20 anni di Attraversamenti Multipli: ogni cosa, ogni persona è connessa

20 anni di Attraversamenti Multipli: ogni cosa, ogni persona è connessa

Non è stata la superstizione legata alla numerologia o alle date nefaste e nemmeno il rischio di temporali, la pioggia a fermare il debutto, la serata inaugurale del Festival Attraversamenti Multipli, venerdì 17 settembre.
Il consueto appuntamento, preludio d’autunno, curato da Margine Operativo con la direzione artistica di Alessandra Ferraro e Pako Graziani, è un progetto artistico che si è sviluppato, fin dal 2001, in una serie di eventi crossdisciplinari, condivisi e vissuti all’interno di spazi urbani.

Gli spettatori sono ritornati numerosi a vivere il rituale collettivo del Teatro, nell’agorà di Largo Spartaco a Roma e, infatti, il tema di quest’anno mette al centro la relazione tra i corpi insieme alla convergenza tra spazio e tempo. Tra l’arte e la dimensione della socialità. Tre anni fa sarebbe risultato come un aspetto troppo scontato su cui porre l’attenzione, ma è bastata una pandemia globale, una lunga fase di emergenza sanitaria per svuotare quella corrispondenza erotica tra artisti in scena a pubblico. Cosa è cambiato nel frattempo? Cosa è rimasto uguale? 

Di certo possiamo affermare che è una sensazione entusiasmante ritrovarsi per un assistere a un evento, confrontarsi nel dialogo, bere una birra. Possiamo anche ribadire che abbiamo compreso tutti la differenza tra distanziamento fisico e distanziamento sociale. Abbiamo applicato il primo per correggere il secondo, in modo pieno e consapevole, anche quando andiamo al teatro o partecipiamo a un evento pubblico.

È bello vedere differenti generazioni che si riuniscono ancora tra di loro, incrociandosi e cercando di contrastare l’inclinazione alla disumanizzazione, alla segregazione. È bello ritrovare la speranza di poter cambiare una o più vite, nella traiettoria di quella linea di pensiero e di comunicazione che mette in relazione persone, culture, provenienze, età, generi e condizioni sociali diverse. Nella consapevolezza di aver vissuto uno o più eventi traumatici, ma di non essere per questo dei sopravvissuti.

La prima delle novità che il pubblico, ma anche la comunità del quartiere ha trovato ad Attraversamenti Multipli nell’edizione 2021 è stata Rainbow, “un’opera da abitare” di street-art ideata da Bol, ovvero Pietro Maiozzi, storico pittore muralista di Roma. Un progetto che è anche una metafora, quella dell’arcobaleno, realizzato per il Festival e per l’isola pedonale di Largo Spartaco. Linee colorate che si estendono in orizzontale, sul lato interno della muraglia di recinzione. Concepita anche come una seduta che accoglie tante persone diverse, ogni giorno. Un simbolo concreto e resistente di inclusione sociale.

Un’altra iniziativa da segnalare è La rivoluzione dei libri un progetto ideato da Alessandra Crocco e Alessandro Miele, prodotto da Progetto Demoni/ Ultimi Fuochi Teatro. Si tratta di una installazione di QR Code letterari, accompagnata da una mappa, disseminati e sparsi un po’ ovunque nel quartiere Quadraro. Un ulteriore modo di fare e dare accoglienza al pubblico in tutte le serate del festival, ma anche ai passanti occasionali che avranno così modo di ascoltare le parole vive di tanti autori. Lungo un percorso che comprende anche luoghi simboli come Garage Zero, il centro sociale Spartaco, Lucha y Siesta, la biblioteca Cittadini del Mondo.

Le voci della rivoluzione che hanno letto e interpretato altrettante clip letterarie sono quelle di Alessandro Argnani, Michele Bandini, Michele Baronio, Tamara Bartolini, Consuelo Battiston, Elena Bucci, Ruggero Cappuccio, Nadia Casamassima, Andrea Cosentino, Alessandra Crocco, Claudio Di Palma, Rita Felicetti, Roberto Latini, Roberto Magnani, Ignazio Oliva, Alessandro Miele, Laura Redaelli, Alessandro Renda.

Un’altra installazione che è diventata una costante di Attraversamenti Multipli, programmata per la serata di apertura è Teleradio Metropoli. Concepita come una “street-tv” e una radio open air, racconta il festival in diretta streaming con un flusso incessante di immagini, notizie e aggiornamenti, musica, racconti e poesie. La voce del conduttore/performer è quella di Andrea Cota, in arte Mondocane che cura anche la selezione dei contenuti insieme con Margine Operativo. La sezione video è curata da Pako Graziani.

Due sono stati gli eventi di punta della serata inaugurale del 17, la performance Asta al buio con Antonio Rezza come banditore e Mash-up di Carlo Massari/C&C Company. Un formato, il primo, strutturato e realizzato in altre occasioni per una finalità benefica. Rezza è al centro di un grande tavolo, davanti al pubblico vivo e vivace di Largo Spartaco che commenta, ride, applaude. Decide la base d’asta di oggetti che non sono visibili. Non sono esposti, possono essere reali o astratti, di volta in volta vengono soltanto descritti dall’attore-regista nato a Novara, ma nettunese d’adozione. E le sue descrizioni sono originali e molto generiche, spesso fuorvianti, difficile avere la certezza di avere fatto un affare o meno, si scoprirà soltanto alla fine.

Il banditore Rezza spende il suo estro e il suo eclettismo nel gioco-dialogo con il pubblico, in una dimensione goliardica, surreale ma al tempo stesso anche genuina e di grande empatia. Una volta effettuato il pagamento, i premi vengono mostrati e consegnati agli acquirenti con la lettura delle expertise.

