da Aniello Nigro | 17 Dic 2016 | Theatropedia
Abbiamo già detto di quanto importante sia la Grecia per la nascita del teatro moderno, luogo in cui s’innestano le sue radici ultramillenarie. Per cui mi sembrava doveroso prima di lasciare i luoghi sacri di quest’ultimo, con la benedizione di Melpomene e Talia, soffermarmici. E se i lettori lasciano per un attimo la razionalità del tempo e concedono a chi vi scrive il beneplacito della licenza poetica propongo un’intervista impossibile con Aristotele, il massimo studioso degli usi e costumi dell’epoca, uno dei padri della filosofia occidentale. Per questo, con un’elucubrazione fantasiosa e poetica, ci accingiamo a invitarlo a rispondere ad alcune domande e considerazioni sul vecchio e sull’odierno teatro ovviamente con il massimo rispetto che si deve a una figura di tale grandezza.
THE: Salve, devo dirle che l’imbarazzo è grande e palese: trovarsi di fronte a lei è davvero un onore e un merito che non tutti possono permettersi. Non so nemmeno con quale titolo chiamarla. Per questo mi conceda di usare una parola che dagli studi delle medie l’accompagna, filosofo. So che il tempo è ridotto, per questo vado subito al sodo. Aristotele, letteralmente, significa: finire bene. Come ci vede messi? Come siamo finiti?
ARI: (ride prima sommessamente poi sempre più evidente) Mi lasci ridere per favore.
THE: Prego, si figuri.
ARI: Veda, lei, non dovrebbe chiedere: “come siamo finiti?” Si tratta di sostanza, cioè a me piace parlare di ciò che è in sé e per sé. Lei dovrebbe chiedermi se siete finiti o no? E allora potrei risponderle sì, siete finiti; il come non m’interessa.
THE: Noto una vena polemica.
ARI: Le posso chiedere un’altra cortesia? Non mi parli con frasi fatte da giornalisti di quarto ordine. Io osservo, ascolto, e davvero trovo rumorose certe domande ovvie di questa scoperta “mille-cinquecentesca” del giornalista.
THE: Mi scusi. Noi siamo qui, per mezzo di Theatron 2.0, un sito internet che si occupa principalmente di teatro…
ARI: Ah, internet, me ne hanno parlato, quella cosa che in sostanza non è, non c’è, eppure c’è e c’è molto.
THE: Sì, quella cosa. Ci occupiamo principalmente di teatro. Ovviamente, istintivamente, appena la s’incontra c’è una domanda che sorge spontanea: può parlarci, proprio lei che le identificò, delle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e d’azione? Sa il teatro per secoli ha discusso sull’utilità o meno delle sue tre unità.
ARI: Il teatro discute? Che mistero è, il teatro ha preso vita?
THE: No, per teatro qui s’intende il mondo del teatro.
ARI: Capito. Ho capito che io e lei non possiamo andare d’accordo sul lessico. Comunque… vorrei sfatare questa fandonia che riportate anche sui vostri libri di testo. Non ho mai parlato di unità. Queste sono le vostre interpretazioni di comodo ed io ho trovato anche l’autore di questo fraintendimento: un certo Ludovico Castelvetro, un filologo modenese del 1500 che tradusse a modo suo la mia Poetica. L’ho apostrofato come si meritava: “Chiamale le unità castelvetriane, non mettere in mezzo me, cialtrone!”. Pensi che lui invece continuò ad asserire che quel che tradusse era l’unica verità che io avessi scritto: al che non ho potuto che consigliargli un corso di greco accelerato.
THE: Quindi lei non ha mai scritto delle peculiarità della messa in scena del Teatro greco?
ARI: Io nella mia vita mi sono sempre limitato, e non c’è limite in questo, di analizzare le cose per quelle che sono in un dato momento e non sul loro perché o sul come devono essere. Ne posso studiare le cause, quello sì, che è l’unica cosa di cui un filosofo dovrebbe occuparsi. (indica di seguirlo) Venga con me.
THE: Dove andiamo?
ARI: Venga, vede? Quella è Atene. Oh meglio, per lei, era Atene, siamo nel 334 a.c. e lei non mi sembra propriamente di quel tempo.
THE: Eh già.
ARI: Vede tutta quella gente?
THE: Sì e quanta!
ARI: Sta per iniziare uno spettacolo.
THE: Ah ci sono le Grandi Dionisie.
ARI: Theatron, ricordati che ogni cosa ha una sua evoluzione, siamo nel 334 a.c., no nel 500 a.c., Il Teatro ha seguito il suo corso, oggi lo si fa anche in altri eventi festivi, non si deve aspettare le Grandi Dionisie perché possa andare in scena uno spettacolo, il teatro ha in questi anni una propria dignità.
THE: Mi scusi. Non sapevo. Certo che quella gente è davvero appassionata al teatro se già all’alba sono lì ad aspettare che inizi lo spettacolo. È un po’ come fanno certi fans ai giorni nostri che aspettano dalla sera prima il cantante famoso che dovrà esibirsi.
ARI: (lo guarda in cagnesco) Ai giorni vostri si attende il nulla, cosa c’è da attendere se si sa già a che ora arriverà l’artista? Lì ad Atene lo spettacolo inizia all’alba.
THE: Ah già. Vero. Però dev’essere interessante, la scenografia la fa l’ambiente del momento, maestosa, le nuvole vere, la luce del giorno, il vento…
ARI: Quello da fastidio, ha sempre dato fastidio.
