così a CastellinAria è stato possibile squarciare il velo di Maya, sperimentando il dolce e feroce inganno di interrogare la vita attraverso mille domande.
6. Scoprire l’arte
Avvicinarsi all’universo artistico: CastellinAria permette la connessione tra pubblico e spettacolo dal vivo attraverso il coinvolgimento emotivo e la partecipazione attiva. Lo spettatore viene preso per mano e condotto in un’esperienza destinata ad arricchirlo, una catarsi capace di cambiarne in profondità l’animo umano.
7. Sentirsi attori
Assistere allo spettacolo. Applaudire. Riflettere. Sentire. Prendere posto in platea, osservare la scena. Le voci degli artisti. Le luci che colpiscono il viso. Immaginarsi al loro posto. Paura. Emozioni, dalle più vere alle più fittizie, da condividere. Diventare parte dello spettacolo. Sentirsi attori non protagonisti, ma necessari.
8. Conoscere le tradizioni locali
La leggenda, esattamente come il mito, la favola e la fiaba, fa parte del patrimonio culturale di tutti i popoli ed è caratterizzata dalla fusione di magico e reale, marcando l’importanza dell’immaginazione e della fantasia, come mezzo per educare e per superare le paure umane. Fondamentale è la funzione sociale e antropologica svolta dalla tradizione delle leggende e dai miti in una liaison volta a connettere un gruppo, una comunità, un popolo, l’umanità. Come in ogni luogo, anche ad Alvito, esistono tradizioni, usi e costumi secolari che vivono nella memoria popolare di tutti gli abitanti: CastellinAria ha rappresentato un’occasione unica per poter conoscere e vivere intensamente la cultura del territorio, grazie all’arte del teatro.
9. Innovazione nella Valle di Comino
La Valle di Comino, luogo d’ispirazione per molti artisti, ha un profondo legame con l’arte e l’innovazione sin dai tempi più antichi. Si potrebbe immaginare il territorio che circonda la città di Alvito come un’immensa “incubatrice” per le idee innovative. CastellinAria, nell’atmosfera della Valle, si pone come punto di riferimento per gli artisti provenienti dal territorio nazionale e internazionale.
10. Vivere il digitale, raccontando la realtà
La narrazione digitale permette di vivificare i momenti vissuti rendendoli autentici nel ricordo: immaginarsi di nuovo nella platea del Castello di Alvito assaporando l’attesa dell’inizio dello spettacolo, rievocare l’emozione dell’incontro tra artisti e spettatori. Sensazioni catturate da una lente che, attraverso il digitale, racconta un frammento di realtà vissuta.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Trilogia: tre atti di vita, allegoria della peregrinazione volta al conseguimento della presa di coscienza del Sé e dell’altro da Sé. Tre atti di vita: incarnazione dell’amalgama di sacro e profano, divino e mefistofelico. Cena, Eden e Passione, tre momenti biblici inseriti in un contesto crudele, brutale costantemente atemporale. Un percorso sofferto, tormentato, demoniaco, difficile da percorrere e caratterizzato da inganni, trappole, botole segrete. Un cammino angoscioso verso la vetta. Vetta, che si identifica con l’utopistica felicità che porta all’abolizione di quel senso di insoddisfazione cronica e di quel vuoto incurabile tipico della “Trilogia”, radicati nell’umanità.
Un’ascesa-discesa metaforica nel Parnaso, dove la salita intensamente agognata si rovescia – tragicamente – nel suo opposto. Ci si trova dannatamente nella reggia infernale del Pandemonio, nell’ordinaria e dozzinale quotidianità, scoprendo che, ironicamente, si è sempre stati nel Giardino dell’Eden. In quel παράδεισος, un “giardino recinto” che ricalca ancora e ancora l’impossibilità di sottrarsi dall’impasse psichica e dal ristagno emotivo-esistenziale. Non si sale non si scende, ma si gira in tondo, ricalcando un ouroboros maligno e immortale.
Valeria Amata
Trilogia – Tre atti di vita di Evoè Teatro
Tre atti in cui il sacro si fonde col profano, tre come la Santa Trinità, tre come il numero della perfezione, solo illusoria. L’idillio si trasforma in incubo, il trittico di generi teatrali – commedia, dramma, tragedia – coinvolge il pubblico in un climax discendente nel quale sensazioni contrastanti dominano la scena. Vicende apparentemente scollegate ma unite da un filo invisibile: la solitudine dell’essere umano e il malessere esistenziale, ferite interne che non possono essere curate, cicatrici dell’animo nascoste dietro convenzioni sociali, maschere e sorrisi falsi.
