da Edoardo Borzi | 26 Gen 2023 | Interviste
A Roma dal 21 al 24 maggio, presso lo spazio Fonderia 900, Leonardo Capuano terrà un seminario sul monologo come condizione scenica-creativa e come forma teatrale. Una possibilità espressiva che, oltre a mettere a disposizione ad ogni nostro tentativo questa o quella convenzione, ci dà la possibilità di agire al di là di quel che ritenevamo possibile come attori. Abitare la scena da soli implica il non accontentarsi, ma obbliga a spingersi più in là. Così il lavoro dell’attore ha modo di manifestarsi in direzioni non previste, ma proficue e a volte eccezionali.
Le giornate di lavoro saranno indirizzate alla creazione di alcuni dei monologhi tra quelli scritti dai partecipanti, mettendo in evidenza le diverse fasi che compongono il lavoro. La scelta dei monologhi da mettere in scena sarà determinata dalle peculiarità teatrali che i testi offrono e dal tempo a disposizione.
Leonardo Capuano, portatore di un teatro rigoroso e accurato e di una visione personale della profondità dell’animo umano e delle sue contraddizioni, si è rivelato al pubblico nella duplice veste di attore ed autore con vari monologhi, quali La cura, che debutta al festival di Volterra nel 2000, Zero Spaccato (2003 e ripreso nel 2017), La sofferenza inutile (2012) e Elettrocardiodramma (2013). Nel 2003 crea con Renata Palminiello Due, presentato in diversi festival di teatro tra i quali Volterra, Inteatro (Polverigi), Santarcangelo, Inequibilbrio (Castiglioncello). Nel 2004 con l’attore Roberto Abbiati crea Pasticceri, spettacolo che ha realizzato numerose repliche, ottenendo un ottimo successo di pubblico e critica e che ancora oggi è nei teatri italiani. Ha lavorato con Alfonso Santagata negli spettacoli Ubu Re e Terra sventrata; con la compagnia Lombardi -Tiezzi ne Gli uccelli di Aristofane; con il regista Pietro Babina in Ritter Dene Voss, Il libro di Giobbe e con Annalisa Bianco in Bilal. Da diversi anni lavora stabilmente con Umberto Orsini e conduce seminari sul lavoro dell’attore con un approccio legato alla fisicità del gesto e della voce.
Nel 2017 inizia la collaborazione con il regista Alessandro Serra come protagonista di Macbettu, insignito del premio ANCT 2017 e del premio UBU 2017 come miglior spettacolo dell’anno.
Leonardo Capuano
come È avvenuto il primo incontro con il teatro?
È stato abbastanza casuale il mio incontro con il teatro: il teatro mi piaceva perché sono cresciuto con le commedie di Eduardo in televisione, una modalità che mi affascinava molto. All’inizio per me era solo una possibilità poi così per gioco con degli amici che avevano anche loro interesse per il teatro abbiamo iniziato a scrivere delle cose per vedere se riuscivamo a farle, ma con molte difficoltà perché non eravamo capaci. Avevamo vent’anni verso la fine degli anni ’80 a Firenze. Ci piaceva molto ridere e all’inizio volevamo fare teatro comico, solo che le cose erano abbastanza poco credibili e per far sì che io potessi sviluppare una tecnica e imparare a fare questo mestiere mi sono iscritto alla Scuola di formazione teatrale Laboratorio Nove che ho frequentato per tre anni, dove mi sono diplomato.
Quali sono state le figure di riferimento nel mondo del teatro?
Studiando naturalmente ho avuto maestri teorici: Kantor, Grotowski, Peter Brook e poi ho avuto la fortuna di lavorare con Alfonso Santagata dal quale ho imparato alcuni segreti di questo mestiere e poi ho studiato molto da solo: in sala a provare e a rivedere che cosa fosse questo mestiere e imparare da me. Ho imparato molto da me; poi una volta capite alcune regole di questa professione mi è capitato di lavorare con dei bravi attori dai quali ho imparato altro. Umberto Orsini è uno di questi, è un mio grandissimo amico ma è anche un mio maestro.
