da Andrea Zardi | 30 Mag 2018 | Uncategorized

Border Tales – Racconti di frontiera
Border Tales – Racconti di frontiera è il titolo della performance della compagnia londinese Protein, diretta da Luca Silvestrini e basata sul tema della migrazione e dell’integrazione nel Regno Unito. Questa produzione è il risultato di una ricerca iniziata nel 2013 con migranti e rifugiati nei vari paesi e sviluppata attraverso un laboratorio con il Centre for Refugees and Migrants di Londra, e portato a Torino grazie alla Fondazione Piemonte dal Vivo e Associazione Filieradarte, Associazione Didee e Università degli Studi di Torino.
Il coreografo e regista ha analizzato la sua esperienza di artista italiano residente da diversi anni all’estero: nell’intervista con Rita Maria Fabris, nell’incontro Scuola dello Spettatore organizzato prima dello spettacolo, Silvestrini ripercorre i diversi approcci con i soggetti che ha incontrato nella fase di ideazione dello spettacolo, senza distogliere l’attenzione dai grandi stravolgimenti politici degli ultimi anni (la Brexit, l’elezione di Trump, la deriva populista in Europa). Uno spettacolo che apre con una potente suggestione sul tema del confine, con un danzatore che danza in bilico su una linea che divide il palco in tutta la sua lunghezza. Se questa scelta può sembrare troppo dichiarata rispetto al tema dello spettacolo, non lo è stata la trattazione fisica e tematica di questo confine: i sei danzatori – e il musicista, sempre presente sul palco – definiscono il confine del loro corpo, difendendolo dagli altri, ma proteggendo anche il proprio spazio personale con una danza dalla potente dinamica e dominata da un forte senso di propriocezione.
I vari personaggi presentano sé stessi attraverso quelli che sono gli stereotipi legati alla loro cultura, in un’esasperazione continua di stilizzazioni e monologhi iperbolici, rimanendo comunque aderenti a un approccio teatrale che amalgama danza e parola in modo strutturale in tutto lo spettacolo.
Il fulcro centrale è l’ambientazione di una festa, dove il “maestro di cerimonie” è il tipico uomo inglese che accoglie i propri ospiti ingabbiandoli in quelli che presume possano essere le loro preferenze musicali, religiose e alimentari (ad esempio, il saluto alla ragazza cinese con l’inchino e del tè al gelsomino, o chiedere all’ospite arabo se fosse di religione musulmana). Questa volontà di integrazione, velata dal falso perbenismo di chi non vuole mancare di rispetto rimarca però forti differenze e distanze (Just saying…). I punti culturali dove corrono i binari dello scontro culturale sono la religione, la differenza fra paese di nascita e paese di origine, le domande continue sulle motivazioni dello spostamento e le risposte che circoscrivono l’individuo a uno spazio “riservato” a lui. Un’accoglienza “condizionata” che però nello spettacolo viene ribadita in maniera prolungata ed insistente fino a toccare momenti attoriali iperbolici: in alcuni punti fanno perdere l’effetto di straniamento desiderato.

Border Tales – Racconti di frontiera
I danzatori incorporano egregiamente il senso di dislocamento che hanno provato nella loro famiglia di origine o dal loro paese: l’uso dello spazio aperto, circoscritto e condiviso apre il senso di questa percezione nei confronti dello spettatore. La musica del colombiano Anthar Kharana, eseguita in parte dal vivo, è strutturale alla solida drammaturgia dello spettacolo e lascia spazio ai danzatori per creare uno spazio di comunicazione ampio.