L’opening si avvia alla sua conclusione con il secondo evento previsto per la serata, la prima nazionale dello spettacolo di danza Mash-Up. Nonostante la sua breve durata (25 minuti), esso contiene tracce e preziosi contenuti da sviluppare ed espandere fino a raggiungere una sua definizione e completezza. Carlo Massari continua la sua narrazione, il suo racconto sulla miseria umana. Due aspetti che caratterizzano le sue opere, la cifra della compagnia C&C Company.

Le note che accompagnano la presentazione della performance contengono una calzante citazione che appartiene al filosofo e scrittore tedesco, Ernst Fischer.
«In una società decadente, l’arte, se veritiera, deve anch’essa riflettere il declino. E, a meno che non voglia tradire la propria funzione sociale deve mostrare un mondo in grado di cambiare». L’arte sta mostrando un mondo in grado di cambiare? Il mondo è in grado di cambiare?

Massari porta in scena questa tensione emotiva. Il disturbo ossessivo-compulsivo di misurare quasi tutto: parti del corpo, spazi e ambienti, attività umane. Il consumismo. La carne, compresa quella dell’artista. Una combinazione potente a livello drammaturgico. Una voce fuori campo racconta di quanto il consumo di carne animale sia eccessivo oltre ad essere crudele, e di come gli allevamenti intensivi hanno un impatto devastante in termini di consumo di risorse.

Ecco allora che la carne cruda diventa il simbolo peculiare del cedimento strutturale, del crollo della società. Carne che divora carne. Non cresce su un albero come un frutto e nemmeno tra le piante dell’orto. Viene asportata, brutalmente, da un essere vivente, un animale che, morendo, verrà macellato per poter essere confezionato. In una catena di produzione che è diventata sempre più sorda e sempre meno etica, anche perché la domanda è più alta di ciò che la natura offre.

Mash-up è la metafora dell’indifferenza, ma in modo più esplicito dell’avidità. Un desiderio smodato e insaziabile che si è riversato in ogni settore umano, anche nell’arte. Nella ricerca spasmodica di nuove forme di espressione e di movimento, Nei rapporti sociali e nelle dipendenze di ogni genere. Nei legami di sangue. È singolare come un fonema, simile a un muggito, diventa la parola “mamma”. Carne che genera altra carne. Ma quel suono, però, sembra letale come un grido di disperazione e di morte.  

In chiave filosofica e drammaturgica, Mash-up di Carlo Massari è vicino alla pittura di Mark Rothko. La forza embrionale di questo progetto consiste nella capacità di svelamento, di penetrare zone inaccessibili. Spogliarsi per immergersi negli strati più profondi delle cose. La direzione della “conoscenza diversa” in fondo è la stessa e accomuna il pittore al coreografo.

La docente e storica francese Annie Cohen-Solal menziona un aneddoto, una confessione fatta da Rothko allo scrittore John Fischer, suo amico, che riflette la sua inquietudine di poter tradire i principi nei quali credeva. L’artista era stato incaricato di realizzare una serie di grandi tele per ricoprire le pareti della sala più prestigiosa di un ristorante molto esclusivo nel Seagram Building di New York. Lui accettò la sfida con l’intenzione di realizzare qualcosa che rovinasse l’appetito di tutti i ricchi e potenti che avrebbero mangiato lì. E per raggiungere l’effetto opprimente utilizzò colori dai toni più cupi di quelli che aveva solitamente usato. Quei dipinti non vennero mai appesi ma Rothko aveva ottenuto, disse a Fischer, l’effetto claustrofobico che Michelangelo aveva creato nella sala della scalinata della Biblioteca Medicea: «Far sentire agli spettatori che sono intrappolati in una sala nella quale tutte le porte e le finestre sono murate, in modo che l’unica cosa che possono fare è trovarsi faccia a faccia con la parete».

Nessuno può tenere Baby in un angolo – Intervista all’autore Simone Amendola

Nessuno può tenere Baby in un angolo – Intervista all’autore Simone Amendola

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Presso l’Auditorium di Spin Time Labs di Roma, all’interno della programmazione artistica organizzata dal collettivo di Spin OFF, va in scena il 2 e il 3 Marzo Nessuno può tenere Baby in un angolo.

Secondo progetto della compagnia Amendola/Malorni, dopo il grande successo de L’uomo nel diluvio, lo spettacolo come scrive Anna Barenghi di Rai Cultura – è uno di quei gialli in cui non è tanto importante trovare il colpevole, ma farci respirare l’odore della benzina, il buio di una stazione, l’emozione di poche battute scambiate con una cliente; una storia d’amore tutta in potenza, spenta prima di nascere.

L’autore Simone Amendola risponde ad alcune domande in merito alla creazione dello spettacolo e al relativo percorso produttivo al TAN di Napoli e a Carrozzerie N.O.T, e ai felici esiti scenici ottenuti in diverse oasi teatrali quali Attraversamenti Multipli, Short Theatre, Kilowatt e Todi Festival.

 

Un giallo.
La colpa della normalità, non solo la ricerca dell’assassino.

Alla cronaca arrivano i fatti,
ma la verità è sempre più complessa.

Gli indizi stringono su un solo uomo:
uno che poteva fare tante cose e fa il benzinaio.

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Genesi creativa di Nessuno può tenere Baby in un angolo

Avevo letto un trafiletto di cronaca in cui scrivevano del ritrovamento di un corpo di una donna senza testa in una pompa di benzina sulla via Casilina di Roma. Questa notizia mi è rimasta in testa fluttuando, una cosa molto forte che mi ha segnato. Successivamente un attore mi ha chiesto un testo per una nuova produzione. Così un giorno senza pensarci troppo ho iniziato a scrivere questa storia. Ho immaginato la storia di un uomo che prima viveva una vita normale, a cui, poi, rovinano la vita incolpandolo di un omicidio brutale. Un uomo a cui, forse, danno anche la possibilità di guardarsi più a fondo.