Mi è sempre piaciuto il lavoro che ha fatto Danio Manfredini quando ero ancora ragazzo, vedevo i suoi spettacoli e mi piacevano molto. Mi piaceva molto anche il lavoro della Societas Raffaello Sanzio. Io quando ho cominciato a lavorare sono stato subito preso nella compagnia della scuola e da lì sono scappato via nel momento in cui mi sono reso conto che non era quello che volevo. Volevo fare delle cose mie e la scelta è stata quella di lavorare da solo per creare il mio teatro senza sapere se ci sarei riuscito anche perché all’epoca non avevo garanzie. Era quello che speravo di fare facendo l’attore e piano piano ci sono riuscito.
Rispetto alla dimensione autoriale dei tuoi spettacoli, qual è il processo di creazione che ti vede solo in scena?
Dipende da come vanno le cose. La maggior parte delle volte non so su cosa lavorerò, altre volte mi è capitato di lavorare su un testo perché ho deciso che quello fosse il testo che mi interessava in quel momento o su del materiale letterario perché mi interessavano alcuni argomenti ma il più delle volte quando inizio un lavoro non so su cosa lavorerò. Vado in sala, scrivo e improvviso e capisco di cosa si tratta, quali sono le cose che si stanno rivelando all’interno del processo che sto facendo.
Dopodiché valuto se il materiale che può essere interessante prevalentemente per me e poi per un pubblico che possa disturbarsi per venirlo a vedere. Se vedo che ci sono le possibilità che questo possa essere interessante continuo fino a cercare di concludere con un’opera teatrale. Lavoro da solo perché mi piace farlo ed è la mia cifra. Poi mi capita di incontrare o di essere chiamato perché ho tanti amici e c’è qualcuno che mi stima che mi chiede di collaborare e se vedo che il progetto è interessante e giusto, collaboro anche con altri come in questo momento.
Quindi quando sei in sala prove come percepisci la temperatura e la validità del materiale che stai creando essendo regista di te stesso?
Ormai sono tanti anni che lavoro in questo modo, ho imparato come ci si sta e quali sono le stagioni del lavoro e i percorsi che affronto o che mi si presentano. So benissimo che quando sto creando del materiale se quella cosa è sorprendente per me può essere sorprendente per qualcun altro; se non è così per me, è evidente che non mi interessa e l’accantono. Dopodiché quando ho un certo quantitativo di materiale sia di testo sia di situazioni che più o meno sono embrionali chiamo delle persone di cui mi fido e faccio vedere il materiale su cui sto lavorando e chiedo dei pareri rispetto a quello che vedono, facendo delle verifiche sul lavoro che sto facendo per capire quello che sembra agli altri. Se le sensazioni sono le stesse vuol dire che sto procedendo sulla strada giusta e vado avanti.
Nel tempo si fanno delle verifiche per capire se tutto sta procedendo bene, perché uno si può anche sbagliare ovviamente però il metro che utilizzo mentre sto lavorando è che se una cosa sorprende me e in qualche modo la considero unica allora le attribuisco molto valore. Dopo tanti anni è chiaro che quando lavori su uno spettacolo nuovo, il testo e gli altri elementi devono essere di un livello superiore rispetto a quello che hai già fatto sia rispetto alla performance d’attore sia rispetto all’intenzione di far quadrare lo spettacolo sia i linguaggi sia la forma e anche la scrittura.
Quali sono i valori e i significati che attribuisci al tuo lavoro di attore?
Per me il palco è casa mia. Essendo casa mia sono io a determinare le regole. Ed è il posto dentro il quale posso poter dire e poter fare tutto quello che nella vita non mi è consentito, quello è lo spazio per poter dar forma a tutto ciò che vedi e che senti: è un modo di parlare di sé o di far parlare chi non ha voce. Faccio l’attore perché non sono capace a fare altro (ride ndR) e perché il teatro mi possiede ed è il teatro che mi muove, è quella forza che all’interno di quel rettangolo mi dà il vigore che occorre per poter cercare di fare questo mestiere come si deve.
quali sono le intenzioni e le emozioni che cerchi di comunicare al tuo pubblico? Che tipo di accordo hai stabilito con chi ti viene a guardare in teatro?