Questo lavoro, in conclusione, è un’eccellente dimostrazione di come la danza possa rendersi consapevole dei cambiamenti sociali, ma soprattutto delle influenze antropologiche che questi cambiamenti causano. Scoprendo come l’Arts Council of England abbia finanziato un progetto di questo spessore sociale, rimane da chiedersi quanto in Italia potremmo imparare da questo modello di creazione veramente “contemporanea”: una progettualità nata non da un’elaborazione esclusivamente intellettuale, ma da un’esperienza laboratoriale che va ad operare in precisi contesti sociali e li porta a conoscenza di un pubblico preparato.
da Marco Argentina | 17 Dic 2016 | Uncategorized
Lo scenario coreutico italiano degli anni Duemila rivolge spesso lo sguardo all’estero per catturare fonti d’ispirazione o per emulare dinamiche di successo, in entrambi i casi riuscendo a cogliere sfumature di una performatività sui generis, donatrice di un messaggio chiaro seppur con “vocaboli” differenti. Inevitabile pensare al caso del CollettivO CineticO, nato nel 2007 dal genio creativo di Francesca Pennini (classe 1984), ballerina, performer e coreografa ferrarese formatasi tra il Laban Centre di Londra e la compagnia Sasha Waltz & Guests.
Citando dal sito web ufficiale, il CollettivO si presenta come «fucina di sperimentazione performativa negli interstizi tra teatro e arte visiva». Naturalmente viene da chiedersi: e la danza? La danza è proprio lì, in quegli interstizi. Funge, cioè, da collante scenico attraverso cui vengono unite le più disparate modalità di rappresentazione. La recitazione si fonde alle arti plastiche, così come alla coreografia, ponendo in essere una pratica di visione della performance che tende a estraniare lo spettatore dal luogo in cui sta assistendo, quasi come se gli venisse raccontata una storia puntualizzando ogni singolo dettaglio, allegando a ogni appunto però, allo stesso tempo, un’immagine corporea che permette alla sua mente di fantasticare.
Un esempio lampante è “10 miniballetti”, lo spettacolo di apertura di Ipercinetica, rassegna bolognese bimestrale (marzo-aprile 2016) interamente dedicata al CollettivO. Attraverso la memoria di dieci micro-coreografie, composte e scarabocchiate su un quaderno delle scuole elementari, Francesca Pennini riflette sul suo status attuale di danzatrice professionista, dialogando interattivamente col pubblico e lasciando persino la “parola”, a metà dell’intera performance, a un drone per illustrare la fugacità del tempo – e, conseguentemente, della spensierata fantasia – in un turbine di piume animato dall’aggeggio elettronico. È una lezione di danza classica analizzata con la lente d’ingrandimento, mediante la quale si riescono a cogliere elementi compositivi afferenti ad altre arti sorelle: mimica, ginnastica, performatività musicale, body painting.
Il concetto-chiave, alla base di qualsiasi opera dell’ensemble, sta dunque nel muovere il pubblico alla riflessione, alla comprensione di un determinato messaggio artistico nient’affatto intuitiva, considerando lo spettatore come un essere proattivo alla messinscena, indispensabile per la buona riuscita della performance. La diretta partecipazione allo spettacolo, infatti, dona quel tocco di specialità in più all’operato creativo di Francesca Pennini, rendendo ogni location, data e occasione un momento unico, ineguagliabile, imperdibile.
Ne dà dimostrazione “| x | No, non distruggeremo […]”, «un dispositivo coreografico interattivo che permette al pubblico di determinare i movimenti dei performer» (collettivocinetico.it). La descrizione è assai esauriente del ruolo fondamentale che gli spettatori svolgono all’interno della performance, il cui titolo viene modificato a seconda del luogo in cui avviene. Addirittura, vi è un rovesciamento delle parti in gioco, catapultando i consueti astanti teatrali in poltrona direttamente sul “palcoscenico”, attori veri e propri di uno spettacolo che senza di essi perderebbe totalmente di senso. Come, d’altronde, in qualsiasi altro caso performativo.
Link utili
http://www.collettivocinetico.it/
https://ipercinetica.wordpress.com/
[embedyt] http://www.youtube.com/watch?v=0_y3Wy8_FsY[/embedyt]
da Marco Argentina | 17 Dic 2016 | Uncategorized
La peculiarità principale di ogni stile di danza contemporanea consiste nella precisa (e ogni volta diversa) fonte d’ispirazione, animatrice delle dinamiche coreografiche e delle suggestioni performative di ogni lavoro preso in considerazione. Può trattarsi di una storia già narrata, di un messaggio rivolto al futuro, di un’essenza i cui confini si dissolvono nell’infinito. L’impianto filosofico è, dunque, fondamentale, soprattutto se la “corrente” indagata soffia dall’Estremo Oriente.
