Non è stata la superstizione legata alla numerologia o alle date nefaste e nemmeno il rischio di temporali, la pioggia a fermare il debutto, la serata inaugurale del Festival Attraversamenti Multipli, venerdì 17 settembre. Il consueto appuntamento, preludio d’autunno, curato da Margine Operativo con la direzione artistica di Alessandra Ferraro e Pako Graziani, è un progetto artistico che si è sviluppato, fin dal 2001, in una serie di eventi crossdisciplinari, condivisi e vissuti all’interno di spazi urbani.
Gli spettatori sono ritornati numerosi a vivere il rituale collettivo del Teatro, nell’agorà di Largo Spartaco a Roma e, infatti, il tema di quest’anno mette al centro la relazione tra i corpi insieme alla convergenza tra spazio e tempo. Tra l’arte e la dimensione della socialità. Tre anni fa sarebbe risultato come un aspetto troppo scontato su cui porre l’attenzione, ma è bastata una pandemia globale, una lunga fase di emergenza sanitaria per svuotare quella corrispondenza erotica tra artisti in scena a pubblico. Cosa è cambiato nel frattempo? Cosa è rimasto uguale?
Di certo possiamo affermare che è una sensazione entusiasmante ritrovarsi per un assistere a un evento, confrontarsi nel dialogo, bere una birra. Possiamo anche ribadire che abbiamo compreso tutti la differenza tra distanziamento fisico e distanziamento sociale. Abbiamo applicato il primo per correggere il secondo, in modo pieno e consapevole, anche quando andiamo al teatro o partecipiamo a un evento pubblico.
È bello vedere differenti generazioni che si riuniscono ancora tra di loro, incrociandosi e cercando di contrastare l’inclinazione alla disumanizzazione, alla segregazione. È bello ritrovare la speranza di poter cambiare una o più vite, nella traiettoria di quella linea di pensiero e di comunicazione che mette in relazione persone, culture, provenienze, età, generi e condizioni sociali diverse. Nella consapevolezza di aver vissuto uno o più eventi traumatici, ma di non essere per questo dei sopravvissuti.
La prima delle novità che il pubblico, ma anche la comunità del quartiere ha trovato ad Attraversamenti Multipli nell’edizione 2021 è stata Rainbow, “un’opera da abitare” di street-art ideata da Bol, ovvero Pietro Maiozzi, storico pittore muralista di Roma. Un progetto che è anche una metafora, quella dell’arcobaleno, realizzato per il Festival e per l’isola pedonale di Largo Spartaco. Linee colorate che si estendono in orizzontale, sul lato interno della muraglia di recinzione. Concepita anche come una seduta che accoglie tante persone diverse, ogni giorno. Un simbolo concreto e resistente di inclusione sociale.
Un’altra iniziativa da segnalare èLa rivoluzione dei libri un progetto ideato da Alessandra Crocco e Alessandro Miele, prodotto da Progetto Demoni/ Ultimi Fuochi Teatro. Si tratta di una installazione di QR Code letterari, accompagnata da una mappa, disseminati e sparsi un po’ ovunque nel quartiere Quadraro. Un ulteriore modo di fare e dare accoglienza al pubblico in tutte le serate del festival, ma anche ai passanti occasionali che avranno così modo di ascoltare le parole vive di tanti autori. Lungo un percorso che comprende anche luoghi simboli come Garage Zero, il centro sociale Spartaco, Lucha y Siesta, la biblioteca Cittadini del Mondo.
Le voci della rivoluzione che hanno letto e interpretato altrettante clip letterarie sono quelle di Alessandro Argnani, Michele Bandini, Michele Baronio, Tamara Bartolini, Consuelo Battiston, Elena Bucci, Ruggero Cappuccio, Nadia Casamassima, Andrea Cosentino, Alessandra Crocco, Claudio Di Palma, Rita Felicetti, Roberto Latini, Roberto Magnani, Ignazio Oliva, Alessandro Miele, Laura Redaelli, Alessandro Renda.
