La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza: Intervista a Les Moustaches

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza: Intervista a Les Moustaches

«Le aspettative erano molte, cercavamo da tanto tempo una risposta positiva perché, dopo aver lavorato a lungo sul nostro progetto, per noi era una tappa importante, anche per riprendere fiato». Ludovica D’Auria riassume così la “difficilissima storia” della vita di una giovane compagnia teatrale, Les Moustaches, vincitori del premio miglior spettacolo del Roma Fringe Festival con La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza.

La menzione recita che il riconoscimento viene assegnato: “Per la compiutezza del lavoro, per l’innovazione di una lingua, per l’equilibrio dei rapporti tra gli attori, per una regia accurata che ha saputo costruire anche con pochi elementi scenografici un’opera suggestiva ed evocativa del contesto poetico della storia”.

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – Les Moustaches

Sul palco del Teatro Vascello, Ludovica D’Auria, regista dello spettacolo insieme ad Alberto Fumagalli, ha presentato gli attori Francesco Giordano, Giacomo Bottoni e Antonio Orlando. Insieme a loro erano presenti anche Giulio Morini, direttore di scena che ha realizzato anche i costumi e Tommaso Ferrero che si è occupato di luci e suoni. 

È un periodo favorevole per Alberto Fumagalli e Ludovica D’Auria, i quali hanno recentemente vinto anche il Milano Off Fringe Festival con l’opera Il giovane Riccardo. Nel suo discorso durante la premiazione, ringraziando la giuria, D’Auria ha ricordato che i tre premi ricevuti nella serata del 24 gennaio rappresentano una vittoria dal sapore speciale. Tutte le difficoltà incontrate durante il percorso sono state superate grazie alla perseveranza e alla tenacia di un gruppo solido che non ha mai smesso di credere nella validità e nella forza di questo progetto. E, come testimonia Ciccio Speranza, sognare rappresenta una possibilità, per tutte le donne e gli uomini, in qualsiasi tempo e contesto sociale. 

Iniziamo la nostra intervista con una riflessione a posteriori sulla vittoria del Roma Fringe Festival 2020 e sul vostro  spettacolo La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza

Ludovica D’Auria:  Ricevere una conferma dall’esterno è un obiettivo importante che volevamo raggiungere. La nostra vittoria al Roma Fringe Festival è stata come un’iniezione di sicurezza, di stima e di certezza sul lavoro. Ci ha dato tanta adrenalina e la voglia di ricominciare a lavorare.

Alberto Fumagalli: Questo spettacolo non porta soltanto la firma di un drammaturgo, di un regista, di un direttore di scena o un tecnico delle luci. È firmato da una squadra, senza la quale non si va da nessuna parte. È la capacità di remare nella stessa direzione, l’essere tutti convinti del progetto da portare in scena. Con Giacomo Bottoni, Antonio Orlando e Francesco Giordano è stato un amore a prima vista. Loro erano i profili perfetti per interpretare i tre personaggi. Ci siamo sentiti telefonicamente, li abbiamo visti in scena, c’è stata una condivisione molto umana e una simpatia immediata. A loro ho dato le chiavi della mia macchina: il nostro è stato un corteggiamento molto veloce prima di innamorarci per tutta la vita.

“La campagna è un compito, una tradizione, un volere di Dio”. In questa battuta c’è l’essenza dello spettacolo?

Alberto Fumagalli: Volevamo raccontare la campagna lombarda, un luogo non così vicino dalla città, dalla metropoli. Una periferia poco descritta, poco conosciuta. Se nasci lì, in una fattoria della mia provincia, ti viene assegnato fin dalla nascita un compito, che è quello di portare avanti il corso di quella fattoria. Dal coltivare la frutta e gli ortaggi, all’allevamento del bestiame. Sembra una cosa un po’ retrò, ma esistono ancora luoghi così che non hanno tanti microfoni. Per questo noi, con un certo orgoglio, abbiamo voluto narrare una periferia che è raccontata poco. Faccio un esempio: Suburra e Gomorra sono periferie lontane dal cuore della città, però hanno una visibilità che rivela la loro esistenza. I luoghi che noi abbiamo portato in scena, invece, non hanno microfoni né telecamere. Sono un po’ come L’albero degli zoccoli, però esistono e ci sono tante persone che gravitano intorno a quel micromondo. 