THE: …già anche ai nostri tempi… vero, quello da fastidio.
ARI: Vede, vede che ressa: sta arrivando Eusochilo.
THE: Chi è? Un drammaturgo che partecipa al concorso drammaturgico?
ARI: È un attore.
THE: Quindi anche un drammaturgo.
ARI: No, ho detto che è un attore.
THE: Scusi, filosofo, non vorrei contraddirla, ma io ho studiato, stavolta credo di non sbagliare se le ripeto che è dunque anche un autore. Perché nell’Antica Grecia erano gli stessi drammaturghi a recitare le loro opere.
ARI: Lei ha studiato troppo o troppo poco. Si è fermato nel 400 a.c. evidentemente. Nel 335 a.c. gli attori sono dei veri e propri divi, hanno acquisito una loro importanza autonoma. Tanto è vero che i più bravi e famosi vengono chiamati per recitare più di una tragedia. Eusochilo reciterà in tre tragedie in questo concorso.
THE: Caspita. Beh! Però non può negare che ha un suo seguito. Ci sono persone che si dimenano, gridano a me davvero sembra di stare ad un concerto di una rockstar.
ARI: Se le fa piacere questo paragone non posso negarglielo. Stanno per andare in scena: vede gli organizzatori lo scortano…
THE: …i bodyguard…
ARI: (guardandolo stranito) …lo scortano fin dietro la skené. THE: La…?
ARI: La skené, quell’edificio in legno, Lo vede? Là dopo l’orchestra. Lì ci sono gli attori che cambiano le maschere, i trucchi e i costumi.
THE: I camerini!
ARI: No, non sono quelli che voi chiamate camerini.
THE: Abbia pazienza ma il luogo dove gli attori si cambiano i costumi di scena e si truccano sono quelli che noi chiamiamo camerini.
ARI: La skené è anche la scenografia per loro. Io ho studiato i vostri tempi ma lei i nostri li deve un po’ rivedere. Comunque sbrighiamoci se vogliamo assistere allo spettacolo, altrimenti ci perdiamo il prologo.
THE: Ah, vuole vedere lo spettacolo. Non so se… quanto dura?
ARI: Cinque ore.
THE: Sta scherzando?
ARI: Io non scherzo! Non siamo ad uno spettacolino degli anni 2000. Vi seguo sa: Un atto veloce, indolore, non più di un’ora e via. Chissà poi cosa ci avrete da fare a casa?
THE: Eh, caro filosofo in quei tempi che vedo non c’è la televisione, il cinema, internet. Oggi si è alla ricerca di qualcosa di più intuitiva. Mi meraviglio dovrebbe convenire con me, lo dice nelle sue teorie bisogna valutare l’evoluzione.
ARI: Già l’evoluzione della specie. Lei trova che i suoi contemporanei siano forniti di intuito?
THE: Beh, non tutti… magari… non tutti… pochi… ma…
ARI: A cosa servono le cose intuitive se si propongono a gente con poco intuito? Non è meglio che si formi l’intuito prima?
THE: Hm…
ARI: Ma non mi deve rispondere l’importante è che si domandi. Voi pensate continuamente che quel che studiate siano verità storiche, non pensate mai che sono delle interpretazioni. Se lei scende lì nella cavea e chiede delle unità aristoteliche nessuno sa cosa siano, nemmeno le diranno che è vero che ci siano le scene che avvengono in un solo luogo, il tempo della tragedia limitato alle ventiquattrore dell’azioni che debbono essere consequenziali. Perché non è vero. Ci sono delle commedie in cui varie azioni avvengono in luoghi diversi. Il tempo limitato c’è, spesso, per una questione di comodo, il coro è sempre in scena e per giustificarlo bisogna avere un tempo limitato. Ma questo nel 334. a.c. lo si vede come una esigenza immodificabile, perché è un tempo proprio del teatro senza il quale quello che vedrebbero non si chiamerebbe più teatro.
THE: Capisco. Credo che sia stato chiaro.
ARI: Gliel’ho fatto vedere il teatro, no? Ora io non so come lei lo racconterà. Sono certo che sia quello che ho visto io ma non posso essere certo di quello che ha visto lei.
THE: Questione di percezione.
ARI: Credo di sì.
THE: Bene, prima di lasciarla però le volevo chiedere una considerazione sul teatro contemporaneo, anche se qualche cosa è già trapelata. Lei ha detto che ci segue. Cosa ha visto del e nel nostro teatro, quali differenze con quello che lei ha invece sperimentato direttamente?
ARI: Il teatro ai miei tempi era catartico, istruttivo, dignitoso. Ci sono state ere, anche in tempi non lontani, in cui l’evoluzione del teatro greco ha accresciuto queste qualità. Oggi però, tranne in alcune eccezioni che non hanno successo, l’evoluzione pare essersi arrestata per dar vita ad una involuzione. Lo spettacolo odierno pare che spesso accontenti il pubblico, lo accomodi, non lo scuote. Per di più vedo un teatro, quello che voi ritenete il più importante, che si autocelebra, non esistono autori, attori, quel ruolo moderno del regista o meglio non li fanno esistere. Niente. Non nasce un nuovo teatro e né si celebra il vecchio come si dovrebbe. Gli artisti si autodefiniscono demiurghi per cui quasi come nuove sacre entità si fanno egli stessi autori, attori e registi di se stessi. Il teatro oggi, mi dispiace dirlo, non ha più senso proprio perché lo avrebbe. Recita se stesso celebrandosi davanti ad un pubblico amico, forzato ed incompetente.