Un’altra installazione che è diventata una costante di Attraversamenti Multipli, programmata per la serata di apertura è Teleradio Metropoli. Concepita come una “street-tv” e una radio open air, racconta il festival in diretta streaming con un flusso incessante di immagini, notizie e aggiornamenti, musica, racconti e poesie. La voce del conduttore/performer è quella di Andrea Cota, in arte Mondocane che cura anche la selezione dei contenuti insieme con Margine Operativo. La sezione video è curata da Pako Graziani.
Due sono stati gli eventi di punta della serata inaugurale del 17, la performance Asta al buio con Antonio Rezza come banditore e Mash-up di Carlo Massari/C&C Company. Un formato, il primo, strutturato e realizzato in altre occasioni per una finalità benefica. Rezza è al centro di un grande tavolo, davanti al pubblico vivo e vivace di Largo Spartaco che commenta, ride, applaude. Decide la base d’asta di oggetti che non sono visibili. Non sono esposti, possono essere reali o astratti, di volta in volta vengono soltanto descritti dall’attore-regista nato a Novara, ma nettunese d’adozione. E le sue descrizioni sono originali e molto generiche, spesso fuorvianti, difficile avere la certezza di avere fatto un affare o meno, si scoprirà soltanto alla fine.
Il banditore Rezza spende il suo estro e il suo eclettismo nel gioco-dialogo con il pubblico, in una dimensione goliardica, surreale ma al tempo stesso anche genuina e di grande empatia. Una volta effettuato il pagamento, i premi vengono mostrati e consegnati agli acquirenti con la lettura delle expertise.
L’opening si avvia alla sua conclusione con il secondo evento previsto per la serata, la prima nazionale dello spettacolo di danza Mash-Up. Nonostante la sua breve durata (25 minuti), esso contiene tracce e preziosi contenuti da sviluppare ed espandere fino a raggiungere una sua definizione e completezza. Carlo Massari continua la sua narrazione, il suo racconto sulla miseria umana. Due aspetti che caratterizzano le sue opere, la cifra della compagnia C&C Company.
Le note che accompagnano la presentazione della performance contengono una calzante citazione che appartiene al filosofo e scrittore tedesco, Ernst Fischer. «In una società decadente, l’arte, se veritiera, deve anch’essa riflettere il declino. E, a meno che non voglia tradire la propria funzione sociale deve mostrare un mondo in grado di cambiare».L’arte sta mostrando un mondo in grado di cambiare? Il mondo è in grado di cambiare?
Massari porta in scena questa tensione emotiva. Il disturbo ossessivo-compulsivo di misurare quasi tutto: parti del corpo, spazi e ambienti, attività umane. Il consumismo. La carne, compresa quella dell’artista. Una combinazione potente a livello drammaturgico. Una voce fuori campo racconta di quanto il consumo di carne animale sia eccessivo oltre ad essere crudele, e di come gli allevamenti intensivi hanno un impatto devastante in termini di consumo di risorse.
Ecco allora che la carne cruda diventa il simbolo peculiare del cedimento strutturale, del crollo della società. Carne che divora carne. Non cresce su un albero come un frutto e nemmeno tra le piante dell’orto. Viene asportata, brutalmente, da un essere vivente, un animale che, morendo, verrà macellato per poter essere confezionato. In una catena di produzione che è diventata sempre più sorda e sempre meno etica, anche perché la domanda è più alta di ciò che la natura offre.
Mash-up è la metafora dell’indifferenza, ma in modo più esplicito dell’avidità. Un desiderio smodato e insaziabile che si è riversato in ogni settore umano, anche nell’arte. Nella ricerca spasmodica di nuove forme di espressione e di movimento, Nei rapporti sociali e nelle dipendenze di ogni genere. Nei legami di sangue. È singolare come un fonema, simile a un muggito, diventa la parola “mamma”. Carne che genera altra carne. Ma quel suono, però, sembra letale come un grido di disperazione e di morte.