Il concreto e l’astratto, la fame e la speranza, scandiscono il passaggio dalla vita alla morte?

Alberto Fumagalli: La speranza è sicuramente il filo conduttore, oltre a essere il cognome dei tre personaggi. Aggancia il correre delle stagioni, dall’estate sfortunata con la moria delle bestie e un caldo molto pesante, fino all’autunno molto generoso. La speranza appartiene a tutti e tre, ma solo uno di loro ha anche qualcosa in più, ovvero un sogno.

Ludovica D’Auria:  Secondo me più che di un passaggio si tratta di una convivenza, nello stesso momento, della vita e della morte che è anche una costante, una caratteristica peculiare della fattoria. Noi, a proposito di questo, abbiamo fatto un’esperienza molto bella, siamo stati ospiti di una famiglia di contadini che abita a dieci minuti da dove abita Alberto, avendo la possibilità di vivere la vita di campagna. 

Giacomo Bottoni:  Si è trattato di vedere come realmente lavorano, capire che tipo di sensibilità hanno quelle persone. Come affrontano quella linea sottile tra la vita e la morte: abbiamo assistito alla nascita di un vitellino. Per noi era una cosa meravigliosa, per loro era normale come lo era il fatto che, il giorno dopo, lo stesso vitellino sarebbe andato a morire. Quella normalità delle cose ci ha aiutato a capire i sentimenti di quelle persone, il legame con la terra, il loro modo di lavorare. E quanto la vita e la morte siano importanti per ognuno di loro, perché mandano avanti la storia.

La ricerca di tre attori con differenti fisicità ha favorito e implementato l’utilizzo del corpo come vettore di linguaggio espressivo?

Ludovica D’Auria: Cercavamo delle fisicità molto precise e le abbiamo ritrovate in maniera perfetta nei nostri tre attori che hanno incarnato altrettanti personaggi molto diversi l’uno dall’altro. 

La regia è molto fisica sia per l’ambientazione del nostro spettacolo sia per le modalità di sviluppo e di lettura da parte del pubblico. Ogni attore ha realizzato il suo percorso a seconda delle caratteristiche del personaggio. Pian piano, durante le prove, ognuno ha trovato il modo di esprimere al meglio la propria fisicità in connessione con le energie che venivano portate all’interno dello spettacolo. Il lavoro fisico più specifico è stato fatto su Ciccio, Francesco Giordano, che doveva confrontarsi con il ballo, qualcosa che non aveva mai fatto fino ad allora. All’inizio cercavamo delle coreografie che a livello di emozioni, di sensazioni portavano pochissimo perché non avevamo davanti un ballerino, ma un attore. Abbiamo capito che Francesco/Ciccio doveva trovare dentro di sé la sua danza e quindi il “moto”, per capire come il corpo può liberare quel che si prova. 

Francesco Giordano: Il percorso per trovare le movenze è stato meraviglioso. Siamo partiti con l’idea di una coreografia che però ha un po’ ingabbiato i movimenti. Con Ludovica ci siamo interrogati a lungo su quello che volevamo esprimere. L’idea è stata quella di trovare una modalità di comunicazione con la gestualità di un attore: recitare con il corpo. La danza è un linguaggio che mi ha sempre affascinato, ma non mi appartiene perché non sono mai stato un danzatore. Io e Ludovica abbiamo fatto le prove in una fredda biblioteca per ragazzi di Fara Gera d’Adda. Ci sono stati momenti molto belli, di abbandono e di fiducia. Mi sono sentito libero di poter esprimere quello che volevo dire con il mio corpo. Non avevo avuto la possibilità di poterlo fare, da attore, fino ad allora. È stata la mossa vincente. La volontà di non avere uno schema definito consente al pubblico di trovare una chiave di lettura ogni volta diversa. Trovo interessante che il livello di comunicazione del corpo possa essere diverso da quello della parola. 