È dal Giappone, infatti, che sopraggiunge l’arte di Saburo Teshigawara (classe 1953), molto difficile da circoscrivere nella dimensione della danza, della performance o – si potrebbe dire – della scultura, una terza supposizione dettata dalla formazione primigenia dell’artista nello studio delle arti plastiche. All’età di vent’anni intraprende le lezioni di danza classica della maestra Toshiko Saiga: da quel momento le tre suddette arti confluiscono in una sola e il suo desiderio di plasmare manualmente un’opera d’arte si amplifica in quello di fare dell’intero corpo una scultura, o – per meglio dire – il disegno di essa. Il corpo del performer nipponico diventa una linea inarrestabile che volteggia nell’aria a mo’ di ghirigoro, fendendo l’atmosfera con marcate distensioni degli arti in un’alternanza di slow motion e ipercinetica, retaggio marziale dell’imprinting culturale d’origine.
L’attività da coreografo ha inizio nel 1981, ufficializzata quattro anni dopo dalla nascita della sua compagnia, Karas, fondata insieme a Key Miyata, performer di eccelsa qualità tecnico-interpretativa. Sin dallo spettacolo d’esordio, The Pale Boy (1985), è palese l’influsso della danza butō, una disciplina giapponese al confine tra la dimensione tersicorea e quella attoriale, in cui lo spazio e il tempo glissano verso l’indefinito, lasciando che il corpo in scena proietti un’immagine dell’anima, che sprofondi nel buio più cupo dell’io per risorgere a entità sfumata dalla luce avvolgente.
Ogni sequenza gestuale si traduce in una scansione del tempo volutamente centellinata, quasi ad attendere che lo spettatore colga il messaggio fino in fondo, affinché la suggestione del momento si possa incanalare perfettamente tra i due fronti della scena performativa.
Emblematici a tal proposito sono due creazioni più recenti, Absolute zero (2005) e Miroku (2007), dove Teshigawara (nel primo caso insieme a Miyata, nel secondo caso da solo) figura sul palcoscenico come veicolo di una “presenza”, deformata dall’oscillazione del proprio corpo in ogni angolo dell’azione scenica.
Lo spettacolo è un vero e proprio duello fra luce e ombra, in cui l’artista tenta (invano) di far da paciere, sopperendo alla carenza di sfumature scenografiche chiaroscurali con una netta scelta costumistica: il look total black, “marchio di fabbrica” imperterrito della sua presenza scenica, rimarca la neutralità del suo essere, la pacatezza della sua indole, il mistero della sua espressione artistica. Here to Here (1995/2007) ne è un’ottima esemplificazione: i due fondatori della compagnia Karas e Rihoko Sato macchiano le pareti di luce diafana soverchianti con la loro entrata in scena, per poi spennellare di nero la “tela bianca” della scenografia attraverso movimenti ben intrecciati, fino a che Teshigawara spadroneggia sul palcoscenico con un assolo che lo vede scomporsi in una silhouette ombrosa, dovuta a una calibrata angolazione dell’impianto illuminotecnico. Il concreto lascia il posto all’effimero. La filosofia abbraccia la poesia. Non è, dunque, esagerato considerare Saburo Teshigawara uno tra i (pochi) più eccellenti coreografi contemporanei di fama mondiale.