In chiave filosofica e drammaturgica, Mash-up di Carlo Massari è vicino alla pittura di Mark Rothko. La forza embrionale di questo progetto consiste nella capacità di svelamento, di penetrare zone inaccessibili. Spogliarsi per immergersi negli strati più profondi delle cose. La direzione della “conoscenza diversa” in fondo è la stessa e accomuna il pittore al coreografo.
La docente e storica francese Annie Cohen-Solal menziona un aneddoto, una confessione fatta da Rothko allo scrittore John Fischer, suo amico, che riflette la sua inquietudine di poter tradire i principi nei quali credeva. L’artista era stato incaricato di realizzare una serie di grandi tele per ricoprire le pareti della sala più prestigiosa di un ristorante molto esclusivo nel Seagram Building di New York. Lui accettò la sfida con l’intenzione di realizzare qualcosa che rovinasse l’appetito di tutti i ricchi e potenti che avrebbero mangiato lì. E per raggiungere l’effetto opprimente utilizzò colori dai toni più cupi di quelli che aveva solitamente usato. Quei dipinti non vennero mai appesi ma Rothko aveva ottenuto, disse a Fischer, l’effetto claustrofobico che Michelangelo aveva creato nella sala della scalinata della Biblioteca Medicea: «Far sentire agli spettatori che sono intrappolati in una sala nella quale tutte le porte e le finestre sono murate, in modo che l’unica cosa che possono fare è trovarsi faccia a faccia con la parete».
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
CityLab 971 è un un polo di aggregazione culturale sulla via Salaria. È nato con l’obiettivo di potenziare la connessione, il collegamento tra una metropoli vasta e complessa come Roma e le produzioni innovative, contemporanee e internazionali, quelle che un tempo si chiamavano avanguardie. C’è anche un’iniziativa multidisciplinare che “celebra l’universo artistico”, la condivisione, la centralità di ogni forma di espressione. Il nome di questa felice corporazione è Elements.
Da uno spazio decadente, come la sede dismessa dell’ex cartiera della Zecca di Stato, è stata ricavata una casa, una factory che ospita lo studio dell’artista e performer Antonio Larosa. In uno degli hangar è stata allestita la sua mostra “Sentieri sospesi 2.1”. Numerose sono le attività e gli eventi programmati per questa estate, spaziando dal tavolo tematico sui diritti umani Jouissance #1 – a cura di Filosofia in movimento, Elements e CityLab 971 – ai laboratori e alla formazione, alla fotografia, alla musica e al teatro.
Di questo ed altro ancora ne abbiamo parlato con Paolo Maria Congi, direttore artistico della compagnia Versus. Una delle tante persone coinvolte in questo progetto; un visionario che, attraverso Elements e insieme con le numerose realtà esistenti, contribuisce concretamente a riqualificare uno spazio vasto e aggregante. Facendosi portavoce di un messaggio di gioiosa resistenza.
Raccontaci un po’ della tua storia personale e professionale.
Le mie prime passioni sono state il cinema e la fotografia, fin da giovanissimo, fin da quando con il mio primo collettivo abbiamo realizzato un film molto travagliato. Sono arrivato al teatro molti anni dopo. Frequentando un corso ho capito che recitare era nelle mie corde, mi permetteva di restituire tutto quello che avevo dentro, anche perché nel frattempo avevo scoperto che fare teatro è un modo per essere veramente se stessi. Stare sul palcoscenico significa concedersi delle libertà che la società non permette di avere.
Fondamentale per la mia formazione teatrale è stato il periodo in cui ho vissuto a Firenze, sono stato un asteroide all’interno della compagnia Chille De La Balanza, all’interno dell’area San Salvi. Un gruppo guidato da Claudio Ascoli, una persona straordinaria, appassionato di poesia, di Antonin Artaud. Subito dopo questa esperienza ho frequentato prima l’Accademia Sharoff a Roma e Teatro Azione dopo. Successivamente, con il gruppo di attori di uno spettacolo da me creato, ho fondato la compagnia Versus e abbiamo cominciato a lavorare all’interno dei centri sociali.