Di base avevo un forte interesse personale nello scrivere questa storia in un periodo in cui mi ero avvicinato alla psicoterapia per migliorare il mio modo di stare al mondo e anche di amare. Quindi in qualche maniera quella è diventata una storia paradigmatica, non soltanto nella ricerca di un assassino ma per vedere come alla fine un uomo sta al mondo, come si rapporta con le donne o come le esperienze vissute all’apice della passione in adolescenza riescano a continuare a essere vive. Volevo provare a vedere in profondità attraverso il racconto di una storia, non attraverso delle riflessioni filosofiche.

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Produzione: le residenze a Carrozzerie N.O.T e al TAN di Napoli

Essendo il testo composto da tre atti, nel primo passaggio produttivo abbiamo messo in scena il I atto al festival Attraversamenti Multipli dove ci hanno invitato. Questo è stato un buon modo per costruire insieme a Valerio Malorni  un nuovo immaginario rispetto all’idea precedente attraverso la creazione di una relazione coll’oggi e lavorando molto sul personaggio. Dopo ci sono state queste due residenze: prima a Napoli al Tan e a Start/Interno 5 e poi a Roma a Carrozzerie N.O.T.

Lo spettacolo è cresciuto piano, e poi, come succede spesso, continua a crescere. Abbiamo fatto un’anteprima a Short Theatre che aveva dei punti tematici messi a fuoco ma che durava 95′ minuti. Invece lo spettacolo di oggi si è ridotto. Nelle ultime repliche, Nessuno può tenere Baby in un angolo durava venti minuti di meno.

L’immagine ideale di toccare il fondo chiaramente è molto più a fuoco perché diventa una freccia non nei termini di velocità ma di intensità. Per quanto riguarda l’allestimento, molte delle idee sono venute stando nelle residenze. Come nel caso del I atto dello spettacolo, dove il protagonista sta su una sedia gigante, fuori misura rispetto a Malorni. A partire dalla relazione con questo elemento scenico, Valerio, nel tempo, ha preso sempre più confidenza col personaggio fino rendere labile il confine fra l’attore e il personaggio.

Era una sensazione che già avevamo, ma soltanto stare in un posto che ha un magazzino pieno di roba, ci ha fatto trovare ciò che cercavamo, inducendoci a fare le prove utilizzando una sedia molto grande: in effetti era l’oggetto scenico che rappresentava la nuova condizione in cui si trova il protagonista. Una persona normale in una situazione più grande di sé che lo costringerà a portarsi fino alla tomba il peso di un’accusa di omicidio.

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Nessuno può tenere Baby in un angolo

Il lavoro registico e attoriale con Valerio Malorni

Valerio Malorni è cresciuto tanto dentro il personaggio portando molti elementi del teatro contemporaneo, attraverso il confronto con la storia reale di una persona che ha nome e cognome, studiando un modo di stare al mondo che attinge dalla realtà. In questo Malorni è riuscito a lavorare sul personaggio apportando tutta la sua qualità performativa, un lavoro attoriale che molti artisti, provenienti dalla scuola di prosa più classica e che sono abituati a lavorare con personaggi altri da sé, non riescono a fare. .

Questo testo è nato prima che l’attenzione mediatica sul femminicidio e sulla violenza delle donne si intensificasse.  Nessuno può tenere Baby in un angolo nasce dall’esigenza di ragionare intorno a queste tematiche, andando anche a capire che uomo è colui che esercita la violenza sulle donne. Così, ne parliamo non attraverso la cronaca ma partendo dall’involuzione e anche dall’evoluzione spirituale di una persona.

Venti anni di Attraversamenti Multipli. Intervista ad Alessandra Ferraro

Venti anni di Attraversamenti Multipli. Intervista ad Alessandra Ferraro

Quella di quest’anno, per Attraversamenti Multipli è un’edizione particolare. Il festival romano che si insedia nel quartiere del Quadraro, attraversando e abitando insieme alla comunità di artisti e cittadini gli spazi urbani dell’isola perdonale di Largo Spartaco, è giunto al suo ventesimo anno di vita. “Everything is connected” è il titolo di Attraversamenti Multipli 2020 che si svolgerà dal 18 al 27 settembre a Roma con uno sconfinamento nel comune di Toffia il 3 e 4 ottobre.

Attraversamenti Multipli
Attraversamenti Multipli

Una connessione, portata avanti dalla direzione artistica composta da Alessandra Ferraro e Pako Graziani, volta ad attivare un’azione collettiva in cui indagare la relazione tra le arti performative contemporanee e il presente, attraverso la presentazione di spettacoli e performance site specific nei paesaggi urbani. Le tante compagnie e i tanti artisti coinvolti, già ospiti del festival negli anni precedenti, celebreranno questo ventennale con progetti spettacolari creati ad hoc. Ce ne parla Alessandra Ferraro, approfondendo la tematica e la programmazione di Attraversamenti Multipli 2020. 

Tema di questa edizione di Attraversamenti Multipli è “everything is connected”. Una connessione artistica ma anche comunitaria e che, in questo senso, segna la vostra missione da vent’anni. Come avete attivato questa connessione e cosa significa spingere su questo tema in un momento in cui la relazione interpersonale è fortemente messa in crisi?