Credo che ci sia un legame – poi non so se effettivamente è così – di grande onestà o perlomeno io cerco di innestare questo genere di contatto col pubblico, cioè in quel momento è come se io fossi il tramite fra la possibilità teatrale e l’animo del pubblico. In questo caso è come se decidessi di dare tutto te stesso per far sì che quelle parole, quei gesti e quelle situazioni possano parlare a un livello di coscienza un po’ più profondo e che possano aprire dei varchi all’interno dell’animo di chi guardo. Questo è fondamentale.
Io sono capace di potermi sdoppiare e vedere tutto quello che faccio, soprattutto quando lo spettacolo sta andando in via di definizione per mettermi dalla parte del pubblico e osservare quello che è lo spettacolo chiedendomi se andando a vedere uno spettacolo come quello io mi divertirei o mi annoierei a guardarlo perché poi quando faccio uno spettacolo io sono il primo spettatore di me stesso.
Rispetto alla situazione economica e produttiva del teatro italiano, quali sono i cambiamenti che hai registrato da quando hai iniziato a fare teatro fino a oggi?
La situazione rispetto a quando ho iniziato è una catastrofe: prima c’era grande curiosità, nonostante non ci fosse tutta questa comunicazione e possibilità di scambiarsi dati, informazioni e video mi sembra che ci fosse un’urgenza diversa. Questa è la sensazione che ho, forse si era meno evoluti dal punto di vista tecnologico ma con un livello di febbre rispetto alla possibilità di iniziative e di anche di gruppi che saltavano fuori e cercavano di farsi strada che in questo momento mi sembra non esserci.
Adesso si fa tanta fatica. Tutti noi per poter lavorare facciamo dei gran salti mortali, prima non era assolutamente così. Ho avuto la fortuna di lavorare con ottimi attori che stimo e magari capitava di fare tournée di cinque o sei mesi, adesso è una cosa che non esiste più. Se sei fortunato e lavori in quelli che oggi chiamano “Teatri Nazionali” magari ci sta che tu possa fare trenta repliche – se ti va di lusso. Ci sono spettacoli nati e già pronti a morire senza nessun seguito, è come se non avessero più la capacità di lasciare il segno nel tempo.
Laboratorio sul monologo a Roma a cura di leonardo capuano. Quali sono i saperi e le tecniche attoriali che cercherai di trasmettere?
Avendo fatto tanti monologhi ho imparato abbastanza bene di cosa si tratta, qual è il percorso che si deve fare. L’idea di questo laboratorio nasce perché io lavoro prevalentemente così e se devo insegnare – come in questo caso – vorrei passare le competenze che ho maturato in questi anni facendo questo genere di percorso. Questo è il motivo per cui faccio il lavoro sul monologo. Cerco di far sì che delle persone che decidono di partecipare a questo laboratorio possano cominciare a rendersi conto di cosa si tratta e che è possibile cercare la propria strada ovvero provare a scrivere dei testi e a capire in che modo questi testi possano comunicare qualcosa di molto interessante e far vedere loro che è possibile poter pensare di realizzare il proprio teatro avendo la possibilità di dire ciò che si desidera dire. Questo garantendo loro la mia totale collaborazione e cercando di passargli quello che è il mio credo all’interno di questo lavoro e facendoli lavorare su più livelli e mostrando loro quello che è il lavoro dell’attore. Vorrei, inoltre, mostrare quello che è il lavoro della scrittura e quello che è il lavoro del montaggio e della possibilità registica all’interno di un proprio scritto.
in che modo un giovane ragazzo o una giovane ragazza possono assecondare il proprio istinto di fare teatro e capire se sono adatti a svolgere questo lavoro con professionalità e talento?