Il primo testo che ho scritto è stato Maddalena, uno spaccato sul quartiere romano di Tor Bella Monaca. Raccontava la storia di un ragazzo spacciatore, ai domiciliari, che viveva tutto questo insieme ai problemi con sua moglie. Abbiamo vinto qualche bando, qualche concorso, siamo stati al Tact di Trieste, un’esperienza fantastica. La mia è una storia di amore per il teatro in tutti i sensi; amo sia il teatro performativo che quello di prosa, la narrazione. Non posso dimenticare infine il mio amore verso Carmelo Bene, un artista che apriva diversi mondi.
Cosa sono e di cosa si occupano rispettivamente CityLab 971 ed Elements?
L’anno scorso abbiamo avuto l’opportunità di fare qui al City Lab alcuni laboratori, superando diverse difficoltà legate soprattutto al Covid, alle poche iscrizioni, alle temperature rigide invernali e purtroppo non siamo riusciti a raccontare al meglio lo spazio. Così abbiamo deciso di proporre quest’anno alcune giornate di teatro, realizzando un progetto all’interno di Elements, il nostro gruppo di iniziative culturali, facendo una programmazione molto più vasta e con molti più artisti.
Abbiamo lanciato una Call aperta accogliendo compagnie che non conoscevamo e artisti come Antonio Rezza, Filippo Gili. L’entusiasmo è stato immenso quando ci hanno dato la possibilità di curare una mostra d’arte con alcuni fondi del Comune di Roma. Oggi con il teatro abbiamo bisogno di questo: creare nuove realtà, nuove sinergie. A noi piace andare direttamente al sodo ed esplorare, così come abbiamo fatto con la compagnia Les Moustache, è stata una bella esperienza offrire loro uno spazio per una residenza, aiutarli. L’amore per il nostro mestiere per noi vuole essere proprio questo: mettere le persone in condizione di lavorare, è una cosa fantastica.
Tra i lavori che presenteremo ci sono Faust, un testo che avevo scritto tanti anni fa, finalista del Festival Indivenire nel 2019, nella forma di corto teatrale. Lo abbiamo ripreso e completato, parla di una persona sola attraversata da mille spettri. Il 23 luglio ci sarà Antonio Rezza con Pitecus e subito dopo questo atteso appuntamento sarà il turno diCome quando fuori piove, il 24 e il 25 luglio. Un progetto a cui tengo particolarmente perché l’ho scritto ed è nato all’interno di una residenza presso il Teatro Trastevere di Roma.
È il mio Macbeth, la mia sfida grande. È da quasi due anni che cerchiamo di metterlo in scena tra mille traversie, nel mezzo di una pandemia mondiale. È un testo storico, ambientato durante il ’43, durante la Repubblica di Salò e affronta il tema dei Partigiani. Parliamo della consegna delle armi, c’era chi si è opposto invocando di continuare una battaglia ideologica. E forse, oggi, avremmo avuto un futuro diverso se avessero dato ascolto alle loro voci. È un testo abbastanza forte; Varga, il capo dei partigiani, non è visto come un buono, è una persona disposta anche ad uccidere, ad attuare quella scelta storica descritta da Jean Paul Sartre ne Le mani sporche. Come in Antigone una società perfetta comporta sacrifici, olocausti.
Il Palcoscenico può essere una casa o una bara?
Può essere entrambe le cose. Ho sempre pensato e sostenuto che chi fa teatro, soprattutto gli attori, rischia di vivere il palcoscenico sia come una casa che come una bara. La tenacia e la coerenza in questo lavoro sono fondamentali, molte persone si chiudono e rischiano di non andare oltre, di non connettersi con il mondo che evolve, di non capire che il sistema teatrale vive di trasformazioni e cambiamenti. Chiudersi nelle proprie compagnie o all’interno di uno spazio scenico significa danneggiare indirettamente tutta una categoria. Il teatro diventa una bara quando non si apre, quando non vuole più parlare al pubblico, quando non vuole più mettersi in relazione con l’entità astratta di bellezza.