Il sottotitolo dell’edizione di quest’anno è stato scelto proprio durante il periodo del lockdown. Per noi è stato molto importante andare a sottolineare – proprio perché il festival lavora in fortissima connessione con la realtà che lo circonda, con il presente – questo elemento dell’interconnessione tra tutti.  Per “tutti” non intendiamo soltanto esseri umani ma anche l’ambiente, le specie animali.

L’elemento dell’interconnessione accompagna in realtà il festival da sempre e, nonostante negli anni si sia espanso e trasformato, ha mantenuto alcuni elementi fondanti tra cui la stretta interazione tra gli spettacoli, i paesaggi urbani in cui gli spettacoli si collocano e le comunità con cui il festival si relaziona. Per questa edizione abbiamo dovuto ripensare il festival, interrogandoci e confrontandoci con tutti gli artisti coinvolti per capire come ricalibrare le performance, adeguandole a una nuova modalità di abitazione degli spazi pubblici. Continuiamo a portare il festival in uno spazio open urbano, tenendo però conto di normative che determinano il distanziamento fisico tra le persone.

Il fatto che Attraversamenti Multipli abbia alle spalle una lunga storia di ricerca  sul site specific ci ha aiutato molto in questo momento di grande incertezza e cambiamento, perché abbiamo potuto contare sull’attitudine della direzione artistica e degli artisti a modellare gli spettacoli a seconda dei contesti. Il nostro obiettivo è fare in modo che la distanza fisica non sia una distanza sociale cercando di rendere il festival un luogo accogliente e ospitale.

Attraversamenti Multipli indaga la relazione tra le arti performative contemporanee e il presente. Qual è il vostro modo di mettervi in ascolto del presente e cosa cercate di restituire dello stato creativo che il presente può indurre?

Per noi stare in ascolto non significa unicamente fotografare la realtà. Negli spettacoli in programma, infatti, c’è un lavoro sia sulla drammaturgia del contemporaneo sia sulle estetiche, sulla forma spettacolare. Trovo che sia importante andare oltre il confine conosciuto anche a livello di sguardo, di visioni, di estetiche. Stare nel presente, quindi, vuol dire anche avere modalità estetiche e strumenti per poterlo affrontare. Gli artisti, le produzioni che lavorano sui confini tra i generi artistici, ibridando diversi linguaggi, dalla danza al teatro fisico, alla parola, cercano anche di creare delle opere innovative la cui restituzione credo abbia molto a che fare con la processualità che c’è all’interno del festival.

Attraversamenti Multipli non è solo il momento della visione degli spettacoli da parte del pubblico ma è anche un luogo che supporta la produzione artistica. In questi giorni, ad esempio, stiamo ospitando in residenza il Consorzio Grano Lucisano che costruisce un’operazione molto interessante, l’incontro tra cinque danzatori e cinque fisici, quindi scienza e arte, di cui ci è prevista una restituzione sabato 19 settembre.

Una reggenza artistica in spazi non convenzionali rappresenta un modo di stare concretamente in dialogo con il presente e con le persone che attraversano quel luogo, perché si innescano delle dinamiche relazionali. Per questo ci è sembrato interessante che all’interno del festival fossero programmati degli spettacoli preesistenti, che sono stati riformulati per questa edizione e che ci fossero anche delle produzioni completamente originali,  progetti  specifici esclusivi pensati ad hoc per il festival e che magari hanno anche vissuto e vivranno in altri contesti trasformandosi. Interessante è l’unicità dell’incontro e dell’atto, nonostante possa esservi una riproducibilità.

Per il ventennale di Attraversamenti Multipli avete deciso di ospitare artisti e compagnie che già hanno abitato gli spazi di Largo Spartaco nelle precedenti edizioni. Un’operazione che solidifica la memoria storica di un festival con tanti anni di attività alle spalle. Cosa vi ha spinto a dare vita a questa programmazione?

La programmazione è nata e si è rafforzata anche durante il periodo anche del lockdown. Abbiamo immaginato quest’edizione come un’occasione per  festeggiare con un “non compleanno” i primi 20 anni di Attraversamenti Multipli, che rappresentano una tappa, un pezzetto di storia. Fin dall’inizio abbiamo pensato di coinvolgere artisti con cui eravamo entrati in relazione negli anni precedenti, perché avevano già preso parte al festival, perché ci sembrava importante rafforzare ragionamenti, pratiche di condivisione di estetiche originatisi in una comunità di artisti che è venuta a crearsi. Stiamo cercando di dar vita sempre più a un’azione collettiva, per la quale chiediamo, visto il momento storico, un supporto del pubblico in merito alla responsabilità sociale. C’è una grande processualità alle spalle del festival che diventa visibile al momento della restituzione.

Quando corpo e cultura diventano una cosa sola, la miseria umana cessa di esistere. Incontro con Carlo Massari

Quando corpo e cultura diventano una cosa sola, la miseria umana cessa di esistere. Incontro con Carlo Massari

Beast without Beauty – C&C company

L’indagine sul corpo, sul peso specifico di diversi corpi che interagiscono tra di loro fino a costituire una società, in una una città con i suoi spazi urbani, è ciò che è emerso nel lavoro Lui Lei e L’Altro presentato da Carlo Massari al Festival Attraversamenti multipli, a Roma, e di recente a Brescia, al Festival Wonderland. Carlo Massari è anche il direttore artistico del progetto formativo Anfibia, inaugurato lo scorso 21 ottobre e che propone un percorso di approfondimento multidisciplinare per artisti e creatori contemporanei.

Il nostro incontro-intervista è avvenuto a Bologna in un intervallo “spazio-temporale” tra A peso morto e Les Miserable, l’ultima creazione di C&C Company, presentata alla NID Platform di Reggio Emilia e che con grande attesa debutterà nella Capitale il prossimo 21 dicembre nell’ambito del Festival Teatri di Vetro presso il Teatro India di Roma

Per iniziare: un approfondimento su Lui Lei e L’Altro e su A peso morto. 