La più grande bugia che i personaggi possano raccontare è rivolta solo a loro stessi, convincersi di avere una vita perfetta ma vacante se osservata più da vicino, credere di stare in piedi ma rendersi conto che in realtà è solo un equilibrio precario, sapere che prima o poi si cadrà inesorabilmente. Una pièce che scava a fondo nell’umano sentire, provocando un forte senso di empatia tra chi recita e chi osserva, in un rapporto di ebbra simbiosi.
Simona Rella
Trilogia – Tre atti di vita di Evoè Teatro – CastellinAria
“In fondo è come se lo spazio fosse anima, un’anima vasta e i corpi impulsi nervosi che però devono abitare la disciplina per rendere il rapporto comune, comunitario, organico a un organismo superiore”. Questa citazione di Vincent Lounguemare, presente nel foglio di presentazione dello spettacolo, ci permette di capire il problema sociale dei rapporti umani, la continua ricerca della perfezione per non essere mai contraddetti e giudicati dalle persone appartenenti al mondo esterno.
“Trilogia – tre atti di vita”- partendo dalla narrazione degli episodi biblici dell’Ultima cena, dell’Eden e della Passione di Cristo – mette in discussione la routine e la monotonia, imposte dalle condizioni frenetiche e alienanti della società contemporanea, nate dalla disperazione e dalla paura di poter essere sé stessi. Ogni individuo, alla ricerca di un Eden, spazio felice dove poter vivere, subisce i colpi di un’illusione crudele attraversando il malessere della propria esistenza, per cercare di raggiungere infine una insperata pace interiore .
Leonardo D’Alessandro
Trilogia – Tre atti di vita Da un’idea drammaturgica di Paolo Grossi
Testo e regia: Paolo Grossi Con: Emanuele Cerra, Stefano Detassis, Federica Di Cesare Light designer e tecnico luci: Emanuele Cavazzana; Scene: Lorenzo Zanghielli; Costumi: Elena Beccaro; Produzione: Evoè! Teatro
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
“Pezzi” di Rueda Teatro, regia di Laura Nardinocchi con Ilaria Fantozzi, Ilaria Giorgi e Claudia Guidi.
“Una visione molto grande è necessaria e l’uomo che la sperimenta deve seguirla come l’aquila cerca il blu più profondo del cielo.”
La citazione qui riportata appartiene a Cavallo Pazzo, un capo Sioux, ed è ciò che meglio esemplifica quello che sta accadendo in questi giorni al Castello Cantelmo di Alvito: dal 3 al 10 di agosto, il festival organizzato dalla compagnia Habitas, “CastellinAria”, dimostra come grandi progetti possano diventare realtà grazie alla volontà di più persone nel voler perseguire un sogno. Inoltre, non è un caso che il tema di quest’anno sia “Segnali di fumo”, incentrato sulla cultura dei nativi americani: l’atmosfera è pregna delle peculiarità della popolazione pellerossa quali la condivisione e la solidarietà tra i partecipanti. Come previsto dal programma, anche la quarta serata è stata caratterizzata da uno spettacolo, ovvero “Pezzi” di Rueda Teatro, regia di Laura Nardinocchi con Ilaria Fantozzi, Ilaria Giorgi e Claudia Guidi. È l’8 dicembre, giorno della festa dell’Immacolata durante il quale le famiglie preparano l’albero di natale.
Non sottraendosi a questa tradizione, una madre e le sue due figlie, Maria e Marina, con rami, palline, luci e festoni decorano l’albero ma le loro emozioni tradiscono parole e azioni. Le discussioni a voce alta celano un disagio di fondo che culminerà, gradualmente, nella scoperta da parte del pubblico della morte del padre/marito. Il rapporto tra le tre donne è inevitabilmente segnato dalla scomparsa dell’uomo fin dall’inizio dello spettacolo: la madre assume il ruolo del patriarca ma vorrebbe vivere il suo lato femminile ballando il tango e facendosi stringere da forti braccia, Maria assume comportamenti infantili, Marina è ribelle e vorrebbe evadere verso terre lontane.
