Apriamo le stanze di Barbablù: Amleta contro la violenza sulle attrici in Italia
Le abbiamo intervistate a novembre dell’anno scorso – poco tempo dopo la loro nascita come collettivo di volontarie impegnate nella battaglia contro la violenza e la discriminazione di genere – e, in conclusione, avevano espresso il più immediato obiettivo di farsi riconoscere come associazione; appena un mese trascorso, e questo si era già realizzato, permettendo ad Amleta di costituirsi parte civile nei processi giudiziari e aiutare così, ancor più incisivamente, le vittime di abusi perpetrati all’oscuro, nelle stanze nascoste dei teatri italiani.
A un anno di distanza, numerose, trasversali e diffuse sono state le azioni portate avanti, nonché i riconoscimenti – tra cui il premio “Arte e diritti umani” 2021 di Amnesty International – giunti in risposta al loro operato, fino ad arrivare alla più recente iniziativa “Apriamo le stanze di Barbablù”, la challenge lanciata sui social nel mese dedicato alla violenza sulle donne.
Ne abbiamo parlato con Silvia Torri – attrice, marionettista e una delle ventotto fondatrici di Amleta – che ha spiegato meglio di cosa si tratta, indagando un fenomeno complesso e delicato di cui si conosce ancora troppo poco.
Amleta nasce durante il lockdown in seno ai dibattiti per la richiesta di maggiori tutele verso le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo; la missione ha fin da subito richiesto una serie di azioni eterogenee tra loro dirette verso un obiettivo comune. Puoi parlarci dei principali strumenti che avete messo in campo fino a questo momento?
La violenza e la discriminazione di genere sono fenomeni trasversali e, soprattutto, culturali sostenuti da un’impronta maschilista ancora predominante nel nostro Paese, ed è il motivo per cui risulta necessario ampliare il più possibile lo spettro d’azione. Siamo partite da un’attività di mappatura che ha confermato le nostre sensazioni, ovvero la netta minoranza di attrici rispetto agli attori nei teatri più strutturati a fronte di un grandissimo numero di donne che si formano nelle scuole, e la loro sconcertante assenza nei ruoli di direzione.
Oltre alla raccolta dei dati, che ci ha mostrato l’aspetto numerico della disuguaglianza, ci siamo occupate di agire sul versante culturale attraverso l’istituzione dei “mercoledì di genere” invitando esperte del settore e donne di teatro per poi restituirne testimonianza con brevi video trasmessi sui social; una parte del gruppo si è invece presa carico dei test sulle drammaturgie evidenziando quello che la critica cinematografica Laura Mulvey ha definito “male gaze”: se la drammaturgia è scritta da uomini, la rappresentazione della donna – elemento importantissimo nella costruzione dell’immaginario collettivo – è inevitabilmente viziata dal loro sguardo, risultando talvolta svalorizzante e limitativa.
Ciò che vogliamo si attui maggiormente è però l’unione tra piano immaginario e concreto, essendo l’uno lo specchio dell’altro, e la loro reciproca comunicazione: per questo, abbiamo attivato uno spazio protetto in cui raccogliere le testimonianze degli abusi subiti dalle attrici che possono scriverci a osservatoria.amleta@gmail.com; lo step successivo è quello di affidare i singoli casi a un team di esperte e avvocate dell’associazione – attiva già da diversi anni nel campo – Differenza donna con cui collaboriamo stabilmente dopo essere giunte all’arresto di un finto regista, sostenendo così percorsi di accompagnamento legale per le vittime di violenza.
Come vi servite dei social e in cosa consiste la vostra più recente iniziativa?
La nostra presenza sui social è utile soprattutto per informare con rubriche e spunti culturali, generando un polo di attenzione, ma è solo la parte più visibile di un grande impegno sottostante.
“Apriamo le stanze di Barbablù”, nello specifico, nasce sull’onda del movimento MetooThéâtre che ha preso avvio lo scorso mese in Francia: alcune colleghe attrici hanno infatti raccolto sui social le testimonianze di donne vittime di abusi e ciò ha determinato le dimissioni dei direttori di teatri coinvolti.