Il trittico Lui Lei e L’Altro prende vita all’interno del macro progetto chiamato A peso morto.  Tre sono i caratteri principali, ma immagino che possano aumentare, come una serie di “Attraversamenti multipli”. Ci sono una figura maschile, l’anziano, una femminile e la terza, un super partes che guarda, non dall’alto ma dal basso, gli altri due. In qualche modo è una sorta di dio della periferia. Lì dove nasce, nel 2016 con l’intento di raccontare quei luoghi in maniera semplice.

Un tema che è molto presente e forte a livello internazionale, non solo in Italia, in questo momento. Il tentativo è quello di collegare gli spazi periferici, tutti quei luoghi che sono una sorta di dilatazione del centro di ogni città. Ogni periferia urbana ha di fatto una propria identità. Se guardiamo Roma, ad esempio, i suoi quartieri, le borgate, non avranno né pregi né difetti rispetto al centro di Roma. Avranno le loro peculiarità e una vita rappresentata e vissuta quotidianamente dalle persone che li abitano. Il problema è che l’espansione dei centri urbani tende ad annullare le identità periferiche. Vengono assorbiti, in un contesto di uniformità, sia il vecchietto che ascolta tutto il giorno la mazurka con la radiolina, sia la badante che parla una lingua diversa dalla sua.

Il mio vuole essere un tentativo di rendere partecipi le persone del fatto che ognuno conserva e consegna esperienze e memorie ad altri suoi simili. Lo descrivo come se fosse l’ultimo battito o fiato di queste persone. L’ultima loro possibilità per esprimersi, prima di sparire e di cadere nell’oblio come personaggi. In questa sorta di mescolanza in cui non sappiamo neanche noi che forma abbiamo. Il mio, il nostro, vuole essere un tentativo di rianimare degli eroi, dei guerrieri caduti in rovina.

Questo è un lavoro sulla miseria e fa parte di quello che è il percorso di ricerca della compagnia C&C. Nell’arco di un triennio, stiamo indagando, con il nostro lavoro, sula bestialità umana. Un esempio concreto di ciò è il dimenticarsi degli altri, di fatti. Di Forme di storia, per citare il titolo del libro di Hayden Whyte, ovvero forme di racconto in equilibrio tra la ricostruzione della storia e la rappresentazione della realtà.

Hai accennato alle fasi di anzianità e di oblio, nella conclusione di un ciclo biologico. Qual è il tuo pensiero sul tema della vecchiaia? Da giovanissimo ti sei mai sentito mentalmente più “anziano” rispetto ai tuoi coetanei? 

Ho iniziato a 14 anni il mio percorso professionale, il mio primo contratto è ancora incorniciato nella mia camera. Sicuramente mi sono dovuto relazionare molto presto con il mondo degli adulti, con qualcosa di più grande di me: entrare e muovermi all’interno di un sistema che non era quello adolescenziale, un sistema molto più complesso.

Questo tema mi ha sempre interessato e tuttora mi incuriosisce fortemente. Non a caso ci sono caratteri che contagiano i miei lavori in Beast without Beauty come nel prossimo Les Miserable. Nel 2021 ci sarà un nuovo progetto che proporremo come una miscellanea sull’anzianità. Mi affascina molto il corpo e la figura dell’anziano perché racchiude, è un accumulo di movimento, di gesto in implosione. C’è un meraviglioso spettacolo di Maguy Marin, May b, che racconta tutto questo. Lei è una coreografia francese che per me è maestra tanto quanto Pina Bausch. Un mito nella danza internazionale e mondiale che ha segnato e ha contribuito a contraddistinguere il mio stile. 

Lei usa la figura degli anziani in May b come cardini del suo lavoro proprio perché nonostante i loro limiti, portano dentro una vita di movimenti che hanno interiorizzato e vissuto. Io credo che ogni corpo è eternamente in dispersione e accumulo di informazioni. Trovo maggiormente interessante la senilità di un danzatore veterano che fa meno cose rispetto a un giovane ventenne che non ha ancora il carico di un bagaglio esperienziale su di sé. Non a caso questo fa parte del percorso di ricerca della nostra compagnia C&C, che vuol dire Corpo e Cultura, il principio a cui si ispira è la trasformazione. Di come l’uno può modificare l’altra e viceversa.

Beast without Beauty – C&C company

Il teatro, nella sua concezione più ampia, è legato all’idea della morte? Così come avviene per il corpo di una persona, nello stesso modo anche le emozioni, i ricordi di uno spettacolo si decompongono?        

In generale credo che l’atto performativo sia un rito, fin dai tempi degli antichi Greci, gli inventori di quelli che sono i principi, le basi del teatro. La morte è una parte molto forte e molto presente di questa ritualità. Per come la intendiamo noi occidentali, ma anche per gli orientali, è un processo naturale a cui nessun uomo si può sottrarre e, allo stesso tempo, comporta un meccanismo di cerimoniale codificato. Nel momento dopo la morte c’è la commemorazione, l’esaltazione, attraverso il funerale, della persona ma soprattutto della sua perdita. Il Teatro, in quanto rito la comprende pienamente. La sagra della Primavera di Pina Bausch è più che mai un esempio eclatante di tutto questo. Stravinskij compose Le sacre du printemps, quello che noi conosciamo e identifichiamo con il termine “sagra”. In realtà la traduzione più corretta e aderente con le sue origini sarebbe “Il rito della Primavera”.