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – Les Moustaches
Foto di Simona Albani

Come avete costruito e caratterizzato i personaggi di Dennis, Sebbastiano e Ciccio Speranza?

Antonio Orlando: Costruire il personaggio di Dennis è stato abbastanza complicato. È talmente scritto bene che io credo di aver capito il 75% di quelle sue profondità che sono ancora tutte da scoprire. Grazie alla distribuzione del prossimo anno con il premio del Fringe, avremo modo di conoscere meglio Dennis. Le bellissime didascalia scritte da Alberto sono state un fondamentale punto di partenza per me.  “Entra Dennis, sembra una scimmia scema, ma è soltanto Dennis”. Questa è una delle prime e già racconta molto. Osservandomi intorno mi sono reso conto che l’80% della popolazione cammina con i piedi divergenti, in particolare le persone che fanno lavori fisici. Dennis ha i piedi così, è un personaggio che è sottoposto a sforzi estremi e ha in sé questo retaggio. Tutto ciò che viene fuori da lui sono risposte agli impulsi degli altri personaggi. È un giovane uomo che ha in sé sia la tenerezza di Ciccio, sia le convinzioni del padre. 

La campagna è un dovere, così come tutte le circostanze che orbitano intorno a quel luogo e alle persone che lo abitano. Poco prima del debutto, ci è stata data l’indicazione di non sposare questi personaggi, di trattarli come dei carnefici, sono tre uomini che involontariamente si fanno del male a vicenda: da Ciccio che libera la collezione di lucciole di campo, a Dennis che dice al fratello di rimanere e non realizzare il suo sogno, per finire con Sebbastiano, il quale nonostante capisca l’ambizione del figlio gli ricorda che l’unica strada da seguire è il dovere. Questi personaggi, seppur mossi dalla volontà di fare del bene, finiscono per ferire e intrappolare.

Giacomo Bottoni: Per me è stato molto difficile avvicinarmi ed entrare nel personaggio di Sebbastiano. Credo di essere una persona buona che cerca sempre di dare agli altri e di ricevere, mi piace condividere. Sebbastiano è molto più duro perché la vita lo ha indotto a crearsi una sorta di corazza: prima a causa dell’abbandono della moglie, poi per la responsabilità di mandare avanti una famiglia crescendo due figli maschi. È un uomo che deve fare il padrone, ha un ruolo preciso e delle responsabilità, anche per questo non intende mostrarsi mai debole agli occhi dei figli. Sebbastiano per me è stato importante perché mi ha fatto ritrovare qualcosa che da piccolo avevo vissuto: anch’io vengo dalla campagna, sono marchigiano, mio nonno ha fatto il contadino. La difficoltà che ho avuto, invece, deriva dal fatto che mio nonno era l’esatto contrario di Sebbastiano. Lui è stato una persona fondamentale per me; se sono arrivato a fare questo mestiere è stato grazie a lui che era un cantore, amava stare al centro dell’attenzione. Volevo regalargli qualcosa, nonostante fosse completamente diverso dal mio personaggio. Ho cercato di trovare qualche tratto fisico, qualche somiglianza: con la camminata zoppicante, la durezza nei movimenti, ho cercato di ricordare mio nonno che aveva delle mani grandissime. Questo è uno spettacolo che permette ogni volta di trovare qualcosa di nuovo e di diverso perché dentro ci sono tanti sentimenti, tante emozioni

Francesco Giordano: Come attore ho sempre interpretato ruoli molto potenti, per me lavorare in sottrazione è stata una possibilità enorme. In realtà, è togliendo che si aggiungono più cose di se stessi all’interno di un personaggio. Abbiamo lavorato sulla figura di Ciccio ricercando la leggerezza di un bambino, l’ingenuità. Questa è stata la chiave che abbiamo trovato insieme, definendo le caratteristiche, recuperando il disincanto di credere realmente ai propri sogni, alla possibilità di danzare. Non pensando da adulti, ma da bimbi. All’inizio è stato un po’ un trauma fare a meno di tutte le mie certezze attoriali, a partire dalla timbrica vocale. Poi però ci siamo sciolti, si è trattato di un lavoro che abbiamo fatto insieme preparando lo spettacolo in residenza. Abbiamo vissuto come una famiglia per più di dieci giorni, condividendo il sonno, il cibo, le risate. 