Se un attore può fare o meno questo lavoro lo si può rilevare soltanto con la possibilità di provare ad attraversare il teatro, altrimenti è impossibile; io credo che nell’essere umano ci sia questo genere di peculiarità perché tutto ciò che si manifesta intorno a noi è una sorta di rappresentazione. Un conto è farlo nei termini della propria esistenza, del proprio presente e del proprio agire e un altro conto è studiare come si fa e prepararsi per essere pronti a farlo. Penso che il lavoro dell’attore sia davvero impegnativo per cui bisogna volerlo diventare ardentemente. Penso che innanzitutto ci sia bisogno della volontà di diventarlo considerate tutte le difficoltà che ci sono da attraversare per poterci riuscire perché è un lavoro che ti devi guadagnare. È un lavoro molto rischioso perché ha delle caratteristiche di instabilità: può capitare che rimani anche un anno senza lavorare, purtroppo sia gli attori sia i registi sono precari da sempre. Detto questo credo che chi vuole fare questo mestiere deve avere veramente voglia di farlo perché ha un rischio di fallimento davvero molto alto e non tutti sono pronti a correre questo pericolo.
Esistono dei valori morali, artistici e culturali che dovrebbero avere le giovani leve e che vorresti trasmettere loro durante il laboratorio?
Sicuramente essere molto esigenti rispetto al proprio lavoro e avere una cultura del lavoro molto alta, una grande onestà e nessun genere di presunzione. Io non sarò lo stesso dopo aver finito con il Macbettu perché è normale che sia così, quando fai questo mestiere migliori spettacolo dopo spettacolo. Questa è la zona in cui gli attori si muovono e procedono, l’egocentrismo e la presunzione sono cose che a me non interessano. L’attore cerca di garantire con il massimo dell’onestà di fare il proprio mestiere al meglio: quando vado in scena so che pretendo da me stesso di svolgere il mio lavoro nel miglior modo possibile e deve essere una garanzia. Quando mi è capitato di lavorare con altre persone di un certo livello è naturale che il valore del tuo lavoro deve essere sempre molto alto ed è a questo che devi ambire. Solo così migliorerai quello che fai, se continuerai sempre a fare le stesse cose è chiaro che oltre a quelle il tuo panorama è abbastanza ristretto. Questo è quello che penso io.
da Redazione Theatron 2.0 | 29 Ago 2018 | Curiosità
Lindsay Kemp (Cheshire il 3 maggio 1938 – Livorno, 25 agosto 2018) è stato un coreografo, attore, ballerino, mimo e regista britannico.
>Story
Innamorato fin dall’infanzia della danza, del teatro e del cinema, studia con Sigurd Leeder, Charles Weidman e soprattutto Marcel Marceau. Particolarmente significativa per Kemp è l’esperienza formativa con il creatore di Bip, dichiarerà infatti in più occasioni che Marceau gli ha “dato le mani” giocando con le parole per indicare l’effettiva importanza delle mani nell’arte mimica e nella sua personale interpretazione di essa e in riferimento al pezzo ‘Le Mani’ che il mimo francese trasmise all’allievo britannico come ‘dono’ tra artisti e maestri nell’arte mimica. Kemp ha lavorato in varie compagnie di danza, teatro, teatro-danza, cabaret, musical, mimo, coreografia fino a formare nel 1962 la sua prima compagnia, la The Lindsay Kemp Dance Mime Company.
>Linguaggi
Noto per la ricerca fra diversi linguaggi teatrali e per un approccio innovativo alla danza e al teatro, Kemp negli anni ‘70’ diventò il precursore di un genere di danza onirico, ricco di contenuti al limite dell’acrobatico e ricco di effetti spettacolari ottenuti in modo semplice attraverso l’uso creativo della musica e delle luci.