Una celebrazione che è benaugurale ma che comprende anche il macabro in sé, ovvero il sacrificio di una vergine, la quale veniva uccisa. Quest’opera ha allargato i miei orizzonti, ho avuto la fortuna di farlo con Michela Lucenti del Balletto Civile e devo dire che è stato un incipit che ha cambiato non solo la prospettiva fisica ma anche la riflessione sul rapporto tra arte, ritualità e morte.    

Quale è stata è qual è la tua esperienza artistica nell’alternare spazi grandi e piccoli, urbani e non?  

In generale a me piace alternare i linguaggi che uso. Credo fortemente nell’arte che non a caso viene definita “anfibia” e che attraversa o viene attraversata da diversi codici. Costantemente contagiata, per giungere a una comunicazione più alta e altra. Detto questo, è necessario conoscere i paesaggi e i linguaggi artistici tanto quanto quelli fisici. La creazione in sala e al chiuso è qualcosa di molto grande, forte, complesso. Credo però che ci siano dei panorami e delle situazioni tipo Attraversamenti multipli che contengono una scenografia e delle luci naturali. Una complessità che io definirei cinematografica.

Qualcosa che in qualche modo sarebbe irriproducibile in teatro. Bisogna buttarcisi dentro come artisti, se piace come modalità. Mi ritorna in mente il ricordo di un momento, di quando provavo con i tacchi all’aperto, nell’isola pedonale di Largo Spartaco. Alcuni bambini mi guardavano stupefatti.

Quando me li sono tolti mi hanno chiesto: « Ma adesso non danzi più? Pensavamo che il tuo modo di muoverti e di danzare fosse provocato dai tacchi ». In qualche modo avevano ragione. C’erano anche delle signore anziane che mi hanno fatto i complimenti per come portavo quelle scarpe. Questi sono due chiari esempi di come nella realtà di un contesto specifico, si possa essere influenzati reciprocamente. Ho restituito a quelle persone una forma d’arte che ha contagiato me, in tutta la sua complessità. Essere integrati all’interno della società per me è alla base del mio lavoro artistico.

Andare a teatro è una scelta, ad Attraversamenti multipli è il teatro che va verso le persone. Questo vuol dire che per l’artista è una scelta quella di mettersi in gioco, è uno stare nudo, lì dove viene a mancare una quarta parete. La meraviglia consiste proprio nel vedere le persone e loro possono in contemporanea vedere te che sei in azione.Questa creazione teatrale credo che sia bistrattata non solo a Roma, ma in tutta Italia. Un Paese che vive di tante periferie che non sono considerate abbastanza, perché la cultura da noi è ancora qualcosa d’elite.

Alessandra Ferraro e Pako Graziani (direttori artistici del festival, ndr) sono ormai quasi venti anni che portano alla periferia una rassegna come Attraversamenti multipli, l’opportunità di una elevazione culturale. Questa è una gran cosa e non a caso ci conosciamo e collaboro con loro da quasi dieci anni. Proprio perché c’è una sintonia, una corrispondenza a livello di linguaggio e di pensiero. È diventato quasi un legame di idee, è come se guardandomi intorno, in quella piazza di Roma, ci fosse il mio necessario nutrimento, tanto quanto io posso esserlo per loro.

Les Miserable – C&C company

Il nutrimento di cui parli tu, la sfida che rappresenta, conduce all’unione delle singole unità di cui è composta una comunità civile o artistica?

Alla base c’è sempre l’idea del crollo, la caduta. Nel cadere a terra ci sono mille similitudini tra l’uno e l’altro. Per poter creare una cartina geografica, un mappamondo, in qualche modo prima bisogna perdersi in quello spazio. In questo caso, lavorare nel sociale e con la gente, a stretto contatto con le persone, fa sì che ci si possa perdere in una sorta di mare magnum, in un orizzonte fatto di elementi, di persone, di differenze. Quello che mi interessa realmente, qualunque sia il progetto che affronto, è che io lo stia trattando con le persone. Credo fortemente che, per quanto riguarda l’arte, la creazione consista nel perdersi, nella ricerca e nei pensieri, per poi affinarli, raffinarli e disegnarli per e con gli altri.

Noi partiamo sempre, come esseri umani, dal punto di vista soggettivo, personale per andare a trasformarlo e a renderlo oggettivo. Un mio pensiero, una mia visione, un mio obiettivo personale diventano qualcosa di condivisibile, di aperto, nel quale le persone si possono riconoscere. Se non avviene questo passaggio, per me non avrebbe nemmeno senso fare quello che faccio. Il giorno in cui non riuscirò più a rendere oggettivo un mio pensiero allora sarà giusto che io faccia altro. Quello che io contesto, in questo momento, a molti artisti e creatori è il far subire passivamente pensieri e visioni allo spettatore. Sia nell’ambito della danza sia in altri contesti artistici. 

Per concludere: puoi condividere con noi un approfondimento di Les Miserable ? 

Les Miserable è un progetto che fa sempre parte del progetto triennale di ricerca sulla bestialità umana. Giocando sul titolo della celebre opera di Victor Hugo, su quello che tutti conoscono come musical con l’omonimo titolo, il tentativo vuol essere quello di parlare della miseria umana. Mentre in Beast without Beauty c’è la brutalità, la cattiveria del fare male all’altro e agli altri, in Miserable c’è la miseria del lamentarsi delle cose ma lasciare che esse stesse vadano avanti in quel modo. Vedere situazioni o maltrattamenti, ma rimanere indifferenti come nella nostra società contemporanea. Gli atteggiamenti di buonismo, il tanto parlare che non si chiude in nulla.  Les miserables ha avuto la sua prima apertura Reggio Emilia al NID Platform l’11 e il 12 ottobre e avrà poi un’evoluzione, si potrà vedere il 21 dicembre a Roma presso il Teatro India, all’interno del festival Teatri di vetro che è co-produttore del lavoro. Insieme con me ci saranno Alice Monti, Stefano Roveda, Nicola Stasi.