Tutte loro hanno sviluppato un meccanismo di difesa per cercare di dimenticare, ma il ricordo si insinua, involontariamente, all’interno dei momenti apparentemente lieti e negli oggetti, lasciando il posto a silenzi vuoti in realtà assordanti. Il momento clou rimane la preparazione dell’albero, evento che scaturisce lo svilupparsi del simbolismo della vicenda: l’arbusto consiste in un asse in cui infilare dei rami. È spoglio, come se comunicasse allo spettatore un presagio di morte in contrapposizione allo spirito superficialmente allegro della madre che lo prepara recitando i numeri della tombola, coadiuvata da una spensierata Maria.
È proprio la figura della madre che cerca di reggere la parvenza di serenità natalizia, come quando cerca di rievocare l’attesa dello spirito dello Scarpariello per la figlia Maria, vedendo vanificato il suo sforzo da Marina che riporta alla mesta realtà presentandosi con una scatola colma di cravatte appartenute al padre. La contrapposizione principale rimane in ogni caso quella tra la vita e la morte: l’immacolata concezione, giorno nel quale si annuncia alla Madonna la nascita imminente di Gesù nel presente e i funerali del padre nel passato; un gioco di luci calde intervallato da quelle fredde, blu, del colore della malinconia per antonomasia; le luci natalizie e le luci dei ceri funerari; la preparazione dell’albero e il conseguente disfacimento di esso.
“Pezzi” di Rueda Teatro, regia di Laura Nardinocchi con Ilaria Fantozzi, Ilaria Giorgi e Claudia Guidi.
Il finale dello spettacolo è significativo, rappresenta il punto di svolta nel quale si comprende che il dolore non può essere evitato, che l’assenza di una persona amata non è colmabile con la presenza di altre, che la mancanza è percepita in ogni angolo della casa e non può essere adombrata dall’illusione. La morte del padre/marito ha lasciato solo frammenti di ciò che è stato. Le tre figure, in conclusione, realizzano in una sorta di epifania, che quei pezzi, quelle cravatte e quei ricordi, vanno rimessi insieme per commemorare l’assente figura maschile rendendola ancora viva, in una maniera serena, celebrativa e intrisa allo stesso tempo di nostalgia.
I pezzi rappresentano anche le tre figure femminili, sconnesse e divise a partire dal momento della tragedia, che arrivano a capire, sul finale, che solo attraverso l’unione e la forza reciproca potranno continuare a guardare avanti. “Pezzi” ci insegna come le tragedie possano facilmente creare barriere tra individui e al medesimo tempo come queste barriere possano essere abbattute attraverso il sostegno incondizionato e la comprensione dei sentimenti più disperati e infelici affinchè possano incubare il dolore e razionalizzarlo.
Marcel Proust diceva “l’assenza è, per colui che ama, la più sicura, la più efficace, la più viva, la più indistruttibile, la più fedele delle presenze.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Luminosi fuochi d’arte illuminano la verde Val di Comino. Segnali di fumo si levano tra i monti, a testimoniare la vitalità di quella eterotopia culturale, ideata dalla Compagnia Habitas, che è il Festival CastellinAriagiunto alla seconda edizione.
Un pulviscolo di sogni e proposte che racconteremo
attraverso lo sguardo degli studenti e delle studentesse dell’Università degli
Studi di Cassino, impegnati in un laboratorio di Audience Development &
Digital Storytelling durante il quale tracciare e apprendere, insieme, le tecniche
della narrazione transmediale.
Teatro, danza, musica, formazione e tradizione, animeranno
il piccolo Borgo di Alvito in questa settimana di creatività e ripopolamento
del territorio.Un programma serrato in cui si intrecciano le esperienze
degli autoctoni e le proposte artistiche di coloro che, come appartenenti a una
tribù, hanno colonizzato un terreno fertile in cui piantare il totem della
creatività giovane.
Attraverso video, foto, approfondimenti e incontri,
declinati nelle diverse possibilità offerte dalla comunicazione digitale,
restituiremo le attività del festival per trasportarvi tra le antiche mura del
Castello Cantelmo di Alvito, palcoscenico in Aria di una manifestazione
meritevole di sostegno e attenzione.
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