>Artist
Kemp parallelamente coltiva anche interesse nella pittura, allestendo mostre dei suoi dipinti e dei suoi disegni in tutto il mondo, bozzetti di costumi di scena e foto d’archivio, oltre a curare masterclass di teatro-danza, incontri col pubblico e conferenze.
>Livorno
Kemp si innamora di Livorno quando con Flowers debuttò al Goldoni. Nato in una città col porto e il mare, per lui la differenza la fa la gente di Livorno. Qui si sente a casa, più che in ogni altra parte del mondo, ha trovato grande umanità, ha ricevuto un magnifico benvenuto, per le strade, nei bar, al mercato. Sosteneva che non gli importava della nobiltà, della celebrità, gli piacevano le persone normali, sincere, di cui fidarsi. L’affetto della gente gli dava stimoli e ispirazione. La casa dove abitava sorgeva dove un tempo c’era il Teatro Politeama, un luogo abitato dai fantasmi degli antichi teatranti.
>La passione
A chi gli chiedeva il segreto della propria longevità, Kemp rispondeva con il suo tono sempre trasgressivo: «In realtà nella mia vita ho fatto tutto ciò che normalmente porterebbe diritto alla tomba! Fino a un certo punto mi sono candidato all’autodistruzione, poi ho cambiato comportamenti. Basta vedere i miei coetanei rockstar ancora in vita: tutti hanno fatto una scelta salutista. Per uno come me non è stato facile. Ma bisogna avere cura dello strumento avuto in dono. E poi c’è la passione. Io non potrei mai scendere dal palcoscenico. È la mia vita! Forse il segreto è vivere in maniera intensa».
“L’arte è dare forma all’emozione per comunicarla al pubblico.”
LINDSAY KEMP
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La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Redazione Theatron 2.0 | 17 Apr 2018 | Uncategorized
Ciao Tipper, in primo luogo mi scuso per la latitanza degli ultimi mesi. Ho vissuto un periodo molto affascinante e faticoso, dal quale ho tratto qualche riflessione, che ovviamente voglio condividere con te. Ragionando sul titolo, ho iniziato a ripetermi in testa qualche gioco di parola. La prima cosa che ho pensato rimettendomi a scrivere i tip è stato Actress Life – hashtag noto e abusato – seguito da Life for an actress. Live as actress. Actress alive. Live for life. Subito dopo mi è tornata in mente una canzone di Amalia Gré, artista che probabilmente continua a piacere solo a me (ma questa è una illazione, anche se non so che fine abbia fatto).
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Io cammino di notte da sola è la canzone, ed in effetti rappresenta un buon riassunto di quello che penso e che ho vissuto, oltre ad essere un buono spunto per un repetition game (ma anche questa è un’illazione). Breve riassunto degli ultimi 64 giorni: un debutto in una commedia, due spot – che sarebbe meglio definire corti web, un ruolo in una serie, un debutto nazionale con una produzione inedita della mia compagnia, un ruolo da protagonista in un film saltato, alcuni provini e tanti mezzi presi e persi. Totale ore di lavoro (non retribuite e senza copertura assicurativa): 580; limite decibel raggiunto con i litigi in produzione: 130dB; persone incontrate-incrociate-superate: circa 82; ore di sonno: non pervenute; totale caffè consumati: non pervenuto; totale litigi in famiglia: non pervenuto.
La domanda quindi nasce spontanea. Cosa significa vivere da attore? Stamattina leggevo un articolo su uno dei portali di riferimento anche per i miei contenuti, sul quale era riportato “Acting is a desease”. Ora, senza farla così tragica la verità è una e indiscutibile: sebbene molte persone abbiano la passione di recitare, la realtà di essere un attore professionista è inconcepibile dall’esterno. Una volta che si prova ad assumerla come professione, ci sono altri fattori che si intromettono, come mangiare o pagare l’affitto, o dover fare i conti con genitori o partner delusi. Ed ecco che tornano le parole della canzone: “Io cammino di notte da sola, poi piango poi rido e aspetto l’aurora. Ed è una vita d’artista, così altalenante, ma quello che creo è importante per me”.