L’universo in movimento di Daniele Ninarello tra mente, corpo e cuore

L’universo in movimento di Daniele Ninarello tra mente, corpo e cuore

La genesi artistica di Daniele Ninarello inizia in una scuola di danza classica della provincia torinese. Nella sua voce ci sono i colori e l’intensità magnetica di un’indole ferrea. Impercettibili tracce piemontesi riconducono alle caratteristiche di quella terra così ricca di storie e di castelli, di cultura, vini e montagne. La sua emergenza di danzare e le sue urgenze di coreografo sono state nutrite con la passione e il desiderio, con il rigore della tecnica che, bruciando come un fuoco vivo, in una frazione di tempo coerente con il suo percorso di esplorazione e di ricerca, lo hanno portato spesso fuori dall’Italia e ovunque.

L’incontro con numerosi coreografi prestigiosi è avvenuto in coincidenza con la sua esperienza di studio e perfezionamento presso la Rotterdam Dance Academy. Ascoltare i suoi racconti, i commenti e le sue considerazioni equivale a lasciarsi condurre in una sorta di viaggio metafisico, spaziando tra l’Europa e il mondo. Le sue crezioni “Coded’uomo”, “Man Size”, “Non(leg)azioni”, “God Bless You” e “Bianconido” sono state presentate in festival nazionali e internazionali come Ammutinamenti, Corpi Urbani, Es.Terni, Short Formats, Marcher Commun/Mercati Comuni, Interplay/12, Les Repérages/Danse à Lille, Oltrarno Festival/Cango, DNA/Romaeuropa, Torinodanza Festival, Les Hivernales.

Il suo lavoro di ricerca coreografica è stato apprezzato, premiato, riconosciuto e largamente richiesto. Dall’Italia alla Francia, dal Belgio alla Germania, dal Portogallo al Brasile. L’incontro con Daniele Ninarello è stato come una congiuntura di eventi e di “sconfinamenti” che un Festival creativo come Attraversamenti Multipli, a Roma, ha contribuito a determinare. Quello che emerge è la sua personalità, la sua particolarità stilistica e, contemporaneamente, il resoconto di God bless you con tutto ciò che ruota attorno alla performance. C’è il corpo e lo spirito. Laddove finisce l’intervista, rimane in piedi il carattere del performer, in connessione con i pensieri e i sentimenti dell’uomo. In quella sezione aurea dove le due parti diseguali, la dimensione pubblica e quella personale, comunicano in perfetta armonia.

Quale evoluzione c’è stata nella tua carriera prendendo in esame il tuo presente artistico?

Il mio presente artistico proviene da riflessioni e da esperienze, artistiche e non, che ho vissuto in questi anni. Molto presto è nata in me l’esigenza di concentrare il mio sguardo sul corpo, più precisamente sul disorientamento della figura umana, e di affrontare questa necessità attraverso la ricerca sul movimento e sulla composizione coreografica. In modo più specifico mi interessa creare pratiche coreografiche e di movimento su questo tema.

È stato un processo istintivo e complesso quello che mi ha portato ad affacciarmi al mondo e, dunque, agli altri attraverso il mio fare arte, a condividere le mie riflessioni con le persone incontrate nella mia vita e nei miei processi artistici. Questo è un aspetto che oggi fa parte del mio lavoro probabilmente in maniera più approfondita. Se penso al modo in cui il mio presente comunica con il mio passato, in uno sguardo lampo sul mio percorso fin qui, posso solamente dire che oggi c’è un po’ più consapevolezza e una certa evoluzione sulle ragioni e i temi che mi han spinto fin qui. Ciò che mi è servito di questo percorso si è radicato nel profondo. Oggi rispetto agli inizi ho la possibilità di lavorare con altri corpi, trasmetto pensieri, riflessioni e pratiche ad altri danzatori, con i quali mi piace cooperare e costruire insieme dei lavori che per me sono veri e propri “rituali coreografici esperienziali”. Se collego i puntini dagli inizi ad oggi, quello che è andato qualificandosi sempre di più è il desiderio inventare modi in cui il corpo nell’attraversare una mia pièce ed il suo processo creativo, viva in tempo reale un’esperienza di trasformazione.

In che modo si è manifestata l’ispirazione e la genesi di God bless you?

God bless you è nato dopo un processo lungo e ha attraversato tante fasi. È nato nel 2010 ed è stato selezionato per il progetto euro-regionale tra Italia e Francia, Marcher commun/Mercati Comuni, con la collaborazione anche di Mosaico Danza e Teatro Piemonte Europa/TPE. In quell’anno il tema specifico era il luogo della fontana.
Nello stesso anno stavo affrontando un periodo di ricerca alla Fondation Royamount, dove sono stato invitato dalla direttrice artistica del progetto Miryam Gourfink. In quel luogo mi sono potuto dedicare a una ricerca su quello che era il mio campo di interesse. Molte ore venivano dedicate allo studio dell’autoipnosi e delle tecniche meditative, tutte esperienze che confluivano nella ricerca artistica personale. Inoltre, ho dedicato molte ore allo yoga, allo studio del movimento autentico. Quotidianamente ero immerso in una situazione che mi metteva a stretto contatto con tutto ciò che era sepolto in un profondo abisso personale e che in qualche modo cercavo anche di trasportare fuori dal corpo. Lì è nato il bisogno di lavorare sul disorientamento.