Ci sono state delle tappe intermedie, nella definizione dello spettacolo,  dai giorni della residenza al debutto alla Pelanda con il Roma Fringe Festival?

Alberto Fumagalli:  Dalla residenza alla Pelanda ci sono stati diversi passaggi. La storia di Ciccio Speranza si è un po’ cicatrizzata, come accade spesso ai lavori delle giovani compagnie. Il tentativo di sbarcare il lunario passa attraverso i festival, i bandi e le residenze. Ma, di volta in volta, il vincitore può essere solo uno. Bisogna costruirsele da sé queste possibilità. Grazie al comune di Fara Gera d’Adda, alla mia meravigliosa famiglia formata da mamma, papà, fratello e cani abbiamo realizzato la possibilità concreta di aprire le porte di una comunità, una piccola Woodstock sulle rive del fiume Adda dove gli artisti possono incontrarsi e ricercare. Siamo passati attraverso diversi Festival, con le loro regole e i loro meccanismi, da cui si rischia di uscirne provati. È successo che siamo arrivati fino in fondo e poi non siamo stati scelti per la cartellonistica della stagione. In altri contesti, siamo arrivati in semifinale ma poi sono state premiate altre compagnie. Alla fine è arrivato invece il riconoscimento e il premio del Fringe che ha fatto molto bene alla nostra compagnia. C’è stato un percorso di abbattimento totale per poi rinascere. Da un punto di vista drammaturgico, ho avuto un momento di grande blocco. Dalla prima scrittura alla forma definitiva, a mio parere, i testi devono superare almeno una dozzina di stesure. Quando abbiamo fatto una delle prime letture nella mia cucina tutti insieme, più che ascoltare le battute io guardavo le facce degli attori. Ricordo di aver detto a Ludovica di essermi sentito nel pieno di una crisi creativa che è stata risolta con una mossa molto intelligente, quella di collaborare con un giovane fotografo, Matteo Buonomo. È stato proprio lui, con i suoi ritratti, a mostrarmi come erano i personaggi e da lì ho capito che il testo sarebbe andato verso un’altra direzione. La pazienza, lo spirito di ricerca, la conoscenza sono caratteristiche che fanno parte del nostro gruppo artistico e ci hanno permesso di superare tutte le difficoltà. 

Giacomo Bottoni:  Un giorno Alberto ci ha chiamati tutti e tre perché era un po’ preoccupato. Voleva capire delle cose, cancellare tutto quello che avevamo fatto fino ad allora. È così grande la fiducia che nutro per lui che non mi sono spaventato nemmeno per un secondo. In quella circostanza gli ho risposto di togliere tutto e ricominciare perché credo che le porte in faccia che abbiamo preso siano servite. La pazienza che abbiamo avuto nell’aspettare il momento giusto ci ha permesso di realizzare qualcosa in cui abbiamo tutti creduto. Da noi attori, ad Alberto e Ludovica, a Giulio Morini, Tommaso Ferrero e lo stesso Matteo, il fotografo, che è stato con noi una settimana e che è entrato a far parte di questa grande famiglia, il cui punto più alto è rappresentato da Nives e Fulgenzio, i genitori di Alberto. Due persone che sono state fondamentali per le nostre vite e per lo spettacolo. Fara Gera d’Adda è ormai una seconda casa. Tutto questo ha evidenziato e rafforzato sempre di più la fiducia tra di noi.