Amleta, per ciò che riguarda l’Italia, ha chiesto di contribuire e sostenere la sua campagna con una semplice azione: scattare una fotografia in cui si mostra il proprio volto e si impugna una chiave, quella che apre simbolicamente la stanza segreta dei Barbablù, postandola insieme all’hashtag dedicato #apriamolestanzediBarbablù; nel testo sottostante sarà possibile, a discrezione, raccontare la propria esperienza. Per chi invece preferisce mantenere l’anonimato, resta sempre valida la possibilità di esporsi in forma tutelata su Osservatoria.
L’iniziativa andrà avanti per tutto il mese di novembre toccando il suo culmine il 25, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
È forse ancora presto per tirare le somme, ma come sta andando fino a questo punto in termini di adesione e cosa sta emergendo?
Stiamo ricevendo un numero davvero alto di adesioni, ma in tal caso dovremmo anche sottolineare “purtroppo”. Mettere la faccia in queste situazioni non è affatto facile, e spesso le molestie subite sono più d’una e bisogna considerare anche ciò su cui si decide di esporsi. È come se pian piano si stesse scoperchiando il vaso di Pandora, sebbene risulti difficile riportare le testimonianze per un senso di vergogna, e poiché l’abuso, soprattutto in ambito teatrale, viene normalizzato, sminuito, direi quasi “romanticizzato”.
Quanto al sostegno, stanno arrivando diverse adesioni anche da parte di uomini, malgrado la loro presenza sia ancora marginale perché il problema non viene sentito a livello collettivo, è come se non li riguardasse. Non è inoltre da sottovalutare il fatto che, seppur con numeri inferiori, non è soltanto il genere femminile a subire violenza.
Che tipo di abusi si rilevano maggiormente e quanto conta il fattore età?
Le testimonianze che pervengono a Osservatoria sono lette soltanto da due persone dell’associazione, per cui c’è un grande riserbo al riguardo per tutelare le vittime. Quello che si può affermare con una certa sicurezza, anche attraverso ciò che viene reso pubblico, è che sia le violenze – le quali spaziano dalle molestie verbali all’aggressione fisica fino al vero e proprio stupro – sia l’età sono assolutamente trasversali: a cadere nella trappola non sono soltanto le donne più giovani, sebbene i Barbablù vadano a colpire maggiormente dove sanno di trovare situazioni di fragilità.
La ragazza che si trova all’inizio della sua carriera è infatti più ricattabile perché ha meno rete, meno tutele, è più sola; e dato che abuso di potere e ricatto lavorativo vanno di pari passo è più difficile sottrarsi e dire “no”. Una situazione aggravata dal fatto che, proprio perché meno presenti nei grandi teatri, le donne, anche quelle con più esperienza, finiscono in circuiti minori dove vi sono meno soldi e scarse protezioni.
Grazie al movimento internazionale MeToo sono venuti fuori vari casi e nomi legati però soprattutto all’ambito cinematografico. Perché nei teatri il fenomeno rimane così sommerso?
Io credo che il teatro, essendo un settore più di nicchia e ammantato di una patina di cultura, sia un luogo che nasconde ancora meglio i soprusi. Un fattore non trascurabile è poi la presenza di una forte disgregazione e precarietà lavorativa, ed è stato necessario l’arrivo di una pandemia affinché vi fosse una presa di responsabilità collettiva sulle tutele; non ritengo infatti un caso che si sia creato un tavolo di genere proprio quando si rivendicavano i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo.
Un altro elemento più subdolo, ma determinante, è che si viene condizionati dall’idea dell’“artista-genio”, colui a cui tutto è concesso perché ma sì, lo sai che lui è così… e che viene sostenuto nel suo agire fino a essere giustificato.
“Cultura” e “violenza” – per riprendere le parole della presidente di Amleta Cinzia Spanò – sono invece due termini che devono smettere di stare insieme, e il secondo andrebbe liberato da quel velo di romanticismo che edulcora l’abuso e lo rende accettabile.