Ho compreso che avrei voluto fare una ricerca e lavorare su cosa realmente muove il corpo, su cosa muove gli esseri umani in questo mondo, su cosa li porta a naufragare in questo continuo susseguirsi di sedentarietà e nomadismo. Noi siamo continuamente spostati a livello fisico ed emotivo. In quel periodo avevo a disposizione un bel gruppo di danzatori a Parigi con cui potevo affrontare e sperimentare idee e percorsi artistici. Si riempivano gli spazi, li riempivo di oggetti rendendoli claustrofobici, cercavo di orientare oggetti nei luoghi. A un certo punto gli oggetti sono diventati uno solo, moltiplicato: il bicchiere. Questo per me rappresenta un oggetto fragile, trasparente, un oggetto visibile ma non visibile. In quella fase io chiedevo, a me stesso e agli altri performer, attraverso processi meditativi profondi, di entrare in contatto con delle memorie fisiche, corporee e sensoriali che portassero il corpo ad uno stato alterato, a qualcosa che fosse già accaduto nel corpo e che lo avesse reso disorientato. Mi interessava vedere come il corpo agiva nello spazio nel momento in cui era mosso da questi stati di confusione, di ubriachezza, di disorientamento e di disequilibrio. E poi sono nate delle connessioni in maniera molto intuitiva.

A un certo punto le cose si sono collegate, mi sono limitato ad osservare da vicino che cosa potesse voler dire per noi e per l’uomo il luogo della fontana e si è manifestata velocemente l’idea, il collegamento con un luogo del desiderio. La fontana è il luogo dove si gettano le monete, si esprimono i desideri, un tempo si chiedeva agli dei la loro benevolenza. A quel punto si è manifestata la figura degli homeless, dei senzatetto e la scritta God bless you: che Dio ti benedica. La performance è nata come un effetto domino tra queste immagini e queste connessioni. Mi sono detto che ovunque fossi andato mi sarebbe piaciuto ricostruire una piazza, una fontana, un luogo, una superficie di acqua trasparente e avrei dedicato alla figura dell’homeless una profonda riflessione. Ancora oggi gettiamo quella moneta, affidiamo ad un luogo profondo – ed è questo che mi interessa – i nostri desideri, la nostra fortuna. Ho visto nei senza fissa dimora dei corpi in cui sono imprigionati dei desideri che forse non si sono mai realizzati o che non si realizzeranno mai.

God bless you è nato dalle riflessioni su questi aspetti, su quanti desideri sono imprigionati nel corpo, su quante persone intorno a noi hanno dei desideri e infine sulla loro distruzione. Mi sembrava importante, infine, portare la figura di un homeless che distrugge la fontana, il pozzo dove gettiamo i nostri desideri. L’immagine finale della performance ricrea il dolore, anche fisico, ma non solo. La dimensione del dolore che è dato dalla distruzione di qualcosa, di una fragilità che viene frantumata, dalla rabbia e dalla violenza dell’ingiustizia, da un abbandono. Quella fine per me è un abbandono.

Lo scambio di energie tra performer e pubblico viene amplificato dal fatto che lo spettacolo viene realizzato in uno spazio pubblico e aperto?

È un lavoro che è nato appositamente per gli spazi pubblici ed è l’unico lavoro in cui opero in questa modalità. Il contatto con il pubblico è sicuramente importante, mi interessa portare gli spettatori a sentire attraverso i loro corpi, a fare in modo che la loro percezione possa essere mossa da ciò che sta accadendo davanti a loro e che possano vivere un’esperienza immaginativa, visiva ed emotiva che si riconnetta a loro. Io non interpreto, ma cerco di entrare in una dimensione in cui il corpo rivive uno stato emotivo, uno stato di memoria reale dato da diverse situazioni del passato, come la perdita dell’equilibrio, la fatica, la stanchezza, l’ubriachezza. Quello che accade quasi sempre in queste situazioni in pubblico, quando sono presente davanti ai loro corpi, è che affiorano tanti feedback da parte degli spettatori presenti.

Alcune persone rimangono pietrificate, altre si emozionano. Per esempio, durante la serata di venerdì 21 settembre, a Roma, un bambino molto piccolo mi ha toccato la mano e la mamma gli ha dato il permesso di accarezzarmi. Sono momenti che vengono integrati nella partitura. È chiaro che c’è un modalità attraverso cui il pubblico è estremamente attivo in questo lavoro. Ci sono state situazioni particolari come per esempio a Marsiglia dove, nella piazza centrale popolata da numerosi homeless, io all’inizio ero seduto accanto a loro e nessuno si aspettava che proprio io cominciassi quell’azione. La prossimità con il pubblico è arrivata ad essere estremamente emotiva. Mi interessa arrivare al cuore della gente, in tutti i miei lavori. Arrivare al cuore del pubblico per me è importante, qualunque sia il significato di cuore.

photo by Andrea Macchia

Quali esperienze, legate ai luoghi aperti e non, agli spazi pubblici, ricordi in modo particolare?

God bless you non è stato mai fatto in uno spazio chiuso proprio per la sua natura e per il suo dispositivo; per me è importante che venga fatto in uno spazio aperto perché è nato quasi come un’incursione, è un lavoro nato così.
E’ stato messo in scena in contesti come la piazza gremita di Marsiglia, per esempio, oppure a Rio de Janeiro dove c’era un immaginario complesso e anche diverso e ancora a Porto, a Torino, a Lione, Parigi, ecc. Lavoro con l’energia del luogo, per me l’energia che si crea tra spettatore e performer è un elemento di ascolto importantissimo. Non posso far finta, non posso procedere senza ascoltare, per cui ogni volta succede sempre qualcosa di diverso. A Lione avevo tantissimi bambini intorno a me. I bambini credono a quello che vedono, poi non ci credono più e però si emozionano e con te entrano nello spazio saltano e fanno delle cose pazzesche.