Ecco allora alcuni consigli su come affrontare le problematiche più frequenti di questo mestiere, così bello e contemporaneamente così provante.
1. IO CAMMINO DI NOTTE DA SOLA
Ovvero come affrontare la solitudinev
Fare l’attore di carriera è un mestiere di grande solitudine.
Quando sei coinvolto in una produzione lunga, la situazione più favorevole è che tu lavori sempre con le stesse persone a strettissimo contatto per un tempo più o meno lungo. Queste persone diventano i tuoi amici, i tuoi confidenti, i tuoi compagni.
Finita la festa, gli amici se ne vanno e ognuno per la propria strada.
Se, come me, lavori spesso ma a sbocconcellate su set brevi, i contatti sono più fugaci. Arrivi la mattina presto, ti prepari, giri e saluti. Fine. Come Pic: rapido e indolore.
A questo (sempre come nel mio caso) si devono aggiungere una manciata consistente di prove, magari a margine di una giornata di riprese.
Rientro stimato a casa propria per le 23:30 circa. Il tuo partner dorme, tuo figlio di 15 mesi no; poco importa, tanto giusto il tempo di ingurgitare qualcosa e sei già nel mondo dei sogni con tuo figlio che ti salta sulla pancia.
Sabato e domenica, in scena. Gli amici escono, ma non per venire a vedere te (a meno che non sia coinvolta in una grande produzione, e/o non possano farsi un selfie con qualcuno o davanti a qualcosa di importante).
Dall’altro lato, anche dopo un lungo periodo di lavoro, rientrare nella normalità può essere destabilizzante. Ricordo sempre le parole di una mia buona amica, in merito alle dinamiche di gruppo: “Se ci sei esisti!”, che in soldoni vuol dire essere presente sempre all’interno del gruppo di amici, per poter contare sul fatto di avere amici.
Insomma, apri la porta di casa e ti trovi a dover fare i conti con un domani di nuovo incerto, ma con un pizzico di stanchezza in più.
Il mio consiglio per evitare le scene da film in cui la protagonista cammina per strada con il volto solcato da romantiche lacrime, magari sotto la pioggia, mentre tutto attorno risuona qualcosa tipo “Moon River” è questo: ricordati che la tua vita è fuori, è intorno, non solo dentro il tuo mestiere. È un mantra che fatico a ripetermi, ma è l’unica soluzione.
Coltiva i tuoi rapporti veri. Basta un messaggio, una telefonata, una visita inaspettata, ma fallo. Quando il lavoro gira bene è facile perdersi; difficile è ritrovarsi nei momenti bui. Amici e famiglia sono i nostri più grandi alleati per costruire una carriera solida e lunga.
2. E SI POTEVANO MANGIARE ANCHE LE FRAGOLE
Ovvero dei sensi di colpa
I sensi di colpa che appesantiscono la tua scelta artistica, rallentano solo il tuo passo.
Tempo fa il regista di un film di cassetta mi confessò che aveva nel cast un’attrice di nome e che era in difficoltà perché non riusciva a gestirla. Lei aveva partorito da due mesi ed era in piena depressione post partum.
Dall’altro lato c’è la mia più umile e limitata esperienza. In questi ultimi 64 giorni, più volte mi è capitato di non riuscire a vedere mio figlio per molti giorni consecutivi; con il mio compagno sono arrivata a discutere spesso a causa della mia prolungata assenza; non ho fatto la spesa per più di un mese.
Il senso di colpa più grande, però, è sempre relativo al risvolto economico. Perché alla fine della giostra, ti siedi a tavolino e sai che non potrai concederti più di uno o due giorni di stacco (definirlo relax è troppo). Un grande sforzo che serve a malapena a coprire qualche spesa e, verosimilmente, a contrarre qualche altro debito. Ma come si dice? I debiti allungano la vita!