Barbablù è allora anche chi tace davanti alla violenza e le dà motivo per esistere. Un perverso meccanismo a incastro di cui anche le donne stesse fanno fatica a liberarsi…
Assolutamente sì. È l’intero sistema che protegge, sostiene e avalla i Barbablù, in cui la violenza non viene sminuita solo da chi la fa, ma anche dal contorno. E di questo contorno fanno parte purtroppo anche le donne, con forme di maschilismo interiorizzate o semplicemente mosse dal bisogno di sopravvivere e non perdere il lavoro. È naturale, allora, che la vittima si ritrovi inascoltata, sola, e in preda a un senso di vergogna, perché sente che qualcosa di grave non viene percepito come tale.Ed è qui, dunque, che si affaccia Amleta, che vuole essere questa solidarietà: una rete sicura a cui l’attrice può rivolgersi ed essere finalmente accolta.
A proposito del fare rete, oltre a quella con Differenza donna, quali sinergie avete creato nel piccolo e, in un’ottica più ampia, anche oltre confine?
Al momento la vera collaborazione stabile è quella con Differenza donna, ma siamo in contatto con tante altre realtà che supportano il nostro lavoro. C’è poi un aspetto importantissimo, che si genera dal basso, ed è quello che concerne le donazioni volte a finanziare le spese connesse agli iter legali, nonché le azioni culturali intraprese da Amleta e le competenze dei professionisti di cui ci avvaliamo. Ciascuno, nel suo piccolo, può contribuire alla nostra missione tesserandosi sul sito di Amleta al costo base di dieci euro, o anche di più, se lo ritiene importante.
A un livello più ampio e internazionale, al momento, non si sono create vere e proprie sinergie, ma siamo sempre in ascolto, raccogliendo pratiche e contatti con altri movimenti che ci servono come spunto per crescere e agire in modo sempre più pervasivo ed efficace, come è stato per “Apriamo le stanze di Barbablù”.
La violenza e l’imprinting maschilista della società sono soprattutto un problema culturale, come più volte ribadito: quali altre azioni ci riserva il futuro su questo fronte e come si concretizzeranno sul breve e lungo periodo quelle già intraprese?
Ci sono delle metafore che trovo spieghino molto bene la situazione e i rischi in cui si incorre permanendovi. La prima è quella di un iceberg della violenza, dove al vertice, ovvero la parte visibile, troviamo la forma più estrema: il femminicidio. Ma l’iceberg è composto da più strati, tanti quanti sono gli aspetti multiformi del sopruso – dal linguaggio quotidiano passando per il ricatto emotivo nelle relazioni – ed è dunque necessario agire su ognuno di essi perché l’uno sostiene l’altro, e anche quella che viene definita un’innocua battuta può contribuire ad alzare l’asticella della tolleranza. Il rischio è appunto di trovarsi come la rana che, dapprima immersa in una pentola d’acqua fredda, non schizza via come farebbe se fosse bollente, ma comincia a cuocersi lentamente senza neanche rendersene conto.
Per sciogliere allora quell’iceberg è necessario partire dalla formazione, ed è per questo che il 22 novembre entreremo al Politecnico delle Arti, di cui fa parte la Civica scuola di teatro Paolo Grassi, per portare il nostro messaggio a chi decide di svolgere il mestiere di attrice o attore, ma anche a coloro che faranno parte del sistema occupando ruoli di responsabilità e potere.
Oltre alle attività a latere di cui informiamo sul nostro sito, la prossima primavera vedrà concretizzarsi il Festival di Amleta, ancora in via di organizzazione, ma già inserito nella stagione di MTM Teatro.
Quanto a questa campagna social, invece, vedremo come procedere sul piano legale, fermo restando che i tempi sono purtroppo dilatati (non dimentichiamo che spesso è difficile procedere anche perché il reato di stupro cade in prescrizione dopo appena un anno!), e le questioni richiedono particolare delicatezza e rispetto della volontà delle vittime.
Sicuramente bisogna dare il giusto tempo affinché le cose accadano tenendo sempre alta l’attenzione, e queste piccole azioni su vari livelli vogliono essere come dei semini da piantare nel terreno: renderlo fertile mi pare già un ottimo obiettivo.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.