Una casa lo è in quanto concede la possibilità di essere sé stessi, di esprimersi. Di essere cattivi, di ridere o di piangere così come si vorrebbe. Tutto quello che la società, spesso, non permette di essere. Ci comportiamo un po’ come frammenti di specchi che sono in rapporto gli uni con gli altri; a teatro molte volte abbiamo la possibilità di ricomporre quello specchio.
Il senso, le dinamiche dell’essere comunità, di raccontarci storie… è qualcosa che abbiamo dimenticato, definitivamente perso o lo stiamo recuperando?
Sicuramente c’è l’impressione di averlo perso o di perderlo a momenti. Dire che questa società moderna ci porta ad essere più soli, sempre più monadi, è abbastanza ridondante. Il bisogno di raccontarci, non a livello proustiano ma come comunità, c’è ancora, esiste. È una necessità, una volontà di fare politica nel senso più autentico del termine, di una narrazione per il futuro. Il teatro parla nel momento del presente, prima o dopo finisce, ma raccontare storie significa parlare al futuro, ai posteri, a chi ancora non è nato. Questo penso sia impossibile perderlo in quanto fa parte di una grande sfera che tiene insieme la letteratura e la poesia. È la nostra necessità di raccontarci come società, nella bellezza, nell’orrore e nella crudeltà, come diceva Antonin Artaud.
La cronaca, il quotidiano è qualcosa di abbrutente anche per noi che lo viviamo. È una storia che non cambia purtroppo, basta pensare a quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere. Sono passati vent’anni da quello che è successo alla Diaz, durante il G8, storie tristissime che purtroppo rimangono ferite aperte e non guariscono. A teatro come al cinema, noi vogliamo raccontare queste storie, anche violente, per descrivere le cicatrici della nostra società, non come una cronaca, piuttosto come un monito perché non succeda mai più.
Oggi più che mai sembra esserci maggiormente fame di verità, a teatro così come nella nostra realtà. È così?
La verità fa parte dell’arte, è la massima espressione di un artista. Stanislavskij diceva “Ne veryu – non ci credo”. Duke Ellington divideva la musica in due categorie: “la buona musica e tutto il resto”. Tutto dipende dall’ascoltatore, dallo spettatore, dal lettore. Abbiamo fame di sapere che cosa è vero, nella marea di falsità, talvolta anche involontaria, in cui ci troviamo immersi.
Siamo travolti da tante notizie e dati; l’informazione è una cosa, la verità è un’altra. C’è anche un legame tra la menzogna e una modalità di fare politica, come ha insegnato Jacques Derrida. La ripetizione di un fatto finisce con il diventare qualcosa di vero, anche se è finto. È come notare un fallo durante una partita di calcio: nel momento in cui il telecronista dice che l’azione non è scorretta, cambia anche la nostra percezione della realtà.
La verità è un’altra cosa, è un sentimento. Sentiamo quando un artista sta mentendo, quando c’è qualcosa che non va, e nello stesso modo percepiamo quando c’è l’apertura del suo cuore, della sua anima. E poco importa se è un’espressione azzardata, violenta, poetica. A livello estetico captiamo la verità, c’è un legame tra noi, la verità e quello che dice una persona con le parole, con il linguaggio del corpo. Quali corde tocca la sua voce, il suo pensiero, i suoi sillogismi, le sue idee. Noi abbiamo fame di un sentire che può anche essere astratto, invisibile. Non metafisico, ma immateriale come il vento e che pertanto esiste.
“Il futuro è fatto di persone che aiutano, che mettono in contatto, che riempiono di gioia l’altro”. Da quale urgenza ha origine e cosa contiene al suo interno questa tua riflessione?