In questo scenario, la mia soluzione è forzarsi un po’. Imporsi disciplina, per ritagliarsi un po’ di spazio per sé. Sarà un tempo da prendersi per osservare, studiare, accantonare, far decantare e magari creare.
3. UN ANTICO IDIOMA CHE NON SAI DECIFRARE.
Ovvero dell’attesa e della lotta contro la paura
Gaber diceva “No, non muovetevi. C’è un’aria stranamente tesa e un gran bisogno di silenzio. Siamo tutti in attesa.”
È un verso che mi aiuta tanto, perché spesso finisco un lavoro e vado mentalmente alla ricerca di un altro lavoro. Per paura di uscire dal giro, per paura di restare senza soldi, per paura di dimenticare quello che so fare.
Poi è successo che ho sbagliato. Non tutti i lavori fanno bene, non tutti i lavori sono utili, non tutti i lavori arrivano al momento giusto.
Un lavoro fatto male è più dannoso dello stare un po’ di tempo senza lavorare.
La mia soluzione è creati una piccola alternativa che non ti distolga troppo dalle necessità attoriali. Impiegarsi in qualcosa che possa andare bene per brevi periodi, o che si possa gestire da casa. Alternativamente puoi proporti come sottoaiuto di qualcosa in produzioni teatrali o cinematografiche. Spesso torna utile. Ancora, candidati come spalla ai casting… non paga, ma insegna tanto.
Libero dalla morsa del devo lavorare a tutti i costi, la tua carriera ti assomiglierà di più. Ne sono quasi certa!
Inoltre condurre consapevolmente la propria vita attoriale, ti renderà anche più sereno difronte a scelte e rinunce.
In buona sostanza si tratta di avere la forza di difendere un po’ il proprio lavoro e (perché no) la categoria.
4. QUANDO TI ADDORMENTERAI CON LE SCARPE SUL LETTO
Ovvero della stanchezza.
È indubbio che questo mestiere, come tanti, ti possa mettere spesso alla prova. Ci sono giorni in cui vorresti fermarti, gridare e fare un concorso pubblico.
Non è la verità. Il lavoro che fai è imposto da quello che sei e poco puoi forzare la tua natura. Ha più senso fermarti (ok), respirare e accogliere questa stanchezza. Può darsi che tu stia muovendo tanti passi in una direzione poco utile, o semplicemente che tu abbia bisogno di riposarti.
Allora torna a fare qualcosa che ti piace, con persone che ti fanno stare bene. Potresti prendere l’abitudine di segnare su un taccuino “cose che vorrei fare quando avrò il tempo”. Avrai la sensazione di non stare con le mani in mano e, contemporaneamente, farai qualcosa per ricaricarti. Geniale!
[Nei cambi di stagione prenditi anche un integratore. Male non fa!]
Insomma, la vita da attore non è sempre piacevole, anche se l’uomo della strada pensa l’esatto opposto. Non è detto che arrivino i red carpet o le copertine dei giornali, potremmo non vincere mai nessun riconoscimento. Ci sono giorni in cui si fa veramente fatica, ma facciamo il mestiere più bello del mondo. Vivere bene i giorni bui, con onestà, fa parte del gioco e ogni gioco ha delle regole. Poche, semplici e banali regole per uscire dal flusso e godersi la meraviglia della contemplazione di un momento.
Vale la pena!
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da Redazione Theatron 2.0 | 27 Gen 2018 | AccaddeOggi
Michail Nikolaevič Baryšnikov soprannominato Misha, nato in Lettonia il 27 gennaio 1948, è stato uno dei più grandi ed indimenticabili danzatori del ‘900.
Infatti viene spesso citato accanto ai nomi di Vaslav Nijinsky e Rudolf Nureyev per essere stato uno dei più grandi ballerini della storia. Il talento di Baryšnikov era evidente fin dalla sua giovinezza pertanto a 18 anni divenne solista del Balletto Kirov.