Link utili
http://www.st-karas.com/
http://www.epidemic.net/en/art/teshigawara/index.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Saburo_Teshigawara
Videografia
Foto
Saburo Teshigawara / Miroku © Bengt Wanselius
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da Marco Argentina | 17 Ott 2016 | Uncategorized
Si è abituati a considerare la danza come l’arte del movimento per eccellenza, scandita da un ritmo e circoscritta in una coreografia che, nella maggior parte dei casi, racconta una storia, lancia un messaggio e rende manifesta una visione o filosofia. Immaginarla lontana da tutto ciò, dunque, è difficilmente concepibile, ma non impossibile. Ne dà riprova una corrente coreografica inserita all’interno del filone contemporaneo denominata non-danse, nata e diffusasi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso in particolar modo in Francia. Il nome non lascia margini di dubbio (o forse li moltiplica): una danza che non è danza, cioè che non rispetta i “canoni” identificativi citati precedentemente. E allora cos’è? È una performance corroborata da passi di danza? È una partitura coreutica allestita a mo’ di performance? A onor del vero, non è nessuna delle due ed è, allo stesso tempo, entrambe: una vera e propria indefinitezza stilistica e scenica, chiave di volta che rende questo genere di spettacolo unico e straordinario.
Viene indicata come un transdisciplinary movement, una disciplina artistica che, partendo dalle fondamenta strutturali della danza, si edifica in una forma teatrale, videografica, pittorica o di arte plastica. Dà luogo a una trasformazione, a un divenire altro da sé, pur non mascherando l’impianto coreutico originario. Semmai, anzi, amplificandone il linguaggio corporeo per donare un nuovo senso alla rappresentazione, ogni volta del tutto personalizzato. Ogni artista della non-danse, infatti, persegue una propria linea performativa, variabile persino a ogni singola creazione: Come nel caso di Xavier Le Roy – classe 1968 – che dal 1998 ha arricchito il suo repertorio con numerose performance di vario tipo, passando dall’utilizzo del corpo nudo per creare coreografie “inumane” (Self Unfinished, 1998) al mimare l’intera direzione musicale del Berlinen Philharmoniker durante l’esecuzione de La sagra della primavera di Igor Stravinsky (Le Sacre du Printemps, 2007). Indice infallibile di una versatilità senza paragoni, questa duplice esemplificazione è testimone di un concetto-base profondamente radicalizzante, vale a dire che da più di vent’anni il significato dell’arte tersicorea è divenuto labile, glissando i propri confini verso campi artistici difficilmente eletti a fonte d’ispirazione. La danza, arte dell’effimero per eccellenza, necessita di una nuova “lingua” attraverso cui possa essere comunicata, che si articoli col gesto o con la parola, proprio come ha fatto il precursore del movimento non-danse, Orazio Massaro. Componente della compagnia di Dominique Bagouet, nel 1990 presenta alla decima edizione del Festival Montpellier Danse il lavoro Volare, in cui a sei danzatori viene bandita la partitura coreografica per far posto a una attoriale, mediante la quale essi raccontano della danza con la propria esperienza personale: la parola sostituisce il movimento, il concreto spodesta l’etereo. Il corpo del danzatore diviene, dunque, un discorso culturale, emblema della società a cui appartiene. L’assioma dell’arte per l’arte è superato e la non-danse trova una connotazione – si potrebbe dire – politica nel mondo dello spettacolo, quella cioè di manifesto della performatività del corpo del danzatore portato in scena attraverso tre principali modalità: la nudità, la sparizione e l’immobilità.
Al primo caso, già ricordato con Xavier Le Roy, fa afferenza l’italiana Maria Donata d’Urso, la quale definisce il suo corpo una “metafora di stratificazione della memoria” (Pezzo 0 due, 2002); il secondo caso riporta alla memoria nomi del calibro di Emmanuelle Huynh e Christian Rizzo, la cui non-danse punta all’assenza del corpo, tanto in senso scenico quanto in quello meramente materiale (Múa, E. Huynh 1995 – 100% polyester, object dansant n°(à définir), C. Rizzo 1999); infine, per il terzo caso è senza dubbio notevole di menzione Boris Charmatz, che in prima persona in ogni performance sfida l’assoluto controllo del proprio corpo plasmando in scena – paradossalmente – sequenze d’azione virtuosistiche e, a volte, estreme (régi, 2005).
Naturalmente i succitati sono solo gli exempla più rilevanti a proposito di questa suggestiva disciplina coreutica, in continua espansione sfortunatamente solo all’estero. La speranza è, dunque, che il panorama italiano si interessi con altrettanta passione alla divulgazione di un nuovo (e necessario) Verbo della danza.
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