C’è un senso di smarrimento, il rimanerci male per tutte le delusioni che capitano nella vita. La frustrazione e i fallimenti nei rapporti personali e lavorativi. Penso che non bisogna incattivirsi, non bisogna trasformarsi in tutto quello che sono gli altri o in quello che vorrebbero farci diventare: persone che pensano solamente ai soldi o al proprio ego e che mettono davanti a tutto i loro principi, le loro convinzioni.
Occorre esprimere la gioia, la passione per l’arte, per la comunità. L’amore è un fattore politico dobbiamo fare in modo che ritorni ad essere così. Dobbiamo combattere contro le forze del male, io le chiamo anacronisticamente così, non in senso cattolico. La forza del male può essere vinta mediante la forza dell’amore, con l’affermazione “io non sono così, potete continuare a schiacciarmi, ma io non sono come voi”. L’amore deve necessariamente ritornare ad essere una categoria della politica e bisogna essere aperti e resistere alle delusioni e alle difficoltà che si incontrano durante il nostro percorso, continuare a “prendere i dardi della sfortuna”, come recitava Amleto, facendolo tutti insieme, collettivamente, senza cambiare. È una forma di resistenza
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Da trent’anni Antonio Rezza e Flavia Mastrella calcano palchi nazionali e internazionali portando in scena performance acute e sregolate. Il loro nuovo spettacolo è stato bloccato, in fase di costruzione, dal lockdown imposto dall’emergenza Covid-19. Una condizione, questa, comune a molti lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. Questo tempo di restrizioni che ripercussioni ha avuto sulla creatività di due artisti che hanno fatto del contatto uno degli elementi cardine del proprio lavoro? In questa intervista, Antonio Rezza e Flavia Mastrella tracciano il profilo della loro storia artistica, riflettendo sulla ripresa dello spettacolo dal vivo in Italia senza esclusione di colpi.
Da quale suggestione siete partiti per la costruzione del vostro nuovo spettacolo e quale direzione sta prendendo?
Flavia Mastrella: Eravamo partiti, nel 2017, da una riflessione sulla chiusura, su uno strumento che apre e chiude sul nulla.
Antonio Rezza: I calciatori hanno ripreso a giocare, gli ombrelloni sono posizionati alla solita distanza, i ristoranti sono giustamente ripartiti, gli attori possono baciarsi sui set cinematografici dopo aver fatto il tampone. Noi, invece, siamo fermi da cinque mesi perché le prove non si possono fare, gli attori devono mantenere le distanze. Il teatro è ritenuto miserabile e questa è già una dichiarazione di sottomissione che non mi piace, perché se uno è più povero non è che debba essere destinato a soccombere. Non riceviamo sovvenzionamenti statali, quindi saremo noi a decidere se lo spettacolo potrà andare in scena o no, perché non dobbiamo necessariamente sbrigarci per ricevere quell’elemosina che lo Stato fa a chi si accontenta. La malattia c’è stata e nessuno lo nega, ora però è necessario tornare a quello che eravamo. Sembra che certi possano farlo e altri no.
Che rapporto avete con le restrizioni imposte da questa nostra nuova quotidianità, come farete i conti con elementi come il plexiglass o le mascherine? Potrebbero influenzare il vostro lavoro sugli habitat?
AR: Assolutamente no, l’artista è artista e fa il suo lavoro. Lo Stato non può essere Ronconi, non può stabilire le regole della messa in scena, scegliere i materiali. Diventa anche scenografo, adesso, lo Stato? So che la miseria umana può raggiungere picchi inenarrabili e che in molti avranno la tentazione di speculare sul sentimento profondo che ha lasciato questa sciagura, però mi auguro che non si abbattano sul teatro spettacoli sul virus. Siamo stati schiacciati dalle notizie dei telegiornali per quattro mesi: non serve che anche il teatro, la letteratura, il cinema, la musica si sporchino le mani con qualcosa che non fa parte dell’arte. Se uno per avere un’idea deve aspettare che muoiano migliaia di persone, vuol dire che non ha idee, che è inutile per l’arte. Invito chi scrive per il teatro a non parlare del virus: ne parla già la morte di chi è morto, lo stato d’animo di chi ha visto morire. Sarebbe un ennesimo atto di accattonaggio.
