Intrecciare, allacciare, giocare: L’Armata Brancaleone di Roberto Latini
Così i gesti vivi delle immagini esangui, e i movimenti delle figure immobili, quasi erompessero via dai riquadri, e le spiranti fattezze dei volti ti tengono sospeso, come se poco meno ti aspettassi che da lì erompesse anche la voce. E v’è pericolo in ciò, perché da tale meraviglia son fatti prigionieri soprattutto i grandi ingegni.
Francesco Petrarca, Dei rimedi dell’una e dell’altra sorte
Quando Francesco Petrarca scrive Dei rimedi dell’una e dell’altra sorte, il suo pensiero è già giunto alla maturità, ed è interessante notare come a quest’altezza segnali come massimo pericolo per i grandi ingegni la sospensione fra la stasi del reale e la dinamicità dell’immaginazione.
Nella sua Armata Brancaleone, Roberto Latini sembra voler estremizzare la precarietà di questa sospensione, lanciando lo spettatore nel microcosmo straniante e parodistico creato da Age e Scarpelli, ma cambiandone i connotati.
Se il film del 1966, parodiando i grandi kolossal storici, aveva creato un’ambientazione medievale difficile da datare, al cui interno si muovono i cavalieri picareschi di Brancaleone e la sua armata alla volta dell’agognata Aurocastro, la matrice di questo spettacolo è ben diversa.
La messa in scena elimina qualsiasi appiglio che aiuti a dare una collocazione a ciò che accade in scena, la decostruzione agisce stratificandosi esponenzialmente: visivamente, linguisticamente e narrativamente.
Lo spettatore de L’Armata Brancaleone è guidato in una partita complessa, non c’è tempo per prenderne coscienza. Nella sala verde selva dell’Arena del Sole, si è immediatamente accolti da richiami naturali, le cui note discordanti, prima piano, poi sempre più forti, sono interrotte da un suono grave e intenso, anch’esso distorto. Questo primo momento acustico, dell’architettura sapiente e calcolata creata ancora una volta da Gianluca Misiti, introduce l’ingresso dei personaggi, calati dall’alto, seduti su una trave, come tante miniature pronte ad essere utilizzate, con tutta l’intransigenza del gioco dei bambini, in cui anche le regole vanno infrante con criterio.
Gli attori in scena aderiscono perfettamente al meccanismo ludico, ma rigoroso, innescato da Latini, trasformando personaggi radicati nell’immaginario degli spettatori, in qualcosa difforme, senza mai cadere nel comico immediato, ma senza privare i personaggi della loro ironia intrinseca.
Nessuno dei protagonisti della vicenda è privato del suo intrinseco chiaroscuro: dalla vanagloria di Brancaleone Da Norcia (Elena Bucci), alle trasformazioni vocali di Claudia Marsicano, Ciro Masella e Marco Vergani, passando per l’umanissimo ronzino di Francesco Pennacchia (che interpreta anche una ferina Matelda), per finire con un solenne Marco Sgrosso, che dona una forza nuova persino all’intramontabile “Vade retro Satan”.
Tutto ciò che accade in scena è sorvegliato, ma soprattutto salvaguardato da Latini stesso, che appare fugacemente, come un’ombra che attraversa i vari episodi, vestito di nero, parrucca bionda e pochi elementi di un’armatura in pezzi; questo personaggio invisibile, quasi un cavaliere inesistente al contrario, passa inosservato fino a quando non decide, dopo una faticosa passeggiata su una trave sospesa, di uccidere il chiaro di luna, come Marinetti, “Bravo” gli urla Brancaleone.
I vestiti sono dominati da colori saturati, con elementi che ricordano le anacronistiche tute dei film di fantascienza italiani degli anni 60, mentre l’impianto scenografico, sostenuto dalle luci allucinogene di Max Mugnai, è dominato da figure geometriche, forme essenziali e psichedeliche che ricordano i film espressionisti tedeschi degli anni venti.
L’azione non si dispiega, viene ripiegata, frammentata e sfumata in quadri, senza la pretesa di creare affreschi, immagini, ma piuttosto a pause di respiro, sospensioni episodiche tipiche della narrazione orale di materia cavalleresca. Il dispiegarsi della narrazione dei romans medievali è caratterizzato dalla tecnica dell’entrelacement, che si può tradurre letteralmente come interallacciamento, parola che unisce al suo interno il concetto di intreccio e allaccio. Una maniera per sospendere e legare i molteplici fili narrativi messi in campo, uno strumento privilegiato per rappresentare la polifonia dell’universo cavalleresco,
Proseguendo un sentiero chiaro ma vario di riflessione sui testi e la decostruzione canonica della testualità, Latini attiva una riflessione sui meccanismi dell’impianto teatrale mettendo in scena una storia impressa nell’immaginario comune rendendola un’occasione per raffigurare la reiterazione ludica, tassello identitario del mestiere dell’attore.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.