Nel 1974, nel corso di una tournée in Canada con il Bolshoi Ballet, chiese asilo politico in Occidente, diventando immediatamente una delle star più celebri del balletto americano. Il suo obiettivo principale era quello di lasciare l’Unione Sovietica per poter finalmente lavorare liberamente con coreografi giovani e innovatori. Pertanto nei primi due anni (dall’assenza nel suo Paese), ha danzato per non meno di 13 diversi coreografi, tra cui Jerome Robbins, Glen Tetley, Alvin Ailey e Twyla Tharp.
Annunciò al mondo della danza che non sarebbe più tornato in Russia:
“Non perché oggi non possa, ma perché mancano le vere ragioni per andarci. Mi sento un po’ americano e un po’ russo. Ammetto di essere scettico sul futuro della Russia, la considero un grande Paese, abitato da un grande popolo che si meriterebbe il meglio e questo non sta accadendo. Nulla da eccepire sulla qualità di ballerini e compagnie, ma non vedo coreografi di peso”.
Scritturato al suo arrivo dall’American Ballet Theatre, dal 1974 al 1978, ha collaborato con Gelsey Kirkland; ha poi danzato per un breve periodo (come primo ballerino) con il New York City Ballet di George Balanchine.
Tornò all’ABT nel 1980 come ballerino e ricoprì il ruolo di direttore artistico, incarico che ha ricorrerto per un decennio. Nel 1989 ha fondato, insieme a M. Morris, il White Oak Dance Project, operazione che ha segnato il suo distacco dagli spettacoli classici. Barijšnikov, infatti, si è successivamente dedicato soltanto alla danza contemporanea.
Assetato di nuove esperienze, si cimenta nella coreografia: il balletto che sceglie di creare, o meglio, di ricreare e aggiornare secondo il suo gusto e la sua personale interpretazione è lo stesso Don Chisciotte che lo aveva visto trionfare nei teatri di tutto il mondo sin da quando era giovanissimo.
Nel 1983 ne dà una sua versione danzata al fianco di Cynthia Harvey, subito considerata un capolavoro della danza mondiale. Importante ricordare, sempre in campo coreografico e con la Kirkland (altra partner storica), una sua versione de Lo Schiaccianoci (1977).
Mai stanco di sperimentare nuove possibilità artistiche, Baryshnikov si mette alla prova anche in campo cinematografico nei film The Turning Point (1977), White Nights (1985) e Spie Contro (1990), fino alla partecipazione nell’ultima serie televisiva Sex and the City.
Molti coreografi riconobbero in Baryšnikov una sensibilità unica capace di esprimere un nuovo modo di danzare. Dà prova non solo di un controllo e di una padronanza tecnica indiscutibili, ma soprattutto di una capacità artistico-espressiva degna di un attore consumato.
“Io ho due memorie. Una è nel cervello, come tutti. L’altra nei miei muscoli, nelle mie ossa. Ambedue passano dalle pupille. Perché nella memoria del corpo io immagazzino tutti i gesti, le posture, i movimenti che vedo intorno a me. Nelle mie braccia, nelle mie gambe, nei miei piedi c’è come una banca dati dove conservo due mani che fendono l’aria, mosse da un barbone sul metrò o le braccia conserte di una donna in chiesa”.
Michail Nikolaevič Baryšnikov
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da Redazione Theatron 2.0 | 29 Gen 2017 | AccaddeOggi
125 anni fa nasceva Oliver Hardy, l’Ollio di uno dei più famosi duo comici della storia del cinema, composto da Stan Laurel, Stanlio e Oliver Hardy. Ollio, è stato l’elemento principale della coppia. Con il suo carattere apparentemente burbero cerca di affermare la sua supremazia sul compagno Stanlio che alla fine risulta essere il più furbo.
Nel 1921, Stan Laurel e Oliver Hardy si incontrarono per la prima volta sul set di Cane fortunato. All’epoca i due attori si conoscevano appena, tuttavia questo corto è considerato l’inizio del sodalizio della coppia. La coppia di comici ha interpretato 106 film.
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