FM: La restrizione non è mai uno stimolo creativo, secondo me. Io mi manifesto nella vitalità, non nel dolore. Il plexiglas è estremamente inquinante, non si sa poi come andrà smaltito. L’habitat del nuovo spettacolo è fatto di frammenti di cose, non c’è più una unitarietà nella forma: ho perso completamente il riferimento strutturale, ci sono oggetti che volano nel nero.
Nella descrizione del workshop da voi condotto alla Biennale di Venezia 2018 scrivevate: “affronteremo il bacio nel suo attuale significato”. Che effetto fa ripensare oggi a un’esperienza basata sul contatto con passanti in transito, su effusioni tra sconosciuti?
AR: Da un po’ di tempo, se incontro una persona e vedo la sicurezza nei suoi occhi, io stringo la mano e bacio. Mi vogliono fare la multa? Me la facessero. Nello spettacolo Fratto_X, io e Ivan Bellavista entriamo in contatto. Se qualcuno ci contesta questo, gli diciamo che ci accoppiamo dopo lo spettacolo. Voglio vedere se lo Stato entra anche nella sfera della sessualità individuale. Facciamo l’amore dopo lo spettacolo, nessuno ce lo può impedire. Se noi abbiamo rapporti sessuali possiamo stare sul palco vicini, questo mi sembra di aver capito. La libertà vale più di ogni orientamento sessuale.
Quali convinzioni avete abbandonato lungo il percorso e come si è evoluto negli anni il vostro rapporto?
FM: Non abbiamo abbandonato le nostre idee primarie, ovvero la libertà di espressione e l’anarchia relazionale: non c’è un capo tra di noi. Il nostro rapporto è cresciuto spontaneamente. Non avendo obblighi, né regole precise – dato che tutte le volte noi riscriviamo anche le regole formali – è cambiato con il tempo. Forse siamo tra i pochi che sono riusciti a raccontare l’attualità mentre accadeva.
Col passare del tempo tutto si sintetizza in sinossi sempre più stringate. Se tra un secolo si dovesse ricordare il lavoro di REZZA-MASTRELLA in un pensiero veloce, quale sarebbe?
FM: In una frase veloce il nostro lavoro di tutta una vita? È difficile, ma direi che abbiamo danzato tra mutevoli panorami.
AR: Mi dispiace non vivere tra un secolo per ammirare ciò che abbiamo fatto.
In un’intervista rilasciata nel 2018 ad Artribune affermate: «La nostra inevitabilmente è una parabola discendente, perché non abbiamo vent’anni; ma è solo biologicamente discendente. Siamo ascendenti per la padronanza che abbiamo dell’incoscienza». Come si acquista padronanza dell’incoscienza?
FM: Essendo liberi dai pregiudizi e dai condizionamenti delle logiche produttive. Ma, come potrai notare, la libertà va sempre più riducendosi.
AR: C’è un aneddoto su Picasso, che fece un disegno in un ristorante per pagare il conto. “Ma come, ci hai messo due minuti e paghi il conto così?”. “Non ci ho messo due minuti, ci ho messo settant’anni e due minuti. Avrei potuto farlo più grande, ma tu mi hai chiesto di pagare il conto con un disegno. Se te lo faccio più grande, mi devi dare il ristorante”. L’esperienza, che è sempre corruttrice, ti rende più veloce. La nostra è una parabola discendente perché abbiamo meno tempo per fare le cose. Inevitabilmente, anche se siamo in piena forma, perché che ne sappiamo noi di come cambierà il corpo tra cinque o dieci anni? Che ne sappiamo dei crolli improvvisi? A vent’anni non ti poni il problema, ma non sei così bravo. C’è da essere allegri e disperati nello stesso momento.
In una video intervista con Fede, Martin e Luiz per Muschio Selvaggio, a maggio, avete dichiarato: “Tutto è stato inventato è la scusa della retroguardia”. Di cosa credete abbia bisogno l’arte, in particolare quella teatrale, oggi?
AR: Ti posso dire di cosa non ha bisogno. Non ha bisogno di chi dice che tutto è stato inventato, perché significherebbe accettare il fatto, totalmente inverosimile, che per i prossimi cinque milioni di anni l’umanità vivrà senza idee. La musica, la parola, hanno combinazioni interne infinite. Non si può dare la possibilità di inventare cose nuove solo alla scienza. Nessuno si azzarderebbe a dire che il progresso tecnologico è arrivato alla fine. “Tutto è già stato inventato” è la scusa di chi non ha idee e affossa le capacità sovversive dei giovani.
FM:L’arte teatrale si deve avvicinare di più alla gente. Non si può vivere di mera rappresentazione, né di soli classici. Perché la cultura sia viva è necessario avere autori contemporanei, magari di vent’anni, diciassette. Non importa l’età, ma che siano giovani e sentano il momento. Il teatro è stato affossato dai finanziamenti pubblici che obbligavano i teatri stabili a fare almeno uno spettacolo all’anno. Un autore è sottoposto a uno stress creativo che poi va ad esaurirsi. Viene spremuto per cinque o sei anni, finché non si consuma.
Citando il finale di Fratto_X: “Non capisce niente, lo spettatore. È l’anello debole della catena, lo spettatore. Tutto crolla di fronte allo spettatore.” Cosa vorreste dallo spettatore?
FM: Niente. Noi vogliamo solo comunicare con lo spettatore. Il nostro lavoro è in gran parte visivo, quindi forse più comprensibile. La parola non è l’unico mezzo, certe sfumature passano attraverso le immagini. La comunicazione attraverso i colori e la forma è qualcosa di atavico, che ti risveglia delle sensazioni. Però deve essere schietta, sincera, non è che tu vai col manuale di psicoanalisi o di semiotica sul palco. Devi tirarla fuori a modo tuo capacità di comunicare, senza manipolare nessuno, nemmeno te stesso. Quello di Fratto_X è un pre-finale, che anticipa il condizionamento agghiacciante dove Antonio, con uno specchio, prende le persone e dà loro un ruolo preciso, che è completamente contrario a quello che loro sono nella vita, probabilmente.
Il blocco causato dalla pandemia ha slatentizzato problemi pregressi nel settore dello spettacolo dal vivo. Come vi state ponendo in merito alle proteste di questi mesi?
FM: Già da prima della pandemia ero entrata in crisi, perché mi sembrava che il teatro avesse bisogno di un rinnovamento, di un cambio di tendenza. Questo virus per me ha solo precipitato le cose. Sono molto favorevole alle proteste, sono andata alla prima manifestazione che c’è stata a Roma quando tutto era ancora chiuso. La contestazione è sempre positiva e mai perfetta, non so dove ci porterà, ma l’importante è avere una reazione. Hanno fatto finta che fosse tutto come prima, la gente crede che i teatri siano aperti, invece così non è. Il Teatro Vascello di Roma, per esempio, è chiuso, ed è uno dei pochi posti a Roma dove si fa sperimentazione. L’ideale sarebbe, secondo me e Antonio, finanziare lo spazio e aprirlo a tutti.
AR: I problemi economici sono importanti, perché se non hai i soldi sei costretto a dipendere da qualcuno. Ci sono problemi contingenti che riguardano le bollette, gli affitti, la vita, il mangiare. Ma qui si parla solo di soldi. Lo Stato ha fatto una prova tecnica di sottomissione, la prossima volta si mancherà ancora più di rispetto alla cultura. Uno Stato che vive sul turismo, dove le opere dei morti mantengono in vita l’economia di una nazione, non può mancare così tanto di rispetto ai vivi, che saranno i morti di domani e che producono arte oggi. Non che tutti producano arte, ci mancherebbe, ma siccome io mi sento un vivo che produce arte esigo rispetto da uno Stato che non riconosco.
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